Parigi nella letteratura: ‘La mischia’ di Valentina Maini

Dopo aver pubblicato in rivista numerosi racconti e ottenuto il premio letterario Anna Osti 2016 con la raccolta di poesie Casa rotta, Valentina Maini (classe ‘87) porta il suo romanzo d’esordio sotto i riflettori di pubblico e critica. La mischia, edito dalla casa editrice Bollati Boringhieri, 2020), esce però con un tempismo imperfetto, a fine febbraio: curioso battesimo per un libro che in filigrana riflette ossessivamente sul contagio, sulla contaminazione, in senso non solo medico-biologico, dato che c’è di mezzo l’eroina, ma anche psicologico, identitario, esistenziale.

recensione AltritalianiIl corposo romanzo di Maini si muove tra i Paesi Baschi e Parigi. I due protagonisti, la cui complessa personalità è magistralmente tratteggiata dall’autrice mediante l’uso della focalizzazione interna, sono due fratelli gemelli venticinquenni, di nome Gorane e Jokin, figli di una coppia di terroristi dell’ETA e segnati da un’educazione familiare eccessivamente permissiva. Dopo la violenta morte dei genitori in terra basca Jokin si trasferisce a Parigi, città in cui Gorane – spinta dalla lettura di un libro che parla proprio del fratello – si sposterà successivamente proprio in cerca di questi. La narrazione procede per quadri, paralleli, congiunture, connessioni, ma il legame così particolare tra i due fratelli, che pure sono ormai nella stessa città, non è sufficiente a farli incontrare: le due vite prenderanno infatti strade diverse.

Scordiamoci la Parigi dei clichés letterari e delle suggestioni poetiche: nessun vecchio giradischi fa risuonare le note di Sous le ciel de Paris lungo una Senna riboccante di vivaci bateaux mouches, né echeggia l’organetto con la voce di Edith Piaf nella vecchia Belleville; non troveremo nessuna descrizione della facciata di Notre-Dame come ha fatto Victor Hugo, né spazio verrà concesso alla Torre Eiffel, quel «rizoma di snodi chiodati» dal «collo di giraffa politecnica» descritto da Eco nel Pendolo di Foucault; non verranno illustrati con dovizia di particolari tutti i formaggi di una fromagerie parigina, come ha fatto Calvino, che più di chiunque altro ha saputo cogliere le numerose sfaccettature della capitale francese. È bandita, in particolare, ogni flânerie che sazi il bisogno intellettuale di riappropriarsi, o riappacificarsi, con lo spazio urbano, col proprio spazio vitale, con il tempo; l’unica volta che Jokin decide birra alla mano di farsi un giro, si perde «nelle viuzze piene dell’odore di spezie e kebab, quell’odore che mi aveva accolto e che, mischiato al puzzo della metro, sarebbe stato il più indelebile ricordo che avrei conservato di Parigi per tutto il resto della mia vita». In effetti, le strutture sociali e urbanistiche sono per così dire un accidente, nella vita dei fratelli – sebbene si riveleranno fondamentali.

Parigi è quindi ridotta all’essenziale, e i personaggi sembrano muovervisi come pedine casuali o elettroni impazziti entro una scacchiera tutto sommato circoscritta (e Parigi lo è davvero, circoscritta). In una metropoli dove, nella realtà, accade di avere effettivamente incontri sui generis o poco probabili, Gorane crede con forza e ingenuità di potersi imbattere nel fratello ripercorrendo le sue stesse strade, inseguendo le persone da lui frequentate – e nel farlo, incontra tra gli altri, nei bagni di un teatro, una donna delle pulizie incredibilmente loquace che finisce per offrirle un posto letto in casa propria. Insomma, sebbene i toponimi siano mantenuti la realtà di Parigi è in qualche modo filtrata dallo sguardo dei due protagonisti: è soggettivizzata, a tratti allucinata, come specchio imperfetto della connessione tra i due. «Non avevo mai alzato la testa verso il cielo mattutino di Parigi e guardando da lontano i tubi enormi del Pompidou mi vennero in mente gli scontri, la morte per soffocamento. Pensai a mia madre, alle luci della Fiestas de La Blanca, poi trovai lavoro come buttafuori».

Sono disseminati qui e lì, però, riferimenti precisi ad alcuni aspetti della società parigina, che Valentina Maini conosce bene, avendoci vissuto e lavorato. Vi sono i pendolari della metro che incutono quasi timore per l’assiduità con cui si immergono nella lettura; il gusto un po’ snob per un certo tipo di performances d’arte contemporanea (a tal punto che si rischia di dedicarsi al sesso «come alla contemplazione di un quadro astratto durante un vernissage super esclusivo»); il consumismo degli Champs-Élysées (che ricordano un’«ascesa monumentale verso qualcosa che non arriva mai»); la ricca scena musicale che propone nuove sperimentazioni (perché «in fondo ai parigini piace sentirsi avanti»); i cori delle manifestazioni di Place de la République… Fa capolino poi una «Parigi inedita, più simile a un paesino di mare che a una metropoli» che si sviluppa a partire dalla Rue des Cinq-Diamants, o ancora quella che estende le sue propaggini oltre i perimetri della scacchiera ed è più esposta allo spaccio di droga (Saint-Ouen). S’intuisce, inoltre, l’attrazione parigina per certe pratiche non esattamente scientifiche, ma che tuttavia, proprio nel Paese che ha dato i natali a Descartes e Illuminismo, sono piuttosto diffuse nella capitale (e pure remunerative: nel romanzo una maga vive infatti nel ricco 16° arrondissement). Non mancano, infine, icastiche descrizioni del tempo parigino: «nel cielo si era piantata una coltre grigiastra; mi sembrava che un velo di foschia rimanesse sospeso tra il cielo e il marciapiedi come una barriera corallina o una foresta quasi invisibile di alghe».

La Parigi dei protagonisti della Mischia è quindi giovane, dinamica, fatta di pinte di birra e luoghi alternativi esposti al pericolo della gentrificazione (come Les Frigos a Ivry). Quello che in fondo conta davvero, però, è che – per usare una brillante formula di Sciascia – si servono della città come di una cassa di risonanza.

Monica Battisti

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LA MISCHIA di Valentina Maini, Bollati Boringhieri, 2020, € 18,50, pp 512.

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Valentina Maini (nella foto di Michele Joshua Maggini), è nata nel 1987 a Bologna. Ha conseguito un dottorato in Letterature comparate tra Bologna e Parigi e ha pubblicato racconti su diverse riviste. Traduce dal francese e dall’inglese. Con la raccolta di poesie Casa rotta, (2016) ha vinto il premio letterario Anna Osti.

SINOSSI – Siamo nel 2007 in una Bilbao psichedelica, sfinita dagli ultimi fendenti del terrorismo basco. Gorane e Jokin hanno venticinque anni, sono gemelli e figli di due militanti dell’ETA. Cresciuti senza regole, prendono direzioni opposte e complementari: del tutto accondiscendente e passivo, Jokin, batterista eroinomane, sembra ricalcare le orme dei genitori, mentre Gorane, ambigua e introversa, prova a scostarsi dal loro insegnamento rifugiandosi in un mondo astratto che prosegue dentro di sé. A unirli però c’è un sentimento viscerale, anarchico, incomprimibile. Quando Jokin – che non regge più alla pressione – fugge e i genitori vengono coinvolti in una tragica vicenda, Gorane è preda di strane allucinazioni che la costringono ad andare da uno psichiatra. A Parigi Jokin conosce Germana, una splendida ragazza italofrancese con bizzarre manie da piromane, e inizia a suonare in giro per locali con un gruppo drum’n’bass. Eppure, nonostante la distanza fisica, le vite dei gemelli sembrano destinate a non separarsi mai. Sarà infatti il romanzo di uno scrittore francese a ricongiungerli.
La mischia è un’opera polifonica, un mondo che collega la realtà ai nostri sogni più reconditi, un mondo dove l’unica forza trainante sembra essere quella cieca della violenza.
Può la libertà – fragile e illusoria conquista del nostro tempo – rivelarsi uno strumento di tortura che occulta gabbie che non avevamo previsto? Valentina Maini risponde con le pagine di questo esordio sorprendente – una rete di storie che coinvolgono famiglie borghesi, spacciatori, maniaci, scrittori, tagliatori di valigie, cartomanti e donne delle pulizie – e lo fa con la decisione di Roberto Bolaño e Mathias Énard: guardando il caos dritto negli occhi.

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Monica Battisti
Monica Battisti (Roma, 1992) è dottoranda in Italianistica presso l’Université Paris Nanterre e Roma Tre; nella prima università insegna anche lingua italiana. Dopo svariati anni di schizofrenia tra Roma e Parigi – città in cui ha svolto l’Erasmus e alcuni stage (Società Dante Alighieri, Istituto Italiano di Cultura) –, ha varcato la soglia rassicurante del ‘périphérique’ di Parigi per risiedere felicemente nel famigerato “93” (Saint-Denis), scoprendo che si può persino uscire di casa senza rischiare un accoltellamento. Nelle giornate di brutto tempo (ovvero la maggior parte) la si può facilmente trovare alla Fondation Vuitton, al Jeu de Paume o alla Cinémathèque; in quelle di sole, invece, rigorosamente nel giardino dell’Istituto Italiano di Cultura, ‘locus amoenus’ d’elezione.

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