Per me anche a Natale Dio non c’è

A me, bambino nell’Italia di un tempo già lontano, il Natale appariva come una promessa grande, immensa. Ricordo (ero alle elementari) di aver guardato il calendario ed essermi detto: ma ti rendi conto, tra una settimana è Natale! Arrivavano i regali. Quelli (bellissimi) dei miei zii avevano il sapore di una inattesa modernità. Il gioco del dottore: stetoscopi luminosi e sonori, martelletti, termometri. Era accompagnato da qualche battuta (« vedrai tra qualche anno come ti piacerà giocare al dottore”), che faticavo a comprendere. Il Meccano, celebre gioco di costruzioni: bellissimo, ma poco adatto a me, preso dai miei sogni e poco portato alle cose pratiche. Il Subbuteo, meravigliosa riproduzione del gioco del calcio, nato in Inghilterra e portato in Italia da uno dei soci fondatori della Sampdoria (Edilio Parodi): ai miei occhi creava, anzi ri-creava il mondo. C’era la preparazione dei ravioli, a cui avevo il diritto, del tutto eccezionalmente, di partecipare; macinando la carne con una macchinetta a manovella, e richiudendo i lembi della sfoglia sulle pallottole del ripieno.

Alla messa (non quella della vigilia; non si usciva di casa, la sera) io e il mio amico più caro intonavamo le canzoni del Natale storpiandone le parole. Oh bambino pargol divino diventava oh bambino puzzi di vino. Santo il Signore diventata Sardo il Signore. Non c’era neanche bisogno di concordare le storpiature tra noi; venivano da sé. Quella dissacrazione ci univa al mistero  che si agitava là in fondo, nella chiesa affollata di persone. Il mistero di Cristo che nasce a Natale e poi muore come tutti si muore, in un bel giorno di primavera: mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina, ahi Padre, mi inchiodano le mani e i piedi, scrive il poeta Mario Luzi  (“La Passione. Via Crucis al Colosseo”). La religione era conformismo e ipocrisia, cultura dominante, una melassa in cui affogare. Era il prete dall’aria dimessa e sgualcita che recitava litanie per dovere, senza convinzione. Eppure, vi si annidava un residuo di mistero. Un mistero inesprimibile dentro cui si agitavano le domande dell’infanzia. Perché io sono io e non sono te? Perché non sono qualcun altro? Dove ero quando non c’ero? Rivedrò i miei genitori un giorno, quando saranno morti e poi un giorno sarò morto anche io?

La festa natalizia portava poi la disillusione, il suo mancato compimento, il disincanto. Ogni anno mio padre prometteva di portarmi ai baracconi, termine usato a Genova per il Luna Park. Per qualche anno credetti alla promessa, invariabilmente disillusa con qualche pretesto. Poi smisi di crederci. Alla fine dell’infanzia, dice Montale, l’inganno della vita fu palese. Con la fine dell’infanzia smisi di aspettare il Natale, e i baracconi. Quelle domande restarono senza risposta. Il Cristo inchiodato sulla croce, il corpo magro, scavato, sensuale, devastato dal dolore, che io e il mio amico prendevamo un po’ in giro (forse sperando di snidarlo, di udirne la voce) è rimasto silenzioso.

Il teologo Sergio Quinzio (in un libro difficile, urticante, meraviglioso) parla della Sconfitta di Dio : il non avverarsi della promessa divina. Dio sarebbe a suo modo impotente. Incapace di tenere fede alle promesse della rivelazione. Un Dio (absit iniuria verbis, e Quinzio lo dice in altro modo) millantatore. Prigioniero di un’ambizione irrealizzata. Claudio Magris, in Danubio, parla di un povero coniglio messo a morte. Senza avere mai chiesto di essere messo al mondo, è stato condannato a un supplizio che non ha giustificazioni. Come quello del malato che muore torcendosi di dolore. Della donna bruciata viva come strega. Della vittima della guerra torturata o uccisa. Del bambino solo di fronte a un dolore senza spiegazioni: la morte dei genitori, la malattia, l’handicap. Dio non realizza la sua promessa e condanna a supplizi senza ragione né scopo.

Di Antonello da Messina

E allora sarebbe davvero un disastro, un Dio pasticcione, gaffeur? Buzzati scrive: « in cuor suo Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non può perché è stato da lui stesso deciso« . È un Dio (quello di Buzzati, e quello di Quinzio) che appare prigioniero della sua stessa onnipotenza maldestra, e che (come la natura leopardiana, di fronte al povero islandese) sembra declinare ogni responsabilità. Scrive ancora Mario Luzi: ma tu sai questo mistero. Tu solo. Il Natale è diventato ormai, a tutti gli effetti, una tra le tante occasioni di fare un po’ di vacanza e scambiarsi qualche regalo. Eppure, nonostante tutto (nel silenzio di una chiesa vuota, in un Cristo sperduto che ci osserva dall’alto della sua croce, nell’idea di un Dio che non riesce a mantenere la sua promessa, in qualche bambino che, come me un tempo, conta i giorni che mancano al Natale) ecco, in tutto questo forse si annida ancora un residuo di quel lontano incanto.

Maurizio Puppo

Article précédentIl presepe napoletano, un tesoro da salvare. Dal ‘700 ai giorni nostri.
Article suivantVerso la notte Santa di Natale – In viaggio per Betlemme
Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

LAISSER UN COMMENTAIRE

S'il vous plaît entrez votre commentaire!
S'il vous plaît entrez votre nom ici

La modération des commentaires est activée. Votre commentaire peut prendre un certain temps avant d’apparaître.