‘Giovani ci siamo amati senza saperlo’, un romanzo di Emanuele Pettener

Emanuele Pettener è professore di Lingua e Letteratura Italiana alla Florida Atlantic University e vive negli Stati Uniti dal 2000. Nonostante faccia parte dei tanti intellettuali che hanno lasciato il Belpaese in cerca di opportunità migliori e giusti riconoscimenti non ottenuti in patria, Pettener non smette di rivolgere uno sguardo sempre affettuoso e nostalgico all’Italia. In qualche occasione ha confessato di sentirsi italiano in America e americano in Italia. Giovani ci siamo amati senza saperlo è il suo quinto romanzo, un elogio sensoriale alle passioni giovanili nella Venezia degli anni ‘90.

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Giovani ci siamo amati senza saperlo, Emanuele Pettener
(Arkadia 2022, p. 118, circa 14€)

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Venezia

Venezia. Qualcuno ebbe a scrivere: non sai mai se sia una città o un sogno. Per capire meglio questa sensazione devi aver passeggiato per le calli più ascose, sostato su una panchina solitaria in un campiello non battuto dai forestieri, devi esserti affacciato sui canali a respirare l’odore notturno della laguna dopo aver attraversato ponti da cartolina nella sera umida, quando a volte all’improvviso una nebbia finissima cala inseguendo un tramonto di fuoco e le poche creature autentiche, rimaste in giro dopo la dipartita dell’ultima orda giornaliera di turisti, si trasformano in ombre eteree e sommesse che incrociano a stento il tuo cammino. Anzi, a volte spariscono anche quelle, e allora Venezia diventa una fuga assoluta dal tempo e si trasforma in un deserto di “pura bellezza senza la parvenza di un umano, di un piccione, di uno squittio. Sembra sia sorto in quel momento per te, magicamente, e magicamente sparirà una volta che l’avrai attraversato, con i suoi archi di pietra bianca, con le sue imposte verde bottiglia.

Questa è la preziosa atmosfera che si respira nell’ultimo romanzo di Emanuele Pettener, Giovani ci siamo amati senza saperlo (Arkadia, 2022), nel quale non c’è posto per una Venezia decadente, morta e spacciata, come la dipingono Thomas Mann o Charles Aznavour, ma una Venezia avvolta da una più frizzante malinconia autunnale, bella e misteriosa, sacrale e poetica, come quella cantata da D’Annunzio ne Il fuoco. Non importa che il capolavoro dannunziano sia stato dato alle stampe allo scoccare del 1900 mentre la storia di Pettener si svolge novant’anni dopo: la passione che infiamma i protagonisti arde con lo stesso vigore; la magnificenza di Venezia è immutata, come incastonata tra i granuli di un pezzo di giada che dà il colore ai suoi canali.

Il tempo

Settembre era il vero inizio, altro che quel poveraccio di gennaio, ai propositi di gennaio non ci credeva nessuno, era a settembre che iniziava la stagione, il nuovo anno, quello che lanciava garanzie di successi e promesse di trionfi”. La storia ha dunque inizio con le prime folate di vento che annunciano l’autunno. Non potrebbe essere altrimenti: non solo abbiamo ricordato che la bellezza di Venezia è più struggente e invincibile in questa stagione, ma, trattandosi di una storia che ha per protagonisti alcuni studenti universitari, settembre è soprattutto il mese del preludio alle lezioni e all’inaugurazione del nuovo anno accademico. Il calendario che si resetta dopo la lunga pausa estiva è quello che portano nel cuore tutti gli studenti di questo mondo (almeno nel nostro emisfero boreale), che li fa palpitare al pensiero di nuovi incontri serbati dal destino insieme al pensiero di vecchie e nuove aspettative, che spesso si rivelano troppo complicate quando si tenta di mettere d’accordo gli obiettivi personali e quelli della famiglia. Ma il nuovo anno accademico è anche nel cuore, se non addirittura nell’organismo e fino all’ultima fibra, di ogni docente universitario, proprio come l’autore Emanuele Pettener, che insegna in un college americano e che deve conoscere bene quella tensione euforica che emana da tanti giovani assembrati tra i banchi della platea: bastano i loro vent’anni per elettrizzare l’aula che condividono di giorno e gli appartamenti e i locali che frequentano dopo le lezioni. Questa magica ciclicità si innesta con prepotenza nel racconto di Pettener, come un “temporale [che] s’avventa furioso sulla città, sulle crepe d’agosto, lavando via polvere e vecchi desideriper fare spazio a un nuovo anno, a desideri novelli.

I desideri

Già, i desideri. Ma quali desideri? Di certo quelli plastici, malleabili e irruenti che muovono i tre giovanissimi adulti protagonisti di questo romanzo, ragazzi spesso un tantino impacciati a causa dell’inesperienza ma bramosi di sperimentare fino a bruciarsi, fino a spingersi a un passo oltre la misura del sostenibile. I tre ragazzi si chiamano Ema, Rodrigo e Feli. I primi due sono due coinquilini appena conosciutisi: Ema è il fortunato proprietario di un appartamento ereditato dalla nonna, il padrone di casa che svolge la funzione di narratore autodiegetico, e Rodrigo il suo coinquilino di adonia bellezza. Quest’ultimo si lega a una ragazza il cui fascino è obnubilato da una patina di tristezza, ma quando l’esuberante Ema, che ne diventa inevitabilmente amico, riesce a squarciare la coltre che avvolge Feli e posa finalmente lo sguardo sulla genuina bellezza dell’animo di lei, ecco che l’equilibrio fra i tre sodali ne risulta alterato. Ema infatti sente l’amicizia con Rodrigo, mentre nutre verso Feli un’attrazione peculiare non solo fisica ma anche immateriale, o “rapita fuor de’ sensi”, per dirla con D’Annunzio.
Il turbine dei sentimenti che avvolge il terzetto si trasforma presto in un vortice emozionale di non facile interpretazione, in dionisismo separato dalla corporeità, in goffo tentativo di coniugare l’eccitazione per l’ignoto con il timore per la sperimentazione. Sui piatti della bilancia ci sono, da un lato, l’amicizia che non si vuole incrinare e, dall’altro, il desiderio al quale ci si oppone a fatica. Regna così la confusione dolce dell’inesperienza giovanile unita alla sua leggerissima inconsapevolezza, ingredienti che non a caso ritroviamo nello stesso titolo del romanzo, tratto da un verso di William Butler Yeats: young / We loved each other and were ignorant (letteralmente: “giovani ci amammo reciprocamente ed eravamo ignoranti”). Nella traduzione di Montale, certamente più raffinata, l’ignoranza è resa proprio come mancanza di consapevolezza: giovani / ci siamo amati senza saperne nulla. Questa è invero la chiave del romanzo di Pettener, che elargisce al lettore ampie pennellate di slanci, impeti e frenesie ancora scontornate nella loro ingenuità.
All’affiatato trio si aggiunge per qualche frangente Barbara, ragazza di giunonica avvenenza, dai conflitti interiori molto ordinari e dalle aspirazioni un po’ dozzinali. La sua presenza è necessaria per ricordarci che la natura della relazione che lega Ema, Feli e Rodrigo appartiene a un altro ordine esistenziale, quasi metafisico, che malvolentieri riesce a mescolarsi con le lagne di una mediocre quotidianità.

I nomi

La sorte di ciascun protagonista è segnata dal proprio nome. Barbara, come ci rivela il narratore ispirandosi apertamente al vezzo dannunziano di affibbiare nomignoli alle amanti, è “interessante” in quanto foriero di calde, superbe e selvagge passioni che, però, non sembrano oltrepassare l’ambito della fisicità. Poi c’è Rodrigo, il quale in un paio di occasioni non sa dissimulare una competitività troppo accesa e la voglia di prevaricare sugli altri: fin troppo facile, qui, il richiamo al don Rodrigo di manzoniana memoria, privo di scrupoli e capace di mettersi di mezzo tra due amanti – se non per puro capriccio, almeno per frustrazione – ma ancora più calzante il riferimento al gentiluomo veneziano Roderigo, partorito dalla penna di Shakespeare. Roderigo ama Desdemona ma è deluso perché Desdemona è innamorata di Otello. Il rimando alla celeberrima tragedia shakespeariana, caratterizzata da gelosie e amanti che si rincorrono, ha certamente una relazione con il romanzo di Pettener.
Poi ancora c’è Ema, ovvio diminutivo di Emanuele, narratore che gioca a confondersi con l’autore empirico del romanzo, con il quale dunque condivide il nome di battesimo ma anche altre caratteristiche demografiche, tra cui la città di provenienza (Mestre) e la passione per lingue straniere e letteratura. Ema non è solo un tentativo di indurre il lettore ad accarezzare l’idea che possa trattarsi di autofiction, ma soprattutto il manifesto di un destino di Passione: αἷμα in greco vuol dire “sangue”.
E infine incontriamo Feli – al contrario di Ema, più soprannome che diminutivo. Feli sta per Felicita, ribattezzata tale da un amico appassionato di poesia (l’allusione a Gozzano è adamantina). La sua felicità dura fino al diciannovesimo anno, poi qualcosa si rompe. La vita va in frantumi, specie per gli affanni che riguardano la sfera familiare, e questo è qualcosa che accomuna Feli a Rodrigo. Il romanzo sembra suggerire che il compimento dei vent’anni segna uno spartiacque nella vita di una persona, si abbandona la spensieratezza e la serenità, si annuvola l’orizzonte. La citazione di un celebre incipit di Paul Nizan non lascia spazio alla brutalità di certe conclusioni: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. A questa età, infatti, si fa esperienza di separazioni e dolori. Feli diventa l’ossimoro della sua stessa condizione, l’infelice Feli, felice nel nome ma ferita nell’animo, e ancor più ferita per il dolore dei propri cari: “gli occhi le si riempirono di lacrime. Sopportare il proprio dolore era un conto, ma sopportare il dolore delle persone che più amava? Sul primo poteva avere qualche controllo, ma sul secondo si sentiva totalmente impotente”.
Feli si trasforma dunque in in-Feli-ce. È una metamorfosi che però la rende attraente, irresistibile, fuggevole, ed è così che il lettore la incontra nelle prime pagine, alla sua entrata in scena nel romanzo – già bella e trasformata. Ema, che oltre ad essere un ragazzo dal temperamento sanguigno possiede anche un fervido umorismo, durante una conversazione si prodiga in un buffo gioco di associazioni bislacche tra nomi propri e le presunte tendenze caratteriali. Poi, dopo una lunga disamina (comica) di Roberti omosessuali, Pietri testardi, Paoli dal naso grosso, Caterine stitiche, Laure bionde e Lise gattemorte, arriva il turno di Feli. Stanno fumando una sigaretta, un po’ appartati, una delle prime volte in cui si trovano da soli, ed Ema prova a sollevarla dalla cronica malinconia con le sue battute da spaccone, mormorando mezze verità tra le righe, parole fuggevoli che, se còlte, rivelano un incipiente amore mascherato tra tante allusioni salaci.

«Oh, le Feli – le Feli indossano calzettoni fucsia, purtroppo, ma ti fanno impazzire, sono miracoli di malizia e oscenità, d’altro canto Feli a cosa può condurre? Feli, Feli, oh Feli – fellatio.» E le guardai la bocca, spudoratamente.
«Sei un porco», sussurrò da quelle labbra, muovendole
appena, procurandomi una scossa al basso ventre.
«Certo.»

Le maschere

L’umorismo di Ema è uno stratagemma per affrontare le difficoltà, per reagire al dolore, anche al dolore altrui di cui è testimone; il motto di spirito è un modo per sdrammatizzare quel dolore, attenuandolo, mascherandolo, proprio come le facce di cartapesta carnascialesche che schermano le vite grame e grigiastre di coloro i quali prendono parte ai festeggiamenti e fingono di divertirsi.
La bravura dell’autore consiste proprio nell’alternare momenti di alto lirismo a battute sferzanti. Essere privi di umorismo è quasi una colpa; avere la battuta pronta, un pregio. Rodrigo, per esempio, è privo di umorismo e probabilmente è questa mancanza a fargli imboccare un vicolo cieco dal quale drammaticamente non potrà più tornare indietro: l’assenza di umorismo, ovvero l’incapacità di reagire con ironia alle inevitabili aggressioni della vita, gli farà perdere quel tocco di umanità che separa il dramma dalla risata, la farsa dalla tragedia, la ragionevolezza dall’irrazionalità.
L’umorismo si presenta dunque come antidoto per non lasciarsi sopraffare dal dolore o per affrontare ciò che è spiacevole tenendo vivo il barlume di un (a volte ingiustificato) ottimismo. La risata è essa stessa una maschera, un abbozzo di pianto trattenuto; pur tuttavia è innegabile la presenza di note positive disseminate nel testo. Abbiamo già detto dell’amore per Venezia che trasuda da ogni descrizione, come quando si accenna alla “luna […] che si bagna[…] nei canali […] intessendoli di trame d’argento”. Persino quando si parla di cattivi odori, Pettener usa termini più aulici come “afrore”, che fa pensare a un vino acerbo di Dioniso e suona bello come il nome di Afrodite, la “dea nuda e capricciosa” che si bagna nei canali, e i canali emanano odore di cetriolo e pesce arrosto piuttosto che fetore di alghe in putrefazione.
Lo stesso atteggiamento benigno si estende, infine, a un altro ambito dell’universo narrativo contenuto nel romanzo e tocca l’essenza della famiglia o, più precisamente, la preoccupazione nei riguardi dei familiari. C’è in questo affanno una componente tipica della gioventù (a conferma del titolo) che, non ancora slegata dai lacci della figliolanza, idealizza la genitorialità e ripone in essa ogni sforzo per comporre la minima incrinatura che intacca gli affetti familiari: Barbara è ben lieta dei legami tra i suoi e i consuoceri più che del legame che lei stessa trascina da tempo col proprio fidanzato storico; Feli è affranta dall’allontanamento del padre, ma principalmente dal dolore che la separazione ha causato alla madre e al fratellino; Rodrigo, senza padre, è alle prese con una madre gravemente ammalata; Ema è affranto per la brusca recisione che lo ha inaspettatamente e irreversibilmente allontanato dai suoi cari e condannato in eterno a un utopico quanto “lacerante […] desiderio di accudirli, accarezzarli, stringerli”.

E così, sotto un cielo cangiante, che nella stagione narrata sovrasta Venezia di bianco, grigio, nero, blu, blu di Persia e cobalto, si celebra il dramma dell’Eterna Giovinezza, la quale appare dorata solo a chi la osserva dall’esterno con un occhio nostalgico, mentre essa invece brucia, e a volte consuma tragicamente chi la vive dentro con una tale profondità al punto da lasciarsi avviluppare dalle sue vorticose fiamme.

Giuseppe Raudino

L’AUTORE: Emanuele Pettener è nato a Mestre. Insegna Lingua e Letteratura italiana ed è “writer in residence” alla Florida Atlantic University (Boca Raton, Florida), dove nel 2004 ha conseguito un Ph.D in Comparative Studies. Ha scritto numerosi articoli e racconti apparsi su riviste statunitensi e italiane. È autore dei romanzi È sabato. Mi hai lasciato e sono bellissimo (Corbo, 2009), Proust per bagnanti (Meligrana, 2013) e Arancio (Meligrana, 2014). Ha pubblicato il saggio Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante (Cesati, 2010) e, in inglese, la raccolta di brevi racconti A Season in Florida (Bordighera Press, 2014, traduzione di Thomas de Angelis). Ha curato il cinquantesimo numero della rivista “Nuova Prosa” (2009).

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Giuseppe Raudino
Giuseppe Raudino nasce a Catania nel 1977 ma vive a Siracusa fino agli anni del liceo. Si appassiona presto al giornalismo, attività che porta avanti insieme agli studi in Scienze della Comunicazione presso l’università di Siena, dove si laurea con una tesi in Semiotica su Umberto Eco nella quale ne analizza gli scritti teorici sul comico e i giochi linguistici. Nella metà degli anni 2000 si trasferisce definitivamente in Olanda per insegnare materie inerenti a giornalismo, teoria dei media, antropologia e metodologia della ricerca presso l’Università di Scienze Applicate di Groningen. Accanto all’attività accademica, Giuseppe Raudino si dedica anche alla narrativa. Tra le sue pubblicazioni più recenti ci sono due romanzi, entrambi usciti nel 2019: 'Mistero nel Mediterraneo' (Genesis Publishing) e 'Stelle di un cielo diviso' (Alessandro Polidoro Editore) e nel 2022 "Quintetto d'estate" (Ianieri Ed.)

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