Per Missione poesia, “Campi d’ostinato amore”, il libro degli ottant’anni di Umberto Piersanti che rischia di salire sul podio per essere tra le migliori opere di poesia contemporanea pubblicate di recente: complessità e varietà, tradizione e innovazione si fondono in una sola voce, capace di sostenere la tensione poetica sino allo strappo che determina il riconoscimento del suo valore.
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Umberto Piersanti è nato ad Urbino nel 1941 e nella Università della sua città ha insegnato Sociologia della letteratura. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra cui La breve stagione (1967), I luoghi persi (1994), L’albero delle nebbie (2008), Nel folto dei sentieri (2015) ed è anche autore di romanzi e opere di critica. Ha realizzato un lungometraggio, L’età breve (1969-70), tre film-poemi e quattro “rappresentazioni visive” su altrettanti poeti per la televisione. Le sue poesie sono apparse sulle principali riviste italiane e straniere, tra cui “Nuovi Argomenti”, “Paragone”, “il Verri”, “Poesia”, “Poetry”. In Spagna, nel 1989, è uscita l’antologia poetica El tiempo diferente e negli Stati Uniti la raccolta Selected Poems 1967-1994 (2002). Tra i numerosi premi vinti, ricordiamo il San Pellegrino, il Frascati, il Mario Luzi, il Ceppo Pistoia, il Tirinnanzi, il Camaiore e il Penne. È il presidente del Centro mondiale della poesia e della cultura “Giacomo Leopardi” di Recanati. Per una biografia più completa e un approfondimento sulla poetica dell’autore si rimanda all’articolo uscito in precedenza su Missione poesia visibile al link: https://altritaliani.net/poesia-con-umberto-piersanti-nel-folto-dei-sentieri/
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Campi d‘ostinato amore
A conclusione della recensione al penultimo lavoro dell’autore, Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos, 2015) scrivevo: “Un libro, forse il più bello e intenso di Piersanti, dove s’incontrano il respiro e il passo del poeta che ci accompagnano in quel folto di sentieri della sua vita, presentandoci la sua terra antica e la sua terra nuova, il suo passato e il suo presente e il timore di una distanza incolmabile tra i tempi, per sé e per quel figlio che abita una contrada/senza erbe e fiori.” Quello che scrivevo era naturalmente il mio pensiero sino ad oggi, ovvero sino all’uscita di Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020) laddove devo, certo, rivedere l’idea del libro più bello e più intenso dell’autore. Infatti, pur riconfermando le tematiche e i sentimenti che scaturiscono dalla poetica di Piersanti, sempre fedele a se stessa, in particolare per quei continui rimandi alla sua terra, al suo passato, alla dimensione di solitudine e incondizionato amore per il figlio, poetica per questo dotata di un timbro marcato e riconoscibile, non posso non esprimere come, ancora una volta, sia stato possibile imbattersi in un rinnovato miracolo scaturito da questo ulteriore lavoro: qui c’è qualcosa in più, qualcosa che è capace di stupire e conquistare i frequentatori della poesia di Piersanti, qualcosa che affascina e lega i lettori alla pagina, come fosse la prima volta che incontrano il poeta, qualcosa che resta e non si può dimenticare, a cominciare dal titolo.
Diviso in sei sezioni (Il passato è una terra remota, Jacopo, In una selva separata, Vicende, L’età breve, Primavera bugiarda) il libro degli ottant’anni di Piersanti rischia di salire sul podio per essere tra le migliori opere di poesia contemporanea pubblicate di recente: complessità e varietà, tradizione e rinnovata ricerca stilistica, inquietudine e classicismo si fondono in una sola voce, capace di sostenere la tensione poetica sino allo spasmo, sino alla fine, sino allo strappo che determina il riconoscimento del suo valore. La natura occhieggia dovunque modulandosi negli aneddoti e nel folklore di una realtà contadina che sapeva a memoria ogni fiore, ogni pianta, ogni profumo ad essa riconducibile, e prodigandosi, già dai primissimi versi, a farsi portavoce del proprio indiscutibile ruolo di primo piano nel mondo. Ma anche il ricordo, che diventa immediatamente memoria collettiva, presta la propria voce al poeta che ne promuove le vibrazioni più nostalgiche, ambientate nelle Cesane, i colli di Urbino, che si confermano luogo leggendario, mitizzato, ormai ben presente nell’immaginario dei lettori che, in qualche modo, si sono imbattuti in questi testi. Mi piace pensare come, spesso, lo sguardo del poeta cerchi di mostrare che l’uomo, e con esso tutto il suo tempo, si lega inscindibilmente ai luoghi del vissuto, dell’esperienza e della natura che di quel luogo fa parte e di sottolineare che quel legame è ancestrale, si perde nella notte dei tempi come i nomi di quei fiori, di quelle erbe, di quei cespugli di cui egli stesso prova a lasciarne testimonianza.
Nella mitizzazione dei luoghi della poesia per Piersanti, i protagonisti della sua vita, diventano i protagonisti della poesia facendosi largo tra realtà, ricordo, immaginario forse, per mostrarsi nella loro umanità: la madre, il padre, le sorelle, i soldati – prima erano i nonni, in specie il nonno Madìo – si presentano nei racconti del Natale, dell’occupazione, della paura della guerra in tutta la verosimiglianza dei loro modi, delle loro fattezze e come archetipi in cui riconoscersi e ritrovare le proprie radici. Infatti, in questo contesto, il luogo e il tempo diventano quelli dell’infanzia con la quale il poeta si rapporta in prima battuta, che è l’età più lontana certo, ma forse la più cara: ah! questa infanzia/che negli anni s’inoltra/e ti pervade; poi quelli dell’adolescenza, l’età che passa più in fretta: tu resta nel trifoglio/quanto puoi/quella ragazza abbraccia/con gli occhi chiusi/l’età dell’oro è la più fugace. Ma sono il luogo e il tempo presente ad essere forse i più drammaticamente incerti, in un’esperienza in cui – in sintonia con l’autore – ci si sente quasi estranei a se stessi, in cui si risvegliano paure che non sappiamo controllare, per le quali vogliamo nasconderci, metaforicamente ricercando nascondigli, come nei versi: come il capriolo che s’imbosca/dove la macchia è più folta/tra spini e rovi,/è passato il lupo/ non distante anche se sappiamo che questo ci condannerà alla solitudine. Del resto, quale solitudine maggiore per il poeta se non quella, che conosce molto bene, dell’amato Jacopo, il figlio autistico, ormai pietra miliare della sua poesia più dolce e malinconica, ma certo più vera: una dimensione dalla quale non si può uscire, e nella quale nessuno può entrare, e che tuttavia determina non solo un ostinato amore di padre, ma si trasforma in metafora della solitudine umana, nonché dello stesso poeta che, nonostante la stessa ostinazione del proprio canto, della propria voce, della propria poesia continua, fortunatamente aggiungo io, a sentirsi lontano dai condizionamenti imposti dal sistema.
Qualche testo da: Campi d’ostinato amore
dalla sezione: Il passato è una terra remota
a Giulia
no, non tra rossi papaveri
e fiordalisi come l’antica
col velo dentro al quadro
ma alta sugli stivali
nel terrazzo fumi,
e non mi guardi,
poi su gran verde stesa
quel tuo volto acceso,
e accesi gli occhi
così azzurri e persi,
sei la ninfa riversa
nell’attesa
e la tua bionda carne
m’invade e piega
passano innanzi agli occhi
le figure,
in altri tempi
e luoghi lontani
e persi, tu sotto la cascata
t’infradici i capelli
neri e sciolti
e mi sovrasti
chino sulla roccia
non conosci quei lampi,
non sai i tuoni,
Dicono che i soldati
salgono su lenti
dalla marina,
lei siede alla ringhiera
contro i bei vetri,
tu non ricordi il volto,
non sai la veste,
solo quelle ginocchia luminose
che appena intravedi
fra le trine
quando la casa cambi
o la dimora,
salgano le memorie
fitte alla gola,
e se tendi la mano
quasi le tocchi,
ma il muro che le cinge
è d’aria e vetro,
nessuna forza
lo può oltrepassare
il passato è una terra remota
magari non esiste,
non sai dove.
dicembre 2015
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Volti
volti, volti nella mente
infissi,
sempre più infissi
e incerti,
e poi così lontani,
lontani e persi,
nell’oscura veglia
mi siete d’intorno,
vicini, così vicini
alle mani
e agli occhi,
padre da un grande tempo
dimori oltre la valle
che la nebbia copre,
la grande nebbia
che sta oltre,
oltre ogni casa
e campo,
come chi ha la vista
quasi spenta
risalgo con le mani
alla tua fronte,
su ogni piega
mi soffermo e insisto,
del tuo magro sorriso
ricerco il dono
e i tuoi occhi madre
sono i più chiari,
io me li stampo dentro,
mi fanno il sangue lieto
e nulla può il dolore
che m’abbranca,
restano chiari
e azzurri
oltre lo sguardo,
lo sguardo mio
che tanto s’appanna
sorella dalla veste chiara
ora m’allacci i pattini
e spingi alla discesa,
lascia ch’io tocchi ancora
i tuoi capelli così lunghi
e scuri
l’altra ha quei tacchi larghi,
larghi e spessi
degli anni di guerra,
tra le ginestre lei
rifulge tanto
che degli occhi appannati
lacera il velo
e padre e madre,
e la bruna sorella
l’altra più chiara,
la cucina fumosa
e l’orto coi soldati,
quelle canzoni lente
e disperate
mentre il maiale cuociono
sull’erba,
tra loro un giorno
ti sei risvegliato
e loro t’hanno accolto
e riscaldato,
il tempo poi dissolve le figure
ad una ad una nel vortice
degli anni rapinate,
contro il vuoto che ghiaccia
sangue e fiato
dentro l’aria le incidi
per l’eterno
e poi c’era quell’erba
contro i mali
quella di colore scuro
come il nome,
è l’erba delle bisce
che la pozza cerchia,
se la metti a bollire
sopra un gran fuoco
e poi quell’acqua bevi
densa e nera
i mali come serpi
strisciano via
lontani
era come una radura
riparata dall’acqua
e i venti,
dai fuochi d’attorno,
l’unica che rammenti,
se altre ne ho incontrate
non le ricordo
marzo 2018
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dalla sezione: Jacopo
Campi d’ostinato amore
i cori che vanno eterni*
fra la terra e il cielo,
ma tu li ascolti
Jacopo, quei cori?
ho visto
il falco in volo
con la serpe
trafitta nella gola
dai curvi artigli,
l’estremo pigolio dell’uccelletto
che la biscia verdastra
afferra e ingoia,
tra i rami non s’aggirano
le ninfe;
un giorno le incontrai
in remoti boschi,
l’assurdo poco oscura
nevi e foglie
non scolora i bei crochi
nei greppi folti,
ma il tuo male,
figlio delicato
quel pianto che non sai
se riso stridulo
che la gola t’afferra
più d’ogni artiglio,
questa bella famiglia
d’erba e animali
fa cupa
e senza senso
e dolorosa
siamo scesi un giorno
nei greppi folti,
abbiamo colto more
tra gli spini,
ora tu stai rinchiuso
nelle stanze
e il mio ginocchio che si piega
e cede
a quei campi amati
d’un amore ostinato,
sbarra l’entrata
aspetto i favagelli
del febbraio,
tiepidi contro il gelo
sbucare fuori
febbraio 2017
* Nota dell’autore: Imprecisa citazione in dei versi di Carducci in Davanti a San Guido.
Bologna, 9 maggio 2021
Cinzia Demi
Altri contributi di « Missione Poesia », rubrica Altritaliani di poesia contemporanea curata da Cinzia Demi: biografie, poetica, note critiche, interviste, curiosità, ma soprattutto tanta poesia dei migliori poeti italiani del momento. Contatto: cinziademi@gmail.com