Immigrazione italiana. Questo racconto prende spunto da una lettera consultabile presso l’Archivio della Fondazione Paolo Cresci di Lucca scritta da un emigrato italiano in Francia e riadattata nel contesto storico italiano di fine Ottocento. I fatti e le persone narrate sono perciò frutto di una commistione fra realtà e finzione.
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Link all’insieme del Dossier « Odissea italiana. Storie e analisi dell’immigrazione italiana in Francia. 1860-1960 e oltre. Tutti i contributi. »
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Vittorio era sempre stato un tipo taciturno e introverso, sebbene in paese lo conoscessero tutti, nessuno poteva giurare di averci scambiato più di qualche parola. Era partito nel 1882 come militare alla conquista dell’Eritrea con la compagnia del Rubattino. Veniva da una famiglia di pastori della Lunigiana e, come molti, vide nell’impresa coloniale italiana la speranza di potersi finalmente conquistare un «posto al sole» e migliorare così la propria condizione economica ma, non avendo trovato la terra rigogliosa e fertile che gli era stata promessa, se ne tornò a casa.
Il padre era scomparso il 24 agosto 1880 a seguito del naufragio a largo della costa argentina del piroscafo italiano Ortigia, il fratello Mario era impegnato nella costruzione di una diga in Eritrea e le altre due sorelle, Maria e Teresina vivevano l’una con la madre inferma e l’altra con il marito e quattro figli.
Sfortunatamente per lui però, al suo arrivo, non poté riprendere il suo precedente lavoro nel panificio del paese e si ritrovò in un’estrema condizione di povertà. Nessuno seppe mai come sopravvisse in quei giorni di difficoltà economiche: qualcuno raccontò di averlo visto girovagare nei fienili e camminare a testa bassa nei vicoli del centro, qualcun’altro giurò di aver notato la sua esile ed alta figura sulla spiaggia come spinta dal vento e priva di vita propria.
Per un breve tempo nessuno ne parlò più, nemmeno le sorelle che finirono per crederlo morto. Il fratello Mario fece ritorno a Luni e, avendo trovato un saltuario impiego come taglialegna, dopo neanche un anno si sposò. Per quasi tre anni non smise di cercare l’amato fratello, con il quale era cresciuto condividendo prima la fame poi l’entusiasmo per la spedizione coloniale e coltivando assieme a lui un sincero patriottismo. Mesi dopo venne casualmente a scoprire da un commerciante torinese di passaggio verso Lucca, che il fratello gli aveva chiesto ospitalità per una notte, Vittorio avrebbe varcato la frontiera l’indomani per far visita ad una parente nel nord della Francia. Fu allora che Mario ricordò che la sorella Maria avesse intrattenuto, qualche tempo addietro, una corrispondenza con una cugina emigrata in Francia agli inizi degli anni Settanta ma della quale non avevano avuto più notizie.
Gli anni passarono e l’anziana madre morì. Un giorno Maria, rintracciato il recapito della cugina, le inviò un telegramma informandola dell’accaduto e neanche un mese dopo il postino le consegnò una lettera indirizzata al fratello Mario il quale riconobbe subito la calligrafia indecisa e tremolante di Vittorio. Proveniva da Trouville sur Mer, in Francia. Improvvisamente gli balzarono alla mente mille e più interrogativi:«Che cosa faceva in Francia? Godeva di buona salute? E se abitava nella stessa città della cugina perché non aveva fatto ritorno una volta saputo della morte della madre? Cosa gli aveva impedito di fargli avere sue notizie?». Mentre con la mente cercava le risposte ai suoi interrogativi aprì la busta e iniziò a leggere.
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Carissimo Mario,
se sono venuto a te con questa lettera è perché sentivo l’estremo bisogno di parlarti, perché sono certo che provi ancora dell’affetto per me e che, per parte mia, contraccambio con tutte le forze…
Mario, mentre ti scrivo le lacrime mi riempiono gli occhi ed il pianto mi sale alla gola, ma non vedere in ciò un segno di debolezza, amare è forza e in queste lacrime io ritroverò tutto il coraggio di raccontarti cosa mi ha portato ad allontanarmi da te. A te solo mi rivolgo, perché so esserti dato pena per me e perché sono certo che mi comprenderai… Ti prego perciò di leggere attentamente ciò che ho da dirti provando ad apprezzare nuovamente la nobiltà di questo tuo fratello nel quale scorrerà per sempre il tuo stesso sangue.
Mario, non vorrei tornare sul passato, ma purtroppo sono costretto a farlo per farti realmente comprendere cosa mi ha portato a compiere l’estremo gesto. In quel triste giorno che la cugina Ilde mi comunicò la morte della nostra cara mamma sentii l’irrefrenabile istinto di tornare a casa per porgerle l’ultimo saluto ma la paura di leggere nei tuoi occhi la rabbia e il rancore, che certamente provi nei miei confronti, mi bloccò. Partendo avrei inoltre perso il lavoro e i soldi che mi sarebbero serviti per raggiungervi erano necessari alle cure della mia consorte allora ammalata. Fratello mio, molte cose sono cambiate nella mia vita e niente mi fu semplice all’inizio. Certamente quando iniziai qui il lavoro di carpentiere avevo già cinquemila trecento franchi di debito che però riuscii ad estinguere in solo due mesi e mezzo di lavoro. Malgrado le spese improvvise ti dirò che sono riuscito a crescere due figli ai quali non ho mai fatto mancare niente; in alcuni momenti sono arrivato a mettermi da parte anche più di tremila franchi. Avrei forse potuto, o potrei tutt’ora, dare alla mia famiglia in Italia quel tenore di vita che qui le do? Avrei potuto fare tutto quello che qui ho fatto? Sei troppo intelligente per negarti la risposta…
Mario, pur essendo un uomo, ripensando a quell’affetto fraterno che ci ha sempre uniti non riesco a trattenere le lacrime. Sono troppi i ricordi e gli accaduti che pesano nella mia mente e che devi conoscere affinché tu possa nuovamente credere alla buon’anima di tuo fratello. Quando ritornai dal servizio militare la nostra povera mamma mangiava grazie a Toni ed io non ritrovai più il mio precedente lavoro. Il giorno dopo il mio arrivo, il furbone mi dette quindi il benvenuto chiedendomi quindici lire al giorno per il vitto e l’alloggio della mamma e quindici per me nel caso avessi voluto, ugualmente, un tetto sopra la testa ed un pasto caldo, consapevole che non avrei avuto nessun altro da cui recarmi, neppure per dormire. Comprendimi Mario, la situazione era disperata e non volli chiedere aiuto a Maria ed Ernestina che già avevano i loro di problemi… Passai giorni girovagando per le campagne e per il paese, dormendo dove capitava e andando a caccia la notte come un lupo affamato; nessuno si curò di me. Ricordo che l’unico che si mosse a compassione fu il buon vecchio Umberto che mi offrì un pasto caldo lasciandomi passare la notte nel suo forno, il giorno dopo, però, fui costretto a ripartire. La fatica e la disperazione di quei giorni fu talmente tanta che una mattina mi ritrovai sul bagnasciuga come un naufrago rifiutato dalle acque che bagnarono la terra dalla quale era nato. Fu all’ora, Mario, che presi l’amara decisione e, raggranellando centoventi franchi, partii. Maria era al corrente di tutto ma non volevo te ne parlasse per paura che tu mi ritenessi un traditore ed un ingrato…
Non ho mai scordato la nostra promessa e per questo confidavo che solamente la mia ipotetica morte avrebbe potuto meritare la tua comprensione e, forse, il tuo perdono. Ricordo come adesso il giorno che mi recai da Maria, quando le dissi di voler partire mi rispose: «un uomo giovane e forte come te non deve temere niente». Credimi, partii di casa sua col cuore che mi si spezzava dal dolore ma compresi finalmente che molto altro dovevo pretendere dalla vita.
Mario, voglio raccontarti le privazioni che subii dopo la mia partenza, perché sono troppo duri per me questi ricordi ma ringrazio la mia santa mamma e il mio babbo di infondermi il coraggio di parlartene e Dio di togliermi finalmente questo peso dal cuore. Non so cosa mi trattenne dalla tentazione di farla finita… Piansi per tutto il viaggio temendo per il futuro della mamma ma riponendo ogni fiducia nella tua forza di volontà e nella tua clemenza, mio adorato fratello.
L’inserimento a Trouville fu facilitato dalla nostra cara cugina che mi trovò subito un impiego in un’officina. Ogni notte pregavo Dio affinché steste bene e piangevo, Mario, piangevo implorando il tuo perdono. Quel destino che ci eravamo giurati di affrontare insieme in quei giorni mi tese la mano: io che non avrei mai creduto di poter avere una famiglia, fui sorpreso un giorno dalla vista di una vedova ancora giovane, dall’aria triste e con un bambino fra le braccia. Nel mio italiano stentato riuscii ad avvicinarla e dopo qualche mese ci sposammo, trasferendoci a casa di una sua zia ormai allettata della quale continuiamo ad occuparci.
Mario, fin dal mio ritorno dall’Eritrea il destino ha disseminato di sfide il mio cammino regalandomi però una nuova vita. Non credere che, abitando lontano e parlando un’altra lingua, abbia perso l’amore che sempre nutrì per la nostra Patria. Il fatto è che solamente qui riesco ad immaginare il mio futuro e sono riconoscente a questa nuova terra che mi ha dato un lavoro dignitoso, una casa ed una famiglia da amare ed accudire. Mi ricorderai quindi che di famiglia già ne avevo una e ti assicuro che non l’ho dimenticata ma se fossi rimasto nessuno mi avrebbe mai salvato dalla povertà e sarei sicuramente morto di fame; la miseria aveva privato la nostra famiglia ed i vecchi amici di quella solidarietà e generosità d’animo che sempre gli contraddistinse. In questo momento, però, l’unico vero pensiero che mi tormenta sei tu, perché ho paura che dopo questa lettera mi vorrai privare per sempre del tuo fraterno affetto non volendo comprendere le difficoltà e le paure che mi avevano impedito di farti avere mie notizie. Se un giorno vorrai recarti qui da solo o con le nostre sorelle (o con la tua famiglia?) sarò lieto di accoglierti e di trovarti un impiego se vorrai.
Porgi i miei saluti a tutti quelli che si ricordano di me, bacia le nostre sorelle e digli che le ho sempre avute presenti. Più nulla ho da dirti, e con la speranza che tu voglia comprendermi, ricevi il mio sincero saluto. Un forte abbraccio dall’affezionatissimo fratello Vittorio che mai ti ha dimenticato.
Giulia del Grande