Arrivano diritte al punto le parole, quasi di rimprovero, mosse da Fiammetta regina della Quinta giornata del Decameron a Filostrato, re della Quarta giornata, le cui novelle avevano così tanto “contristato” i giovani cuori delle donne che, nel momento in cui sulla sua testa il re della giornata appena conclusa pone la corona di reggenza della giornata che deve cominciare, devono con urgenza rassicurare e alleviare nell’immediato le pene causate dalle storie raccontate:
– Filostrato, e io la prendo volentieri; e acciò che meglio t’aveggi di quel che fatto hai, infino a ora voglio e comando che ciascun s’apparecchi di dover doman ragionare di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse -. La qual proposizione a tutti piacque […].
E non poteva essere altrimenti, il tema è lo stesso: la centralità, la forza, la potenza dell’amore rimane indiscussa ma, rispetto all’argomento della giornata precedente (su cui in questo mensile: Floriana Calitti, Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”), si passa dagli amori che finiscono tragicamente (nel genere tragico si inizia bene e si finisce male) a quelli che, come le regole del genere commedia prevedono, da un inizio segnato da «fieri o sventurati accidenti» arrivano ad un lieto fine. Così come avviene nell’ottava novella «non meno di compassion piena che dilettevole» (Decameron V,8), al solito elegantemente esposta nella rubrica di Boccaccio:
Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato; vassene pregato da’ suoi a Chiassi; quivi vede cacciare a un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui a un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
La storia si svolge a Ravenna «antichissima città della Romagna» e nei suoi dintorni (la pineta di Chiassi, oggi Classe), il luogo prescelto da Boccaccio non è neutro e coinvolge alcune delle famiglie rinomate della città (Traversari e Anastagi) già menzionate da Dante, in Purgatorio XIV, vv. 107 e segg.: «la casa Traversara e li Anastagi /(e l’una gente e l’altra è diretata), /le donne e’ cavalier, li affanni e li agi /che ne ‘nvogliava amore e cortesia /là dove i cuor son fatti sì malvagi». Il protagonista è Nastagio degli Onesti, un nobile e molto ricco che ama non riamato la figlia (di cui non sappiamo e non sapremo il nome) di messer Paolo Traversari, quindi di famiglia ancor più nobile. Ma non è questo però il motivo del negarsi della fanciulla, alla quale non è stato impedito di unirsi a qualcuno di rango inferiore, come in tante altre novelle sia della Quarta sia della Quinta giornata del Decameron, ma semplicemente il non corrispondere quell’amore; una decisa ritrosia che mette a dura prova l’animo del giovane innamorato il quale si affatica e industria in tutti i modi per conquistarla (il lessico è quello cortese ma nel segno negativo del rifiuto), perché l’amore dei giovani, come sempre nel Decameron, è naturale e ineluttabile:
[…] Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre a amar lui. Le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte dopo essersi doluto gli venne in disidero d’uccidersi; poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o se potesse d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più multiplicasse il suo amore. (V, 8, § 6-8)
La storia sembrerebbe dunque ripercorrere i motivi di un amore infelice che potrebbe portare addirittura alla morte, come avviene nelle novelle della Quarta giornata dove gli amori finiscono tragicamente con la morte di almeno uno dei due amanti (se non di entrambi), invece nella Quinta giornata, a riequilibrare l’andamento narrativo che “troppo” dolore aveva causato, e per mantenere la promessa del diletto e ristabilire le regole della strategia retorica (che Fiammetta mostra di possedere), in un crescendo di pathos e importanti cambiamenti di scena, si arriva all’agognata e felice conclusione.
Infatti, visto il perseverare del giovane Nastagio nello spendere «smisuratamente», notazione non superflua visto che come vedremo un sottotesto dantesco, letterario e iconico è presente in questa novella, perché il protagonista oltrepassa la misura virtuosa della dimostrazione di liberalità e magnificenza (su cui si veda la novella che segue, la nona, con protagonista Federigo degli Alberighi www.liberliber.it) per cadere in quella del vizio dell’ eccessiva prodigalità, amici e parenti, preoccupati per i rischi che correvano la sua stessa vita e il patrimonio, lo consigliano più volte di allontanarsi da Ravenna. E Nastagio, come un cavaliere errante che parte per un’avventura, organizzato un grande «apparecchiamento», monta a cavallo e accompagnato da molti gentiluomini e dalla sua famiglia, si dirige verso Chiassi «un luogo fuor di Ravenna forse tre miglia».
Passano dei giorni finché si arriva al punto centrale della novella: è un venerdì (oltre al luogo anche la scelta del giorno non è casuale e da tradizione dantesca e petrarchesca la sovrapposizione tra calendario liturgico e laico è certa: il venerdì si trascina sempre dietro la simbologia religiosa del giorno consacrato alla Passione di Cristo), «quasi all’entrata di maggio» quando Nastagio decide di inoltrarsi da solo (eremita o malinconicamente solitario, anche questo come da tradizione) nella pineta di Chiassi. Quella stessa pineta di Chiassi che Dante sceglie per la descrizione del Paradiso terrestre nel canto XXVIII del Purgatorio (vv. 2 e segg.), quella divina foresta spessa e viva dove cantano gli uccelli al mattino, dove spira un dolce vento, dove una giovane donna appare mentre coglie i fiori, dove tutto si muove in una esaltazione della bellezza del creato. Un luogo unico, perché non appartiene né al mondo della storia né al mondo dell’eternità, collocato tra la terra e il cielo. È il giardino felice per eccellenza, il locus amoenus per eccellenza.
Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
e dove gli uccellini fanno da accompagnamento alle rime del dolce vento tra le foglie, di ramo in ramo, in quella pineta, sulla spiaggia di Chiassi, quando Eolo fa uscire Scirocco, liberandolo dalle catene.
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,
quand’Ëolo scilocco fuor discioglie.
Quel luogo edenico, quella «selva di pini» dove Dante amava passeggiare meditando come riporta il commento di Benevenuto da Imola, è lo stesso luogo dilettoso e ameno, perlomeno in apparenza, dove «essendo già passata presso che la quinta ora del giorno», un’ora topica, dunque, l’ora meridiana delle allucinazioni e nella stagione primaverile, la più consona alle visioni, Nastagio vede (e il verbo è ripetuto più volte a sottolineare l’importanza del vedere) una scena che trasforma quel locus amoenus in locus horridus, in un locus inferni:
E essendo già passata presso che la quinta ora del giorno e esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse e maravigliossi nella pigneta veggendosi. E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove giungevano la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. (§14-17)
Un bosco, una foresta, una selva per tradizione fiabesca e per archetipi letterari, a partire dal venerato Dante, luogo che nasconde ombre, misteri, incanti e allucinazioni, il luogo dell’ossimoro, del dilettoso orrore, dell’ambiguità data dall’essere attirati da una natura gradevole, il luogo delle visioni. Così come il bosco dei suicidi, bosco di morte, macabro, del canto XIII dell’Inferno di Dante un luogo che sin dall’inizio del canto non lascia dubbi, con tutte le negazioni che accumula, su ciò che questo bosco non è, non è un bosco verde, non è niente di tutto ciò che un bosco, solitamente, è. Un bosco senza «fronda verde» e di «color fosco», quindi nero, oscuro e tenebroso. Rami non dritti, lisci, ma «nodosi» ritorti e “toschi”, cioè velenosi. Scrive Boccaccio, tra i primi lettori attenti e acuti della Commedia, nel commento a questo canto, nell’esposizione letterale: «si può comprendere il bosco doveva essere stato salvatico e per conseguente orribile». Una boscaglia di pruni contorti, pieni di spine e rovi secchi, sterpi una volta uomini, in Dante; un boschetto pieno di guai (lamenti, parola, per eccellenza, dell’Inferno dantesco), di arbuscelli, pruni e frasche che graffiano e feriscono nella novella del Decameron.
E i protagonisti della caccia diabolica, una donna che non ha nome e Guido degli Anastagi, coppia assolutamente speculare alla donna, senza nome, amata da Nastagio degli Onesti, il cui nome e cognome, peraltro, consuona con quello del cavaliere bruno che insegue una donna, un tempo amata, ma colpevole di averlo rifiutato e averlo spinto, quindi, al suicidio. Condannata poi essa stessa alla morte e a questa punizione che, in quanto infernale, dovrebbe ripetersi all’infinito, per l’eternità ma che Boccaccio rivela come fissa almeno per quanto è durato il suo colpevole rifiuto. È questa la scena che si para davanti all’attonito Nastagio, è la visione della caccia infernale, motivo folklorico forse di origini nordiche, si è parlato di Odino, diffuso in molti dei testi delle radici europee (si è parlato anche di Artù e persino di Teodorico di Ravenna), ma anche in quelli che sicuramente Boccaccio ha letto come il De amore di Andrea Cappellano e lo Specchio di vera penitenza (III, 2) di Jacopo Passavanti , un tema quello dell’inseguimento del dannato come fosse una bestia da braccare e da straziare molto diffuso nel linguaggio “colorito” della predicazione, nella letteratura esemplare e devota ma che, in questo caso, è ribaltata perché la violenta punizione è inflitta ad una donna non perché ha peccato per amore (come nella visione della caccia, causata da un amore disonesto, del carbonaio di Passavanti) ma perché si è negata all’amore ed è questo, appunto, il castigo che merita e che il cavaliere spiega in questi termini:
Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, e eri tu ancor fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei che tu ora non sè di quella de’ Traversari; e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato. Né stette poi guari tempo che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato, ma meritato, similmente fu e è dannata alle pene del Ninferno. Nel quale come ella discese, così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nemica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei […] (§21-25).
L’exemplum della storia di Guido degli Anastagi sta lì ad insegnar prima di tutto a Nastagio al quale il pensiero del suicidio aveva attraversato la mente e al quale, nello stesso tempo, era occorso il rischio di cadere nel peccato condannato da Dante e descritto in quello stesso canto tredicesimo, quello degli scialacquatori, violenti contro i propri averi e dunque contro se stessi che vengono inseguiti, cacciati e sbranati da cagne feroci:
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi
[…]
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
[…]
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Come nella narrazione di Boccaccio dove nell’inseguimento della donna il cavaliere è affiancato da due mastini: «uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sì come tu vedrai incontinente, le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani».
Altri motivi e altri topoi e altri miti (quello del cuore mangiato e la favola ovidiana di Atteone per cui anche Petrarca nella canzone 323, detta, appunto, delle visioni) si intrecciano qui, come d’altra parte la presenza dantesca in quella ripetitività della pena del contrappasso, fulcro della dannazione infernale e, dunque, eterna, come si potesse, all’infinito, riavvolgere una pellicola, nelle parole, ancora, del cavaliere: «Né sta poi grande spazio che ella, sì come la giustizia e la potenzia di Dio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla», e che è anche nell’eco di un altro canto della Commedia, quello dei seminatori di discordie (Inferno, XXVIII).
Ma ciò che qui preme sottolineare è anche la grande fortuna del racconto di Boccaccio, la cui fortuna è registrata almeno dalla grande pittura di Botticelli, nella sua forza di brillantezza, nella sua potenza, quasi paradossale, di dono di nozze (qui l’articolo di Anna Maria Panzera, Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento), soprattutto nella trasposizione della forza teatrale, quasi da sacra rappresentazione, che Nastagio sfrutta nella forza dell’esemplarità ripetitiva della scena «dello strazio della crudel donna», alla quale decide deve assistere la fanciulla che lo rifiuta e la sua famiglia e gli amici tutti invitati ad un sontuoso banchetto di venerdì, quasi al mezzogiorno, nella pineta di Chiassi.
La scena violenta a cui assistono colpisce sopra ogni altro la fanciulla amata che capisce di essere la destinataria privilegiata di quella spaventosa visione «la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita e conosciuto che a sé più che a altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggire dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi», al punto che in tutta fretta vuole convolare a nozze. Nozze, dal valore catartico, che si svolgono immediatamente la domenica successiva. Quindi, quella caccia infernale, in quella precisa scenografia simbolica, quasi uno stato d’animo più che un luogo, svela le paure più profonde, e si perpetua, nella sua efficacia spettacolare di exemplum:
E la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignate donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.
Floriana Calitti
(Università per Stranieri di Perugia)
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SOMMARIO DEL MENSILE BOCCACCIO 700
L’EDITORIALE
Né come Dante né come Petrarca: su Boccaccio rimatore, di Roberto Fedi
Boccaccio, il Decameron e la questione della lingua italiana, di Anna Mori
La voce a Boccaccio: Madonna Oretta, Giornata VI, Novella 1, di Floriana Calitti
Intervista a Giancarlo Alfano. L’intrigante Decameron, tra passato, presente e futuro, di Giovanni Capecchi
Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film, di Gianfranco Bogliari
Boccaccio in Europa. Non solo il Decameron, di Ilaria Rossini
L’affascinante storia editoriale del nuovo testo del “Decameron”. Intervista a Maurizio Fiorilla. Di Stefania Modano
Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”, di Floriana Calitti.
Intervista di Floriana Calitti ad Amedeo Quondam. Le cose e le parole del mondo nel “Decameron” di Boccaccio.
Nastagio degli Onesti e l’exemplum della caccia infernale, di Floriana Calitti
Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento di Anna Maria Panzera
Boccaccio narratore in versi: Il “Ninfale fiesolano” di Daniele Piccini
Boccaccio e le “conclusioni del Decameron” di Luigi Surdich