Su “Missione Poesia” di Altritaliani l’Oscar Mondadori: «Poesie. 1986-2014» di Umberto Fiori, per seguire passo passo le orme di questo scrittore che ha fato della sua “voce” una delle voci poetiche più riconoscibili e riconosciute della poesia italiana, a cavallo tra il ‘900 e il 2000, con una chiara impronta stilistica, e un’uniformità esemplare di poetica, il cui contesto culturale di riferimento restituisce una parola fondante della sua peculiarità autoriale.
È nato a Sarzana nel 1949. Dal 1954 vive a Milano, dove si è laureato in filosofia. Negli anni ’70 ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy Six, gruppo storico del rock italiano. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi (per il quale ha scritto due libretti d’opera, Scene e Ballata, e numerosi altri testi), con il fotografo Giovanni Chiaramonte e con i videoartisti di Studio Azzurro. E’ autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007). Del 2009 è Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie, in collaborazione con il chitarrista Luciano Margorani; del 2013 il cd-dvd Benvenuti nel ghetto, con gli Stormy Six e Moni Ovadia.
Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002). L’ultima raccolta è Voi, Mondadori, 2009. Nel 2014 è uscito un Oscar Mondadori che raccoglie le sue poesie dal 1986 al 2014, con un inedito.
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Conosco Umberto Fiori da diversi anni. Lo ascoltai per la prima volta a Bologna, in un evento organizzato da Centro di Poesia Contemporanea dell’Università e, in seguito, l’ho incontrato in diversi contesti culturali, l’ultimo dei quali è stato La Biennale di poesia di Alessandria dove entrambi eravamo protagonisti. Le letture che più mi hanno coinvolto sono state quelle dello scorso anno, ascoltate durante il Festival Internazionale di Poesia a Como, letture nelle quali l’intensità della sua voce – assai riconoscibile nel panorama culturale italiano – mi ha particolarmente colpito e commosso. C’è una sorta di coinvolgimento profondo, che nasce quasi da un ossimorico distacco e disincanto, nel suo modo di raccontare e nel confrontare la realtà con i sentimenti che non può non restare impresso. In questo articolo esamineremo, almeno in parte, il percorso fatto dal poeta attraverso l’esame dei libri inseriti nell’Oscar Mondadori, Poesie dal 1986 al 2014.
Oscar Mondadori, Poesie dal 1986 al 2014
Nella raccolta di Umberto Fiori pubblicata nel 2014 per gli Oscar Mondadori, Poesie (1986-2014), è possibile seguire passo passo le orme di questo scrittore che ha fatto della sua “voce” una delle voci poetiche più riconoscibili e riconosciute della poesia italiana, a cavallo tra il ‘900 e il 2000. Dagli esordi con Case, Esempi, Chiarimenti a libri come La bella vista e Idoli, fino al lavoro più maturo Voi – già del 2009 – e concludendo con alcune sezioni da un testo ancora inedito Il conoscente risulta, nella raccolta in questione, assai chiara l’impronta stilistica, e piuttosto uniforme la poetica di riferimento che viene presentata, con un fil rouge che, pur trovando il suo fondamento in un contesto culturale ben specifico – e che andremo a indagare -, restituisce una parola con peculiarità e identità distinte dagli autori presi a riferimento per inquadrare Fiori, alcuni dei quali da lui stesso indicati.
Le tematiche
Ora, partendo da una di quelle peculiarità sopra accennate, possiamo cominciare ad evidenziare il fatto che, quando l’autore si esprime, nei suoi primi libri, con alcuni temi ricorrenti è perché sembra sentire la necessità di sviluppare ulteriormente quanto detto nella raccolta che precede: così Esempi – che peraltro è una rifusione di Case – ha in se già gran parte dei temi che saranno al centro di Chiarimenti, come quello della discussione, del contrasto dialettico. E’ come se l’autore scrivendo un libro, si concentrasse su certi motivi, mentre dentro di sé ne emergono di nuovi, che poi debbano essere approfonditi nel libro che segue, come se si potesse dire ancora qualcosa, che magari era sfuggito, sull’argomento. Simili a una matrioska i libri di Fiori, nascono uno dall’altro, ognuno è quasi il completamento del precedente (come afferma egli stesso in alcune interviste rilasciate). Tra i temi più significativi – ne approfondiremo alcuni – spicca il rapporto con l’Altro – che rende già diversa la produzione di Fiori anche rispetto a molta parte del ‘900 – .
Questo tema passa attraverso l’immagine delle case – molto presente in questi primi libri – rappresentate nel loro spazio murale, pietrificato, una dimensione di sbarramento nei confronti quasi della vita, oltre che dello sguardo: una dimensione nella quale prevale spesso la cecità dei muri stessi, così fatti, senza finestre, se pure i raggi di sole che li illuminano donano loro un riflesso di speranza. Sono le case squallide, illuminate dal sole, le piccole epifanie da cui trarre forza e respiro per andare avanti e ritrovare il contatto con l’Altro. Ma, l’Altro, sembra essere costruito anche nel rapporto con il mondo animale, con il cane soprattutto, che fiuta il pericolo e abbaia, imitando per un po’ il parlare umano, rendendolo quasi un verso, senza spiegazione. E qui entra in gioco, a detta dello stesso Fiori, l’incidenza letteraria del Kafka de La metamorfosi laddove il protagonista del racconto perde, in questa sua trasformazione, la cosa più importante per l’uomo: la parola. Senza di questa, anche se fosse una parola svuotata di senso e non persuasiva, non si arriva alla poesia che, se pure non ha bisogno di essere spiegata, ha però bisogno proprio di parole fatte di esperienza, incontrollate magari ma che, anche se alla fine vogliamo interpretarle, siano definitive.
Ma qual è l’universo nel quale si muove la poetica di Fiori? E’, innanzitutto, cittadino: come detto ci sono le case, i muri, ma anche le macchine in sosta, i cartelloni pubblicitari, i gas di scarico, le finestre da cui intravedere l’anonimato dell’uomo che attrae l’interesse del poeta, proprio per questa impersonalità che lo caratterizza. In questa monotona armonia, il prodigio del raggio di sole che, come dicevamo, illumina il muro – un evento, in fondo marginale – diventa nella sua insignificanza, motivo per notare la mancanza di quiete verso le domande universali dell’uomo, la mancanza di consolazione: Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove, cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. // Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l’altra bottiglia / che porta il cameriere. // Chi ci potrà più dare / torto o ragione?
Il contesto culturale
Nasce così la poesia di Fiori, senza nessuna apparente liricizzazione dei testi, (ma poi parleremo anche dello stile che, comunque, non cela troppo le conoscenze degli strumenti retorici del poeta) registrando la presenza e l’atteggiamento umano nelle metropoli dei nostri giorni e inserendosi in un contesto culturale ben preciso, del quale potremmo ricostruire, almeno in parte, le mosse.
Partendo da Baudelaire (altro autore di riferimento del nostro) che, dopo tra l’altro aver tradotto l’opera di Poe, propone il ritratto del flâneur, individuato quale testimone, poeta ed artista di questi nuovi spazi [[Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna, II – Schizzo di costume, “Le Figaro”, 1863: Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete di certo portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo con un epiteto che non sapreste applicare a chi dipinge cose eterne, o almeno più durevoli, di carattere eroico o religioso. Talvolta egli è poeta; più spesso si avvicina al romanziere o al moralista; egli è il pittore dell’occasionale e di tutto ciò che di eterno esso suggerisce. Ogni paese, per suo piacere e sua gloria, ha avuto alcuni uomini del genere.]] , laddove indica la folla come suo elemento naturale, nel quale ricercare quasi la propria dimora, ma del quale egli afferma anche che questo andare, senza meta, attraverso il grande deserto umano, questa ricerca della così detta modernità per tirarne fuori quanto essa, nel corso storico, può contenere di poetico, per far uscire l’eterno dal transitorio verrà poi fermata, proprio, dalle sempre più dinamiche complicazioni della vita moderna stessa, che renderanno l’artista un mero analista del tessuto urbano e sociale.
Continuando con la riflessione critica sugli spazi della metropoli, Simmel ne fa un discorso sociologico-psicologico: nel suo saggio, Le metropoli e la vita dello spirito, viene evidenziato come la vita nelle grandi città sia scandita da rapporti nuovi tra gli individui e i poteri impersonali che li guidano, determinando il nascere di nuove forme di percezione degli spazi e dei tempi, che sfoceranno nell’atteggiamento blasé (il “disincanto” di cui parla Weber) plasmando il vissuto e la percezione di sé, disorientando l’umanità che abita quegli spazi e quei tempi e che, comunque, non può che essere responsabile e protagonista principale di tale processo.
Per concludere, questo breve excursus del contesto cultuale dove si inserisce, come detto, l’opera di Fiori, non possiamo non citare un paio di lavori di Thomas Stearns Eliot: La Terra Desolata, opera capace come pochi di rendere l’atmosfera tragica, e il senso di angosciosa impotenza che incombe sulla metropoli moderna: composta all’indomani della prima guerra mondiale, essa rappresenta la voce di una generazione che, finite ormai le illusioni e le false certezze della Belle Epoque, si risveglia improvvisamente nel deserto. Il poemetto parte con la descrizione di una folla grigia e quasi informe di impiegati londinesi che si dirigono nel centro economico della città, la cui ambientazione ricorda l’Inferno di Dante, quelle anime che vissero “sanza infamia e sanza lodo”, e alle quali viene negato persino un nome.
Dice Eliot: Città irreale,/Sotto la bruna nebbia di un’alba invernale,/Una folla fluiva sul London Bridge, tanta gente,/Ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta./Sospiri, brevi e radi, esalavano nell’aria,/E ciascuno teneva gli occhi fissi davanti ai piedi./Fluiva su per la collina e giù per King William Street,/Fin là dove Saint Mary Woolnoth scandiva le ore/Con un suono di morte all’ultimo rintocco delle nove.[[T.S. Eliot, La terra desolata, vv. 60-68]] Ma, anche l’altra opera di Eliot, Gli uomini vuoti, propone un coro di uomini simili a vuoti fantocci, ormai privi di vita, – ricordando, tra l’altro, il Leopardi delle mummie di Federico Ruysch, o il cupo consesso dei topi nell’oltretomba, nei Paralipomeni – delle sagome anonime, incapaci di stare in piedi se non appoggiandosi le une alle altre, quasi a delimitare l’esistenza in un’urbanizzazione che priva l’individuo di umanità, di personalità, che lo costringe ad una mancanza assoluta di privacy (per dirla con un termine attuale).
La dichiarazione di poetica: cos’è la poesia, i suoi strumenti.
Riflettendo su quanto detto nel paragrafo precedente, pensando a come dovrebbe essere offerto il canto (la poesia) a questo coro (l’umanità), per cercare di trarne giovamento, dal momento che, come dice lo stesso Fiori, questo dovrebbe esserne il suo fondamento, prendiamo a prestito proprio le parole dell’autore che, in un’intervista ha dichiarato che, certe volte, il canto è talmente elevato: “che sfugge a tutti e due (umanità e poeta), ma che li mette insieme, che fonda la comunità, proprio perché non è un’attività estetica, non è l’attività di un artista che mostra la sua bravura e può aspirare a un giusto riconoscimento. La poesia – perché di questo si tratta – è un’offerta, è un dono. […] È un’avventura della parola, una sfida, un rischio; un perdersi, anche. …”. E noi ci siamo persi spesso, inseguendo fili immaginari di visioni tuttavia reali, dello spazio e del tempo, all’interno del percorso poetico di questo artista che, pur avendo concentrato il suo lavoro sull’osservazione e sul disincanto, ha proposto un modello di poetica che vuole imporsi come canto. Un canto che – come suggerisce anche la prefazione al libro, a cura di Andrea Afribo – che per imporsi deve perdere le bravure ovvero deve essere il risultato che nasce, dopo aver incamerato la tradizione poetica, i suoi punti di riferimento, aver imparato a utilizzare in qualche modo i “ferri del mestiere”, entrando in un’altra dimensione: quella di scrivere con tutta un’altra mentalità, trovando “quella parola che può – se non fondare – almeno promettere una comunità, identificarla in qualche modo, essere parola comune, comunicare in questo senso profondo; perché altrimenti si è nella sfera estetica […]”.
Ma, ci chiediamo, tra gli strumenti della poesia c’è senz’altro il ritmo, può esistere una poesia senza ritmo? Per Fiori il ritmo riguarda “la sintassi e la grammatica”, capaci di creare aspettative e tensioni e aperture nel testo, capaci di farlo scorrere. La poesia diventa “una sequenza di frasi, un discorso che nasce da una spinta a dire, si dispiega, si chiude”, il ritmo si traduce in impulsi e mancanza di questi, in slanci ed esitazioni di atti di parole, divise in versi e in strofe, ognuna con una propria una funzione dove, gli elementi tipici della poesia (metro, rima, etc.) “sono sempre subordinati all’idea che c’è una cosa da dire, e qualcuno la dice con un certo gesto, un certo respiro, in quei due, tre, quattro tempi.”
Tra canzone e poesia
Da sempre si discute sul fatto che canzone (specie d’autore) e poesia possano considerarsi alla stessa stregua, con posizioni più o meno altalenanti fra di loro. C’è, infatti, chi asserisce che anche il testo di una canzone possa essere ritenuto poesia in quanto, ascoltandolo, è capace di consegnare al pubblico le stesse emozioni di una testo poetico, considerando anche il fatto che nella sua elaborazione si accompagna alla musica, fondamentale per la poesia, c’è chi, al contrario, ritiene che una canzone senza la musica non regga mentre la poesia, pur avendo al suo interno una musicalità necessaria per il suo ritmo, si basa soprattutto sulla parola e non ha bisogno di essere sorretta dalla musica di uno strumento.
Fiori, essendo sia poeta che cantante – prima cantante che poeta – ha certo una visione più completa sulla questione, tant’è che ne ha fatto argomento di un suo saggio Scrivere con la voce nel quale indaga su come e quanto un autore di testi per canzoni possa apprendere da un poeta e viceversa. Pur non prendendo una posizione netta – dice, infatti, che ogni autore (di canzoni, di poesie) ha un rapporto molto personale con l’altra arte (o magari nessuno) – egli si esprime attraverso la propria esperienza, seconda la quale: “nella canzone tendono a prevalere gli aspetti “artigianali” e “retorici” della scrittura; in poesia c’è una maggiore libertà, non c’è la necessità di ottenere un effetto immediato, un risultato. D’altra parte, la poesia può imparare dalla canzone un rapporto più “umile” con il pubblico, una spinta a farsi capire, a muovere qualcosa anche nel lettore meno avvertito.”
L’Io poetico e le sue declinazioni. Evoluzioni di pronomi in poesia: tu, noi, voi.
Nella poesia del ‘900 il tema centrale sembra essere l’Io del poeta che si confronta con il mondo e, in specie, con le stranianti città della modernità nel loro «delirio di immobilità» quotidiano, rivelandosi un Io isolato, incapace d relazionarsi per mancanza di equilibrio, propenso ad evadere da quanto non comprende per ritrovarsi, propenso a cercare un dialogo con un tu interiore o reale.
Tra gli autori che hanno espresso questo disagio – tutti nomi da cui Fiori apprende molto – troviamo: Sbarbaro intento a un dialogo introverso con la propria anima; Montale in dialogo con una donna in Arsenio, che altri non è che il suo alter-ego;Sereni che ne Il muro propone un dialogo con il proprio padre, al cimitero, introducendo così una seconda voce; Fortini che nel testo Traducendo Brecht mette in gioco un Io che parla della realtà che lo circonda, inventando un modo di parlare della verità; De Angelis e De Benedetti che scompongono il linguaggio della poesia per renderlo, ancora, un modo per parlare della solitudine dell’Io nel mondo.
Ora, per quanto sia possibile definire il genere lirico come un “parlare in prima persona”, anche in un’epoca in cui l’Io (nel suo complesso) appare instabile, scisso, precario fino al punto di scomparire, è comunque appurato che il percorso di sostituzione del pronome imputato con il dialogico tu o i plurali noi e voi, ha una serie di sfaccettature su cui vale la pena soffermarci brevemente, prima di andare a specificarne l’uso nel nostro autore. Se è vero, dunque, che il parlare in prima persona rappresenta una delle più antiche definizioni del “genere” poesia, in quanto lirica e in quanto espressione di sentimenti che provengono dal poeta, espressione che si sarebbe realizzata in toto solo nell’800 con il Romanticismo, epoca nella quale le opere lasciano parlare l’Io del loro autore, è altrettanto vero che la poesia soggettiva ha più declinazioni.
In specie, ad esempio, Hugo Friedrich, scorge i tratti essenziali della lirica moderna nella de-personazione, nella dis-umanazione realizzata da autori quali Rimbaud e Mallarmé, linea che trova conferma nelle avanguardie di inizio Novecento, come nel Futurismo il cui motto è distruggere nella letteratura l’io, o in autori con il già citato Eliot per il quale il poeta dovrebbe essere solo un medium, senza partecipazione emotiva tant’è che, per rafforzare la sua tesi egli si appoggia alla scoperta moderna della personalità multipla, se pure non possiamo certo dire che i suoi testi siano privi di rapporti emozionali e personali dell’autore, magari mescolandosi con elementi che le trasformano in emozioni artistiche.
Anche l’Io di Montale è labile, senza forza, un Io che cerca il dialogo con tu, per provare a comunicare. Ma la dimensione dialogica, a volte, prende anche il posto in un parlare attraverso altri, muniti di maschere per sostenere il soggetto lirico: è l’epoca del post-modernismo dove l’Io si nasconde, si frammenta, o solo sopravvive come elemento grammaticale in uso. Eppure compaiono, in poesia, sempre di più anche riferimenti fortemente autobiografici e anagrafici: pensiamo al Caproni de Il seme del Piagere, al Giudici di Quanto spera di campare Giovanni; al Montale di Satura e proprio a cominciare da Montale compare, inoltre, l’uso di un tu per il quale la poesia italiana comincia un nuovo percorso: l’Io si affida a un tu che ne supplisce l’impotenza, ne stabilizza la persistenza, ne diventa un’alterità per poi interiorizzarsi progressivamente specie in Zanzotto, o divenire l’Io che costruisce se stesso con le relazioni come in Sanguineti.
Nella poesia di Umberto Fiori il sottotono timbrico – che risente di tutto il percorso novecentesco – è dato dal parlato anonimo di un Io sottratto alla scena – se pure a volte, in attesa di un’epifania – che cerca attraverso le visioni delle vite degli altri un risveglio dagli automatismi per scoprire una dimensione nuova, quando mettendo in ordine un balcone/ti ricordi del mondo, per trovare un contatto col mondo, magari con il lettore: Vedi? Parlare ci separa. Eppure/nemmeno nella stretta di mano/più calda, occhi negli occhi,/nemmeno abbracciati,/persi nel bacio più profondo/saremo mai vicini come siamo/nelle parole”. O, ancora: Parlano come se con una frase/si potesse davvero dare e togliere,/legare e sciogliere e mettere bene in chiaro/tutto, una volta per sempre;// […] Sono solo parole,/le parole.// Ma un giorno questo solo/che le mette da parte e le fa stare/sacrificate/ti sembra nuovo.
E lo sguardo puro, che egli getta per le strade, ci rende spesso poesie che sembrano espresse da un parlante che conosce solo l’uso del linguaggio comune, comprensibile, semplice, parole a cui strappare il mistero per renderle poesia – poesia con la dote dell’inermità – dice Fiori – della quale resta solo l’immagine rivelata, sacrificando ancora una volta l’Io poetico, quale elemento interno al testo e non rappresentando chi l’ha scritto. Ma, l’Io testimone, lascia il posto al “voi”, al “tutti”, alla “gente”, al “due” (abolendo in molti testi – come nella raccolta Esempi -, in forma inibitoria, la prima persona) e, come in un preciso e puntuale crocevia, l’esistenza si stacca dall’essere e si consegna agli altri. Questa dimensione di consegna di testimone è molto presente nella raccolta Voi, dove l’autore ci dice che: Le due persone in gioco nel libro non si equivalgono; non sono solo impari, sono incommensurabili: è di questo che Io si dispera. Voi è innocente per definizione: è una persona astratta, disincarnata, un generico Prossimo, a cui Io deve tutto e dal quale nulla può pretendere. A Voi spetta il primato morale. Un primato assoluto, indiscutibile. Io è la colpa incarnata, un “difetto” di Voi: solo Io è chiamato a rispondere di fronte a Dio (al Senso, all’Essere) di ciò che fa, addirittura di ciò che è, della sua stessa esistenza. Solo Io muore. Solo Io si perde, si salva. […]. La differenza tra Io e Voi sembra dunque contenere il mistero, il nodo che ogni singola persona deve pensare di poter sciogliere, magari proprio attraverso la parola normale, quella stessa usata da Fiori per la sua poesia.
da: Esempi , 1992 – Oscar Mondadori, 2014
Allarme
In piena notte
sui viali scatta un allarme.
Si ferma, e poi ripete
due note acute, tremende, con la furia
di un bambino che gioca.
Nei muri bui dei palazzi lì sopra
le finestre si aprono, si accendono.
Tranne la strada
in mezzo ai rami, vuota,
niente si vede.
Si tirano le tende
e si rimane intorno a questo urlo
come si sta in un campo
intorno a un fuoco.
Apparizione
Alte sopra la tangenziale, chiare,
due case con in mezzo un capannone.
È questa l’apparizione,
ma non c’è niente da annunciare.
Eppure solo a vederli
là fermi, diritti davanti al sole,
i muri ti consolano
più di qualsiasi parola.
Cancellate, ringhiere,
scale, colonne, cornicioni:
ha l’aria, tutto, come se qualcuno
dovesse veramente rimanere.
*****
da: Chiarimenti , 1995 – Oscar Mondadori, 2014
Di guardia
Mi conoscono bene, hanno ragione:
io sono come un cane,
una di quelle bestie nere che dormono
intorno ai capannoni industriali
e se passi, si avventano di colpo
sulla rete metallica
e più gli dici “Buono!”, più si sgolano.
Adesso, chi li consola?
Finché non hai girato l’angolo
gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi.
Scoprono i denti, mordono
anche il filo spinato; ma sono gli occhi
che fanno più paura: sereni
e puri come quelli di un neonato
o di una statua.
Hanno imparato il compito: questo recinto
tenerlo sgombro. Sia senso del dovere
o invece solo istinto, non ti commuove
almeno per un attimo
la scena che -loro- sempre, tutta la vita,
li fa smaniare, li esalta
e li avvelena?
Io, per me, lo capisco
meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,
questo discorso.
La riconosco bene la voce
fanatica, che sbraita per difendere
-così, alla cieca, per pura gelosia-
l’angolo dove l’hanno incatenata.
Tu non sai che cos’è, stare di guardia,
in ogni odore
sentire una minaccia
a quei tre metri di terreno,
urlare in faccia al mondo intero
fino a perdere il fiato, e non sapere
cosa c’è da salvare, a che cosa
veramente si tiene.
*****
da: Tutti , 1998 – Oscar Mondadori, 2014
Contatti
Lo vedi come sono
storto, contratto? Lo vedi questo piede,
quando mi siedo, come lo metto?
È tutto per lo sforzo, in tanti anni,
di non urtare le persone. Stretto
contro un sedile, dentro l’autobus pieno,
stare a posto, evitare
coi miei vicini
persino il minimo contatto.
Sulle panchine delle sale d’aspetto
o in treno, in corridoio, era una pena
ogni momento sentire sfiorarsi il buio
del mio ginocchio e del loro.
Ore e ore, giornate intere:
uno di fianco all’altro
stavamo, come i gusti del gelato
nel bar della stazione.
Di vero tra noi, di giusto,
lo spazio di due dita
era rimasto.
*****
da: La bella vista , 2002 – Oscar Mondadori, 2014
Eccomi
Dello sbuffo di polvere che si alza
tra le forsizie e le macchine,
di quest’aria di pioggia, di questi morti
alla televisione,
richiami di cornacchie, sirene
di ambulanze,
nessuno ci assicura.
Del baretto incendiato, dell’abbraccio
di una donna al suo dobermann
all’ombra, qui, del portone
– del loro male, del loro bene –
abbiamo perso la misura.
Facce, bottiglie rotte, rami fioriti:
il mare in cui nuotiamo
precipita
nei nostri occhi senza fondo.
Eppure quando mi chiamano
mi volto ancora – vedi? –
e rispondo.
Bologna, febbraio 2017