Parigi, 7 gennaio 2025. Dieci anni fa, siamo stati tutti Charlie. Ora mi chiedo se questo decennio, trascorso dal massacro alla redazione di Charlie Hebdo, non abbia prodotto degli esiti paradossali.
In questi anni, la bandiera della laicità e della libertà di espressione (quella per cui ci mobilitammo, di cui cotanto ragionammo assieme) è stata afferrata da una parte politica che (storicamente, culturalmente) le è sempre stata avversa: la destra nazionalista, che dal 2015 a oggi ha enormemente rafforzato la sua posizione, in Francia (con l’ascesa di RN) e altrove (le due vittorie di Trump negli USA, un partito post-fascista alla guida del governo in Italia). Questa “nuova” destra nazionalista, pur affondando le sue radici in una cultura autoritaria, tradizionalista, amica del buon costume e della censura di stato, si è improvvisamente scoperta cultrice della laicità e della libertà, compresa quella di ironizzare sulla religione. Le conversioni ai valori di libertà e tolleranza sono sempre benvenute. Ma fa un certo effetto sentire i nipotini di de Maistre arringare sulla laicità e ripetere la celebre frase attribuita a Voltaire (in realtà di una sua curatrice inglese): je ne suis pas d’accord avec ce que vous dites, mais je me battrai jusqu’à la mort pour que vous ayez le droit de le dire.
Ma c’è anche un paradosso speculare. L’idea (tradizionalmente cara alle destre reazionarie e nazionaliste) di porre limiti alla libertà di espressione in nome di certi “valori”, e di vincolare il linguaggio a una “morale”, è emersa con forza nel campo opposto, quello progressista. Si tratta della cosiddetta cultura woke e della sua (vera o presunta, dipende dai casi) intenzione di sorvegliare il linguaggio, per renderlo “politicamente corretto” e riscrivere la storia (la cosiddetta cancel culture).
Si può insomma avere l’impressione di un’inedita, storica inversione dei ruoli, tra “reazionari” che sostengono di voler liberare la parola, a dispetto di ogni morale, e “progressisti” che proprio in nome di una morale (quella dei diritti delle cosiddette “minoranze”) sembrano volerla imbrigliare.
Certo, non è così difficile spiegarsi questi paradossi. La posizione della destra è nata in funzione anti-musulmana, per rafforzare il sentimento di “assedio” subito dal mondo occidentale; poi, appunto, in opposizione alla cultura woke; e infine per giustificare, in nome della libertà di espressione, la creazione “virale” di deliranti teoremi cospirazionisti, notizie false o manipolate. Elementi questi (guerra di civiltà e “Alternative facts”) su cui la nuova destra nazionalista, alleata al potere tecnocratico (Trump più Musk, insomma) ha costruito parte del suo consenso e della sua attuale egemonia culturale, per dirla con Gramsci. E se la posizione “libertaria” delle destre appare strumentale, quella “repressiva” dei movimenti woke è invece espressione di un estremismo di stampo molto puritano e anglosassone; una pulsione normativa “a fin di bene” che certamente esiste nella cultura di sinistra ma che sarebbe un errore, a mio parere, scambiare per una cultura maggioritaria, egemone nel campo progressista.
Ma forse l’aspetto paradossale che mi colpisce di più è un altro, su cui la mia attenzione è stata attirata da un episodio apparentemente insignificante. Pochi giorni fa, ho visto una mostra sulla fotografa Lisetta Carmi. Alla fine degli anni Sessanta destò enorme scalpore un suo reportage sui travestiti, che si prostituivano (e ancora lo fanno) a Genova, nel Ghetto (proprio dietro la Via del Campo di De André). Il libro, nonostante l’opposizione di alcune librerie, uscì nel 1972. Le foto sono poetiche e brutalmente realistiche. Restituiscono con forza, a volte con violenza il sentimento dell’ambiguità sessuale, in bilico sul crinale dell’identità o della mescolanza di genere. Sul mio profilo Facebook ho usato una di quelle fotografie. Si vede, in un gioco di specchi, il capezzolo di un seno femminile, su un corpo con caratteristiche maschili. È una foto morbosa, visionaria, ambigua, carnale, bellissima. Non c’è nulla di offensivo, violento o pornografico. A meno che non si consideri offensivo l’indagare la realtà, mostrarla nei suoi aspetti più contradditori, ambigui o meno frequentati. Immediatamente, un solerte algoritmo (incapace di vedere la realtà se non con occhi di talpa, come diceva Kant), ha fatto scattare la censura. La fotografia è stata rimossa, perché giudicata incompatibile con le regole della rete sociale.
Mettendo assieme questi paradossi, forse si intuisce qualcosa. Nella società attuale si fanno molti sermoni in nome della libertà e al tempo stesso si stanno insinuando, pezzo dopo pezzo, elementi di censura, di sorveglianza. Apparentemente neutri perché sempre più gestiti da entità private (le reti sociali) e artificiali (in questo caso un programma informatico addestrato a identificare un capezzolo femminile). Una censura senza volto né nome, che applica una legge di cui non conosce il senso. Ma forse proprio per questo, più insidiosa e potenzialmente autoritaria.
Dieci anni fa siamo stati tutti Charlie, ma qualcosa, in questo decennio che ci è fuggito tra le mani, deve essere andato storto.
Maurizio Puppo
LINK INTERNO: La marcia storica #JesuisCharlie, Parigi gennaio 2015, in immagini
Il testo di Maurizio Puppo ci fa riflettere e ci porta a una visione estremamente realistica sul nostro tempo e sulle contraddizioni che lo contraddistinguono e lo agitano come folletti impazziti. Si apre uno scenario cupo, dove il pericolo di perdersi è evidente. Grazie.