6. Da una parte all’altra della spiaggia (Fiesa Strugnano Portorož)

Sesta (ed ultima?) puntata del viaggio, con Giuseppe A. Samonà 

Dopo Trieste, ti sei rimesso in viaggio, ti sei fermato a Koper Capodistria, poi a Piran(o); dopo una lunga sosta a piazza Tartini, sei salito sulla collina delle mura, la testa piena di ricordi, di riflessioni: la Storia.

Foto Sophie Jankélévitch

Scendi dalle mura, vai verso la Chiesa di San Giorgio. (Sali se vuoi sul suo campanile, anche se a questo punto non ne hai bisogno, hai già visto tutto.) Da lì, puoi imboccare un sentiero che raggiunge e segue la costa verso nord ovest, sino a Fiesa. Più radicalmente, puoi seguire fra pietre e anfratti la spiaggia. Sei in autunno, o alla fine dell’inverno – se possibile prediligi il mese di febbraio marzo, quando ancora inverno si intuiscono, qua e là si ritrovano, i segni della natura al risveglio – magari al tramonto, all’alba: sono i momenti migliori per capire il mare: quasi vuoto di uomini, come doveva esserlo agli albori dell’avventura di Sapiens. Fra ciottoli, pietroni, scogli, rari gabbiani in volo, o appollaiati, qualche traccia di una remota presenza umana: una pagina di giornale accartocciata, una gamba di bambola. Come nel Planet of the Apes, verso la fine, o ancor di più – con quell’onda che delicatamente copre e scopre la battigia – come nelle acque di Santorini, là dove vicino alla riva le pietre ancora tiepide raccontano del cataclisma e del suo spensierato prima: quando su quel mare regnavano leggeri i Minoici. Stride un gabbiano. Tuo padre ti diceva: per carità, niente aggettivi qualificativi a sfondo estetico-morale, inutilmente vaghi, né le espressioni ad incenso che gli equivalgono, o li accompagnano. (Per es.: bellissimo, ‘cchia bbellissimo, in Sicilia – e soprattutto cfr., almeno in Francia, quelli delle critiche cinematografiche lampo: magnifique magistral du-grand-art impressionnant inoubliable sublime stupéfiant bouleversant éblouissant grandiose jubilatoire renversant poignant haletant attention-chef-d’oeuvre coup-de-coeur, insomma: que du bonheur…) Come trovare allora quello che descriva questo splendore? Tu avanzando lento lungo quello splendido mare… A volte sei obbligato ad alzarti i pantaloni, i piedi dentro l’acqua, per circumnavigare una roccia che avanza, e dietro ti si apre una nicchia nascosta. Così, vai avanti, come inseguendo un’utopia che altro non è che quel tuo stesso andare, con le pietre, l’acqua, i gabbiani. Arrivi a Fiesa, il cui nome sloveno ti suona più italiano e gentile dell’italiano Fiesso – e incontri: il centro abitato disabitato (già! è inverno), un piazzale di cemento che arriva dentro il mare, accenni di parco giochi per bambini senza bambini (già!…), un alberghetto rosa ai limiti di una sorta di laguna che si insinua fra le terre,  o forse è un lago, naturale o artificiale, non saprei – e più in dentro ce n’è un altro, più piccolo.  Dietro un altro alberghetto, un ristorante, anch’essi (eh già: è il terzo!), vuoti di uomini: scenografia di teatro che d’estate, immagini, si animerà di gagliarda vita. Ecco: Creta, il Pianeta delle scimmie sono ombre, illusione – qui non è il passato che parla, è il futuro annunciato: deve ancora succedere tutto …E continui, per un po’ per la costa, poi attraverso l’interno, che sono colline verdissime e tetti di foglie odore di selva, pini, verso sopra di te l’azzuro del cielo, sulla tua sinistra quello dell’acqua. Camminare ancora.

Strugnano, o Strunjan, è accucciata all’indentro dell’omonimo golfo, che anzi scava la roccia e s’insinua, come un golfo nel golfo, poi è laguna, pareti verdi come pellicce boschive, uccelli, tripudio di specie vegetali, sentieri, un sentiero, pini, falesie rosa con chiazze di terra, a strabiombo, lucertole che arrostiscono al sole, eppure è inverno, rocce buttate nel mare, rocce striate sulle pareti – le dicono già in agguato da decine di milioni d’anni, quando avvolgeva la Terra il solenne silenzio dell’Eocene –, pesci, tartarughe, cavallucci marini, e poi terrazze coltivate, saline, ad alternare canali, terrapieni, vasche, ed è un bel perdersi, fino a dove potresti imboccare un viottolo, per salire sulla collina, oppure per un altro viottolo continuare lungo la costa, fra verde e azzurro, carezzando una nuova utopia, indietro sino a Koper Capodistria, o magari addirittura Trieste Trst… Per decidere sosti, e guardi intorno a te, occhio senza più corpo, corpo senza più mente, ad abbracciare l’orizzonte verde, azzurro, rosa. Ritorno. La natura è approntata, ordinata, per un’umanità che ancora non esiste – ma il suo arrivo, predisposto anch’esso, è prossimo: quello della primavera estate che incombe, certo; ma soprattutto, al di là del tempo, quello assoluto di cui tu – drogato dalle ore di marcia nel pizzicore del fresco assolato  – rivedi il primitivo apparire, e poi l’ampio ventaglio di dolori. Non un Eden, in verità (pensi), ma molti hai incontrato viaggiando: questo, cui approdi in un luminoso pomeriggio di fine inverno, lo ricorderai come quello di quando la prima coppia umana doveva ancora inventarsi.

Indietroavanti? verso Portorož

Invece decidi di andare avanti, che tuttavia è anch’esso un tornare indietro – perché all’indietro in un modo o nell’altro non si sfugge – in direzione di Pirano. (Due volte nello stesso giorno lo stesso accidentato cammino lungo costa è troppo, più breve da Strugnano è tagliare per l’interno, a piedi o in autobus). E la mattina ti rimetti in viaggio, ma dalla parte opposta. Il percorso inizia da poco dopo la fermata degli autobus, per sorprendentemente rovesciare il mondo. Solo un giorno, poche ore sono passate: ieri il mare era a sinistra, ora è a destra; ma soprattutto alla selvaggia, misteriosa preistoria, al mondo vuoto che aspetta, succede un cammino prevedibile, più levigato, eppur sempre fascinoso. Integralmente umano, come lo ricorda qualche bar solitario che gentile saluta il tuo passaggio. Sino ad arrivare a St Bernardin, sl., o Bernardino, it. (Come con Piran-o: la differenza fra le due lingue e culture starebbe in una semplice vocale in più o in meno? da questo sarebbero nato tutto l’odio che la storia ha liberato?)

Ed eccoti come impietrito: mai il brutto, anzi l’orrendo ti si è manifestato con tale (quasi) bellezza. St Bernardin(o) è un mostro, un villaggio di moderno-pacchianissimi Hotel(s!), quattro o cinque, ad abbracciare il mare e nel contempo farsene penetrare, predatore predato – sulla mappa o dall’altro sembra la gigantesca chela di un granchio sul punto di sgretolare la sua vittima: che poi altri non è che l’incauto ospite arrivato per dominare, ed è invece inghiottito da un turbine inverosimile di spiagge private, piscine coperte scoperte marine  dolci, centri di benessere, spa, bar, ristoranti, teatro, cabaret, con per finire, inevitabile e un po’ vintage apoteosi del capitalismo, un casinò, piatto, largo, basso, tutto di vetro, sembra, come fosse una gigantesca teca, o bara, trasparente: esposizione del corpo nudo o della morte, denaro e pornografia… Eppure, con quel rosso sangue che è colore dominante nella maggior parte delle costruzioni – il granchio? – e che si staglia contro l’azzurro del mare che avvolto avvolge, sotto il cielo d’azzurro invernale, un’emozione, come un ricordo di qualcosa che appunto è bello ti obbliga a sostare.

Un attimo (che sempre è un fissare l’azzurro, ed è come un tempo infinito). Poi, prosegui. Ora la passeggiata è sgombra, ma sempre qua e là s’affacciano gentili, ti accompagnano, i segni dell’umana presenza (un locale, un cane al guinzaglio, due fidanzati mano nella mano…), ed è proprio quando sia pur discretamente s’intensificano, come un’ombra che appena si addensa, che capisci di esser finalmente giunto a Portorose. Nonostante la pace del fuori stagione, forse perché in contrasto col deserto edenico del giorno prima, ti senti accolto da un dolce, alacre formicolio. D’estate saresti sommerso, sballottato, distratto fra folla, odori, rumori; ora invece quell’andirivieni quieto non ti disturba, solo ti conferma che sei vivo fra i vivi, permettendoti di guardare al cuore di questo nuovo luogo – e capisci che il tuo viaggio sta oramai per giungere al suo compimento. Sono veramente, definitivamente tornato indietro? ti chiedi, mentre tutto quel che riesci a fare è continuare la tua passeggiata, che si è fatta semplicemente più densa d’incontri: cani, bambini che giocano, grappoli di innamorati, siepi ben pettinate, passerelle sul mare, chioschi con cibo e bevande, profumi, e come un odore da stabilimento balneare d’antan. D’altronde, monumenti che valgano una visita, come nella vicina Pirano, non ce ne sono, se si eccettua il sontuoso Palace Hotel, che basta guardarlo e ti sembra di essere sempre agli inizi del secolo XX, dentro il luminoso tramonto di quell’umanesimo integrale che ancora ci informa. Il grande hotel:  che è innanzitutto il gioco da fare per tutti i viaggi, entrare nell’albergo più bello, domandare della stanza più bella. Sosti di nuovo un attimo, di nuovo ricordi: cos’è stato più magico, Istanbul, nel palazzo ottomano a dominare il Bosforo infinito? o Assuan, nel leggendario Old Cataract, avvolto nella notte dell’inaggettivabile Nilo? Cosa può valere al confronto la timida Portorose?

Foto Sophie Jankélévitch.

Già, Portorose, non riesci a pensarla altrimenti: puoi infatti anche dire Koper, o Piran, ma Portorose riesci solo a pronunciarla all’italiana. Anche perché – e sempre sosti – quella grande macchia bianco-rosa che ti sta di fronte, con il mare alle tue spalle, ti ricorda un altro porto delle rose, Rodi, all’estremo oriente dello stesso mare, teatro di altri e più violenti dolori da odio, con un altro lungo mare appiattito, un altro tramonto, che però se solo svolti l’angolo è l’alba, e un altro albergo, il Grande Albergo delle Rose appunto, di pochi anni più giovane (il Palace è costruito nel 1910, il Grande Albergo nel 1925), ma impregnato d’una non dissimile armonia, impasto di Venezia, Oriente, Bisanzio, grandezze imperiali, che siano ottomane o austroungariche in fondo non cambia molto, come non cambia molto, alla vista, se sia ancora Belle Epoque o solo la riproduzione del suo eco svanito per sempre … Forse è strampalato il raffronto, ma è come se gli stessi posti si potessero ritrovare in posti diversi; o forse è  lo stesso posto che cambia a seconda di come e da dove ci arrivi. Avrebbero qualcosa in comune Trieste e Istanbul? Forse, insieme all’acqua, la nostalgia? (Ecco! dev’essere per via di Thomas Mann, di Mahler, che hai scartato dal raffronto il pur somigliantissimo Hotel des Bains: qui non c’è voluttà di dissoluzione…) E ti svegli: entri nel Palace, attraversi le sue vaste sale, immensa quella dove si pranza, ma il dentro delude quel che hai immaginato da fuori, gli spazi non sempre sono ammodernati con grazia, però chiedi appunto la sua più bella stanza, e dal balconcino ti affacci di nuovo sul mare, è il tramonto – per sognare: che non sia sbagliato il raffronto ♫,  ed il tramonto anche qui, proprio qui, possa veramente essere un’aurora…

Portorose, comincia un altro viaggio

Si può curare la malinconia tornando indietro? Se avessi una macchina, se l’elastico non si fosse già rotto, torneresti per blandirla a Trieste. Ma l’indietro, come il passato, è un’illusione, una ferita che si cura solo continuando a inventare, a camminare. Dài, a piedi, lungo la costa, la frontiera con la Croazia – come? già una nuova frontiera? – non fa più di una comoda ora: se solo ti separi un po’ dal mare, la puoi raggiungere attraverso le saline di Sečovlje, in italiano Sicciole, a cavallo fra i due paesi, anzi quando ti ritrovi nella parte sud – ma appunto, hai passato la frontiera – sei oramai in Croazia, e di nuovo puoi seguire il canale, o meglio il fiume, il Dragonja, o Dragogna, che fa da confine, sino all’Adriatico… Altrimenti puoi raggiungere Lucija, ovviamente Lucia, leggermente rientrata a neanche due chilometri, per agganciare l’autobus che s’immerge in Croazia, e così raggiungere Pula, cioè la mitica Pola, quasi all’estremità dell’Istria. Sempre più dentro, nel cuore delle terre che durante tutto il XX secolo hanno liberato, e non una sola volta, demoni che han travolto l’Europa – ma dove anche, speri, è possibile trovare il segreto che ne permetta la sua possibile realizzazione.

Giuseppe A. Samonà

Il viaggio continua? ….

Traccia dei contenuti:
Puntata 1. Trieste, itinerari di viaggio
Puntata 2: Partire da Trieste, itinerari
Puntata 3: Autobus, Koper, Piran, Portorož
Puntata 4: Ma se invece prosegui per Piràn
Puntata 5: (Pirano suite: la Storia…) Salivano i ricordi verso il colle
Puntata 6 (ultima): Da una parte all’altra della spiaggia (Fiesa Strugnano Portorož)

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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