Il più ricco e il più scaltro dei matrimoni ai giorni nostri impallidirebbe di fronte a quelli predisposti dalle famiglie patrizie della Firenze rinascimentale. Il matrimonio nel Rinascimento è cosa pubblica e sancisce un accordo sostanzialmente economico; abboccamenti, fidantie e subarratio avvengono alla presenza delle famiglie e di notai; nessun incontro privato tra i futuri sposi; le cerimonie si svolgono nella casa dello sposo o della sposa; decori, banchetti e doni prevedono l’impiego di maestranze colte e sapienti, d’intellettuali, di artisti.
Quando si dice matrimonio, poi, si dice ruolo: ruolo della donna nella società antica, circoscritto, fissato dalla Lex Saxonum come da quella cristiana; affermarne la marginalità, funzionale a una società nettamente maschile dedita alle guerre e alle trame machiavelliche, è quasi superfluo.
Tuttavia, il periodo che corre tra la fine del 1300 fino a tutto il 1400 si scopre talvolta capace di abbandonare l’eccessiva misoginia, per riservare al genere femminile un’attenzione che, non priva di limiti, pure comincia a liberarsi di certi retaggi, soprattutto religiosi. Almeno tra le élites, la vita sociale ruota in gran parte intorno alla figura della donna. Un terreno in cui le aspirazioni personali non trovano spazio, si dirà: certo, ma vi è sotterrato il seme che contiene il futuro dell’emancipazione, ossia l’istruzione, l’educazione alle lettere e alle arti, che rende mogli e figlie fruitrici e dedicatarie di trattati come il De studiis et litteris di Leonardo Bruni. Non sarà un caso che all’indomani dell’Unità d’Italia, gli studi storici sulla donna nel Rinascimento forniscono materiali e modelli per “fare le italiane”. Lo stesso Jacob Burckhardt, che del periodo è stato insigne studioso, sostiene che la renovatio propria del XV secolo – pur con tutti i suoi lati oscuri – ha il peso che tutti conosciamo proprio in virtù dell’accesso delle donne alla cultura.
Al suo entusiasmo possiamo replicare che in innumerevoli casi la cultura cui le donne approdano riafferma la loro subordinazione. D’altro canto, non c’è dubbio che l’accesso all’alfabetizzazione è il giro di chiave necessario ad aprire qualunque futura porta, anche perché già da qualche tempo la letteratura mostra interesse per un’immagine di donna affatto nuova.
Ne è prova il successo di un autore come Giovanni Boccaccio, che assume sostanza non tanto nel momento stesso in cui la sua opera più importante, il Decameron, è pubblicata; quanto proprio nel secolo seguente, quando si creano le condizioni di un timido mutamento del “costume donnesco”. Benché le prime edizioni del Decameron siano sfogliate da mani di lettori esclusivamente maschili – lo dimostrano le annotazioni a margine e i nomi dei proprietari ivi trascritti – Boccaccio comprende che il nuovo pubblico cui rivolgersi indossa la gonna e trascorre lunghe ore a casa; lo scrive chiaramente nella famosa dedica. Perciò, la novità del libro non è nel tema favorito, l’amore, e neppure nel pubblico cui è destinato (non è forse vero che la trattatistica di riferimento è dedicata alle donne perlomeno dai tempi della Vita Nova di Dante Alighieri?); la vera modernità sta nel profilo di donna che Boccaccio vi disegna, niente affatto stereotipata, rispetto ai canoni lirici coevi: « Esse […] ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri». A queste identità che la società vuole depresse, stravolte nei pensieri e negli affetti – perché costretti sono i loro desideri e le loro passioni – Boccaccio offre immagini di donne attive e intraprendenti, reattive anche fino a limiti estremi e tragici, sempre in relazione stretta e conflittuale con l’uomo, cui non è dovuta sottomissione: piuttosto, gli si offre un’alleanza, stante il reciproco riconoscimento del rispettivo valore, dell’intelligenza e del coraggio.
Attraverso e grazie a questo messaggio l’educazione e le proposte letterarie per le giovani durante il primo Rinascimento cominciano ad arricchirsi e a variare: non solo gli exempla tratti dalle agiografie delle sante martiri, dalle vicissitudini delle eroine bibliche, ma una nuova “mitologia” fatta di vicende tutte terrene che, se pure utilizzano canoni iconografici fantastici o fiabeschi, raccontano anche dell’inutilità – quando non della pericolosità – degli antichi rituali cortesi provenzali, poi mutati in idealizzazione religiosa di buona memoria dantesca e petrarchesca.
Su questo terreno, a distanza di un secolo, Boccaccio primeggia ancora in maniera incontrastata e i suoi scritti “dalla parte delle donne” contribuiscono alla creazione di un singolare genere figurativo, con ampia diffusione in Italia. Nasce una pittura che ama “novellar figurando”: fatti precisi, personaggi illustri dell’universo femminile, le cui storie si dipanano non solo su tavole da cavalletto o negli affreschi, bensì e soprattutto su spalliere di letti e forzieri, su divanetti e rivestimenti per camere nuziali (che costituiscono una parte cospicua della donatio propter nuptias); una vera letteratura dipinta, una pittura privata, a uso domestico, che precede o commenta la vita matrimoniale. I pennelli che la realizzano non sono solo quelli degli artigiani: vi si dedicano artisti di primissimo livello e non c’è dubbio che l’incontro di questi con Boccaccio sia l’occasione per sperimentare ed esprimere inedite doti narrative e d’invenzione. Tanto che persino un’autorità della storia della grande pittura, come Giorgio Vasari, un secolo dopo si sofferma sull’alta qualità e sull’enorme varietà di motivi «di così fatti ornamenti da camera»: «usandosi in que’ tempi per le camere de’ cittadini cassoni grandi di legname a uso di sepolture e con altre varie fogge ne’ coperchi, niuno era che i detti cassoni non facesse dipignere: ed oltre alle storie che si facevano nel corpo dinanzi e nelle teste, in su i cantoni e talora altrove, si facevano fare l’arme ovvero insegne delle casate. E le storie che nel corpo dinanzi si facevano erano per lo più di favole tolte da Ovidio e da altri poeti, ovvero storie raccontate dagli istorici greci e latini, e similmente cacce, giostre, novelle d’amore, ed altre cose somiglianti, secondo che meglio amava ciascuno. Il di dentro poi si foderava di tele o di drappi, secondo il grado e potere di coloro che gli facevano fare, per meglio conservarvi dentro le veste di drappo ed altre cose preziose. E che è più, si dipignevano in cotal maniera non solamente i cassoni, ma i lettucci, le spalliere, le cornici che ricignevano intorno […]. E per molti anni fu di sorte questa cosa in uso, che eziandio i più eccellenti pittori in così fatti lavori si esercitavano senza vergognarsi […]»[[Opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, II, Firenze 1822, pp. 33-34.]].
Ecco che dalle pagine del trattato De praeclaris mulieribus sono tratti gli spunti utili a un anonimo veronese per dipingere con grande libertà l’episodio culminante e drammatico della storia di Bruto e Porzia[[1470, Museo Czartoryskich, Cracovia. Vedi alla pagina web
http://muzeum.czartoryskich.pl/en/node/12521]]; le avventure di Lucrezia, eroina della pudicizia, si squadernano sulle spalliere realizzate nella bottega di Botticelli e Filippino Lippi. Affreschi con la storia di Griselda, la contadina virtuosissima, ornano la stanza da letto nella torre di sud-est del castello di Roccabianca (Parma) e una sala del castello di Pavia (questi ultimi perduti)[[Degli affreschi patavini si ha notizia dalla Cronaca di Saluzzo di Goffredo della Chiesa, scritta intorno al 1430. In Indicatore lombardo, ossia raccolta periodica di scelti articoli, IV, III serie, Milano 1834, p. 128.]]; la stessa storia è ripercorsa con grande efficacia da un anonimo fiorentino, esperto in cassapanche e deschi da parto, su pannelli smembrati e ora conservati nella Galleria Estense a Modena e nel Museo Correr a Venezia; ritroviamo due frammenti della storia di Griselda a Bergamo, nella Galleria dell’Accademia Carrara: dipinti da Francesco di Stefano, detto Pesellino, raffigurano Gualtieri e i cittadini di Saluzzo e l’Incontro e nozze di Gualtieri e Griselda (1450 ca.)
[[Si possono vedere le tavolette sul sito dell’Accademia, digitando
http://www.accademiacarrara.bg.it/ e usando la ricerca interna alla collezione di dipinti. La novella di Griselda è la centesima, l’ultima del Decameron (X,10); ebbe grandissima fortuna europea, anche perché tradotta in latino da Petrarca. Si può trovare l’intero Decameron alla pagina web
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/boccaccio/decameron/pdf/boccaccio_decameron.pdf; la decima novella è a pag. 1105.]].
L’elenco potrebbe continuare a lungo, comprendendo opere che ormai si sono irradiate nei musei di tutto il mondo (Londra, Budapest, Parigi, Berlino, Stati Uniti d’America), da un unico centro: Firenze.
Qui nel 1483 si celebrano le nozze di Giannozzo Pucci (già al suo secondo matrimonio) con Lucrezia Bini (quindicenne). Le due antiche famiglie fiorentine organizzano un matrimonio sontuoso, patrocinato da Lorenzo il Magnifico in persona. La storia dei Medici e dei Pucci, entrambi provenienti dalla classe mercantile, è intrecciata da lunga data: i secondi, partecipi dell’ascesa dei primi, sono anche stati attori dell’opera di pacificazione seguita al fallimento della congiura de’ Pazzi (1478), attraverso un’attenta politica matrimoniale che ha intrecciato gli interessi delle parti avverse. Ricchissimi, sono già imparentati alla piccola nobiltà romana ma la loro spregiudicatezza non è mai sazia di rispettabilità: che evidentemente fa gioco anche al Magnifico, il quale, combinando l’unione di Lucrezia e Giannozzo, ha l’occasione per contraccambiare quanto fatto per i suoi in passato. La famiglia Bini, invece, vanta nel suo casato molte autorevoli figure di priori e gonfalonieri di giustizia; si veste di alterigia morale ma non è annoverata fra le più facoltose della città.
È dunque in chiave allusiva (non senza una punta di ironia), che viene scelta la decorazione per la futura camera degli sposi in palazzo Pucci: dipinta su quattro pannelli[[Attualmente solo l’ultimo è nella sede originaria, in collezione privata; gli altri sono conservati a Madrid, Museo del Prado.]], è la storia di Nastagio degli Onesti, tema dell’ottava novella nella quinta giornata del Decameron di Boccaccio[[La medesima novella è presente anche in altri manufatti analoghi di scuola fiorentina, e in una tavola dell’abruzzese Antonio Solario, detto Lo Zingaro, attivo tra le Marche e Venezia.]]; la morale di questo racconto a lieto fine è la disponibilità che la donna deve mostrare verso chi le fa profferte d’amore. Nella vita reale, la proposta impossibile da rifiutare non è tanto amorosa, quanto d’affari: un accordo solidissimo tra differenti realtà patrimoniali, sigillato dalla verginità di Lucrezia.
L’autore dei cartoni preparatori è Sandro Botticelli, richiamato a Firenze da Roma, dove ha partecipato alla decorazione della cappella Sistina; per i molti impegni, ne affiderà la realizzazione alla propria bottega, in particolare agli abili Bartolomeo di Giovanni e Jacopo del Sellaio, già allievo del Ghirlandaio.
Il racconto di Boccaccio è ormai noto. Botticelli lo sintetizza in quattro episodi salienti, il cui raccordo è affidato alla competenza di chi guarda.
Nella prima tavola, un pensoso e amareggiato Nastagio (riconoscibile dalle calze-braghe rosse e dalla tunica azzurra) vaga nella pineta di Classe, dove egli si è trasferito con tutte le comodità, dopo che parenti e amici (vicini alla tenda, a sinistra) hanno suggerito – unico medicamento alla sua malattia d’amore – la lontananza da Ravenna. La solitudine del giovane è bruscamente interrotta dalla visione della crudele venazione ai danni di una fanciulla da parte di un collerico cavaliere: egli brandisce uno stocco, mentre due segugi si avventano selvaggiamente ai fianchi della donna. Nastagio tenta inutilmente di scacciarli con un ramo.
La seconda tavola presenta l’efferata uccisione di lei, con l’inseguitore che le strappa il cuore e lo getta in pasto ai cani (su cui rinvio a Floriana Calitti, Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”); è il momento in cui l’episodio viene compreso nella sua realtà fantastica: il fantasma ha rivelato l’identità sua, della fanciulla e i retroscena del tormentoso contrappasso, che ricomincia subito dopo (come si vede nella ripresa della caccia, sul fondo).
Nel terzo pannello è raffigurato lo scompiglio durante il banchetto in onore della famiglia Traversari, volutamente allestito in concomitanza dell’apparizione infernale, che puntualmente avviene. Seguendo la linea orizzontale lungo la quale si svolgono le scene, ora siamo oltre le tende raffigurate nel primo episodio, che qui si trovano perciò a destra. Riconosciamo ancora Nastagio, al centro della composizione, mentre invita i commensali alla calma e ad ascoltare le spiegazioni sull’accaduto; incontriamo per la prima volta la Monna de’ Traversari sua futura sposa: è la terza fanciulla da sinistra, vestita di bianco. La distingueremo chiaramente nell’ultima tavola.
Qui, finalmente, ella fronteggia il suo prediletto, che le offre il pegno della riconciliazione. Il banchetto nuziale si svolge sotto le arcate di una magnifica architettura classica, nella quale la stessa pineta di Classe s’è “trasformata” come in un progressivo diboscamento: la natura è domata e ridotta a essere solo ulteriore elemento decorativo di uno spazio completamente umano, civile e cortese; la sua presenza è solo simbolica ed il suo significato è racchiuso negli esili mirti benaugurali; i fusti degli alberi sono mutati in pilastri sormontati da capitelli corinzi, le fronde dei pini sono ora volte e arcate di un’architettura innalzata dalla mano dell’uomo, come può essere l’edificio della politica o la costruzione di una lungimirante alleanza.
Benché non manchino indizi che il significato del ciclo decorativo sia emblematico e didascalico, il testo botticelliano ripercorre pressoché fedelmente quello di Boccaccio. Solo qualche dettaglio è modificato: cavaliere e cavallo, invece di essere bruni e foschi, riprendono l’iconografia classica del San Giorgio (armatura d’oro, cavallo bianco e mantello rosso). Stupisce il modo con cui il ritmo narrativo incalzante è efficacemente restituito dalla pittura, ma non ci sono concessioni ad alcuna esagerazione (né nel dinamismo, né nella crudezza), perché tutto è filtrato attraverso il gusto di un lusso tutto letterario, che Botticelli esercita nella casa stessa del Magnifico, dove le disquisizioni dotte, intrise di cultura neoplatonica, sono presiedute da Agnolo Poliziano. La preziosità del dipinto si traduce in dovizia di particolari, da notare soprattutto nelle scene conviviali: gli abiti dei commensali, i servi che vanno e vengono recando vivande, la credenza con mesciroba posta al centro dell’ultimo pannello, il ricco vasellame.
E l’artista non dimentica neppure i principii estetici sanciti da Leon Battista Alberti: chiarezza nella visione, ossia composizione a prospettiva conica (rispettata in ciascuna tavola, nei paesaggi diventa sfoltimento della vegetazione, che corrisponde all’apertura di un cannocchiale prospettico centrale); pudicizia, anche nella raffigurazione dei nudi (si osservino le fronde del ramo, prima impugnato e poi lasciato cadere da Nastagio, che nel secondo episodio coprono le natiche della fanciulla); movimento ed emozioni: «veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero l’assedia, stanno con sue forze e sentimenti quasi balordi, tenendo sé stessi lenti e pigri in sue membra palide e malsostenute» [[L.B. Alberti, De Pictura (1436), a cura di C. Greyson, Laterza, Roma-Bari 1980 (copia digitale in
www.liberliber.it), pp. 16-17.]]. Sembra il ritratto di Nastagio nella prima tavola! Con altrettanta sensibilità sono resi i moti del suo orrore di fronte alla violenza (seconda tavola), cui anche il cavallo risponde con un timido ritrarsi: due linee – la sua e quella della figura del giovane – perfettamente contrapposte, come parentesi all’interno delle quali si compie l’inevitabile.
L’accadere delle cose è l’elemento più interessante dell’opera: segue l’onda di una dimensione temporale complessa e multipla, non solo costituita dalla successione dei pannelli ma di volta in volta interna a ciascuno di essi; le raffigurazioni sfiorano l’innocente assurdità del Surrealismo, all’interno della più lineare delle partiture. Nella prima tavola – da leggere come la stringa di un fumetto o una successione di fotogrammi – il personaggio di Nastagio è ritratto tre volte, per corrispondere ai tre momenti fondamentali dell’inizio della sua avventura. Nella seconda, un tempo e uno spazio circolari sono percorsi dai fantasmi, che compiono e ricominciano il loro scempio; ma non basta: luogo e tempo ordinario e straordinario convivono nel quadro, diversi e reciprocamente incuranti, perché ai famelici animali in primo piano si contrappongono placidi cerbiatti che, poco più dietro, si abbeverano alla fonte o brucano le foglie di un arbusto, indisturbati. Prevale la flagranza dell’istante nel terzo pannello, dove i commensali sono immortalati nel momento in cui si alzano di scatto da tavola, con la paura di essere travolti dalla fuga della donna o dalla ferocia dell’inseguitore: si rovesciano piatti, coppe e bacili; il cibo scivola sui lini; un musicista sta per scagliare sui cani i suoi tamburi, mentre un altro abbandona il liuto sulla tavola e scappa; un ritmo convulso viene scandito dalle mani di tutti che si levano in aria. È un procedere calmo e cadenzato, invece, quello dell’ultima scena: la schiera delle donne e quella degli uomini si fronteggiano composte, festeggiano il ritorno all’ordine e la conquista della bellezza.
Qui potrebbe finire la storia e chiudersi il sipario sull’unione di Giannozzo e Lucrezia. Ma l’affezione che Botticelli mostra verso la novella di Boccaccio sembra motivata da qualcosa di più, che il semplice obbligo di una commessa.
Infatti, egli la propone tredici anni dopo in un dipinto di forte sapore allegorico, La Calunnia[[1496, Firenze, Galleria degli Uffizi.]], dove restituisce in immagine le parole con cui Luciano di Samosata (121-181 ca.) descrive un celebre dipinto di Apelle, ambientando la scena in un’architettura immaginaria, riccamente decorata di rilievi. La minuziosità con cui essi sono disegnati ha spinto gli studiosi a identificarne i soggetti: si è scoperto così che i rimandi al Decameron e in generale all’opera di Boccaccio sono moltissimi e dunque rivestono un ruolo particolare nell’intero programma iconografico.
In particolare, all’ottava novella della quinta giornata del Decameron e al trionfo d’Amore è dedicata la volta dell’arcata a sinistra dell’osservatore. Riconosciamo chiaramente la scena della venazione, speculare rispetto all’impostazione delle tavole Pucci e, naturalmente, svolta in direzione del fondo del dipinto [[Un’immagine in discreta definizione qui:
http://artmasko.files.wordpress.com/2009/11/calunnia-di-apelle.jpg. Un progetto di digitalizzazione in alta definizione del dipinto botticelliano è stato condotto da Haltadefinizione e alcuni particoli sono visibili alla pagina web
http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=1315]].
L’utilizzazione del medesimo tema in un contesto così differente, lascia ipotizzare che Botticelli accolga l’indicazione di Boccaccio contaminandola di significati ulteriori, per capire i quali è necessario allontanarsi da ogni contingenza, riflettendo invece sul senso che alla composizione della caccia amorosa viene conferito in epoca umanistica: è possibile che Boccaccio ne avesse una lettura più laica rispetto allo spiritualismo idealistico botticelliano, benché le radici di tale materia siano inevitabilmente nella mitologia classica, da entrambi condivisa e che Boccaccio stesso aveva racchiuso in un gustoso compendio, intitolato La genealogia de gli dei de’ gentili. Qui è riportata la favola di Atteone; fra tutte le versioni disponibili, Boccaccio sceglie queste: «Questi fu cacciatore […], il qual un giorno lasso per la caccia essendo sceso nella valle di Gargaphia, percioche ivi v’era una fonte fresca, e chiara, affine forse di trarsi la sete, avenne che in quello vide Diana, che ignuda si lavava. Di che essendosi accorto Diana, et soportando ciò malamente, prese dell’acqua con le mani, et spruzzò nel volto di lui dicendo. Và, et dillo se puoi. Questo alhora fu subito convertito in un cervo, che veduto dai suoi cani fu incontinente morto, e co’ denti tutto stracciato, et mangiato. […] Anassimene, il quale trattò delle dipinture antiche dice nel secondo libro che Atteone amò la caccia in gioventù, et pervenuto alla matura età, considerando i pericoli delle caccie, cioè veggendo la ragion de l’arte sua quasi ignudo, divenne pauroso. […] ma fuggendo il pericolo delle caccie, nondimeno non lasciò l’affetto di cani, ne quali da lui invano pasciuti consumò quasi tutta la sua facultà. Perciò fu da suoi cani divorato»[[La genealogia de gli dei de’ gentili di M. G. Boccaccio, Con la spositione de sensi allegorici de le favole, et con la dichiarazione dell’Historie appartenenti a detta materia, tradotta per M. Gioseppe Betussi da Bassano, in Venetia appresso Fabio et Agostino Zoppini Fratelli,1631, p. 88.]].
La favola di Atteone, sin dall’antichità non mancò di colpire e dar luogo a molteplici interpretazioni. L’incontro tra il cacciatore e Diana spingeva filosofi ed esegeti a teorizzare sulle dinamiche dell’incontro tra l’uomo e la dea nuda, come dire l’amante e l’oggetto del suo amore, due termini fra i quali Eros agiva in maniera tutt’altro che scontata. Nell’impossibilità di approfondire l’argomento, ci basti ricordare che le traduzioni allegoriche del mito di Atteone, ulteriormente sviluppate dalla filosofia rinascimentale, conducono verso una metafisica dell’eros, intesa ad assimilare il furor erotico all’ascesa intellettuale; Boccaccio propende a ribadire la tensione dell’amore naturale verso i corpi, senza per questo limitare il potere fantastico di eros, ossia la sua realtà intimamente mentale, che fa coincidere il desiderio con la ricerca di una conferma – che gli occhi potranno riconoscere in una figura esterna – all’immagine che in prima istanza nasce dentro ed appartiene a colui/colei che ama (ossia, che si predispone a ricevere questa “malattia” che sana).
Per Botticelli, sulla scorta delle riflessioni sull’Amore che erano di Marsilio Ficino e del già citato Agnolo Poliziano[[Questi si fa promotore di un gruppo di ricerca artistica, per il quale prepara numerosi programmi iconografici, da cui non si può escludere proprio quello de La Calunnia]], l’immagine della caccia, che la vicenda di Atteone identifica perfettamente, allude al momento in cui la visione dell’oggetto d’amore produce i suoi massimi effetti: Atteone (colpito da Eros) vaga con i suoi cani (che sono i suoi stessi pensieri amorosi), fino a quando non incontra Diana (la stella, l’intuizione di una verità più alta) alla fonte; qui sarà lui a trasformarsi in preda ma eventualmente sarà solo la sua paura a farne una vittima: al contrario, accettando le conseguenze di quell’epifania, non ci sarà sorte più felice ed estasi più elevata[[Con analogo senso, nel 1585 Giordano Bruno narra la favola di Atteone negli Eroici furori.]].
Quando Boccaccio narra la novella di Nastagio degli Onesti e tratteggia al suo interno la visione infernale[[Probabilmente servendosi a questo fine anche della versione nordica e terrifica dello stesso mito, trasposta da Jacopo Passavanti, suo contemporaneo.]], egli trae spunto dalla favola di Atteone, però invertendo i ruoli tra cacciatore e preda, e condannando alle pene eterne coloro – la protagonista femminile in particolare, lacerata dai cani – che non si assoggettano al dolce tiranno; nondimeno, ammonendo i novelli amanti ed esaltando l’ingegno di Nastagio, che sa por fine alla propria sofferenza mutando in amore la colpevole ritrosia della giovane de’ Traversari, non solo per sé ma per il bene di lei essa stessa: rifiutare l’amore è come rifiutare l’intima essenza della vita, che è perpetua rigenerazione.
Un tema che anche Botticelli sente profondamente. Per il suo animo neoplatonico, bellezza e amore sono le vie regie alla conoscenza, alla giustizia, al successo. In accordo con le teorie ficiniane, i mastini della favola divengono nella sua pittura, in particolare nelle tavole dipinte per le nozze Pucci – Bini, simboli della volontà (quello nero), e dell’intelletto (quello bianco), cui è attribuito un esaltante potere metamorfico. Qui – come nella scrittura di Boccaccio – agente in modo traslato e capovolto: non sul cacciatore (che nella favola originaria diventa preda), ma sulla donna, oggetto d’amore. Nell’ultima delle tavole Pucci, ella non è del tutto figura mistica ma neppure attrice di un amore ordinario, come mostra la sontuosa messa in scena architettonica: conquistata dal tiranno che tutto governa, Amore, è il perno ideale e materiale di un progetto perfetto.
La Monna de’ Traversari, come molte delle altre figure femminili raccontate da Boccaccio ci appare più vera; bellissima e terrena, maliziosa e capricciosa, dà a Eros un volto naturale: la sua prima iniziativa, dopo il grande spavento avuto durante il banchetto nel bosco, è quella di andare da Nastagio sotto mentite spoglie, per offrirsi a lui. Nastagio elegantemente rifiuta; promesse le nozze, l’onore è salvo.
Però, chi oggi andasse a Classe, nei pressi della famosa basilica di S. Apollinare, può ancora passeggiare all’interno della pineta che conduce alla spiaggia e respirare l’atmosfera che comunque Botticelli coglie e restituisce, odorosa della resina che trasuda dagli alti fusti dei pini, la cui ombra diserba e spiana il terreno: e aspettare.
Anna Maria Panzera
Docente e storica dell’arte
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SOMMARIO DEL MENSILE BOCCACCIO 700
L’EDITORIALE
Né come Dante né come Petrarca: su Boccaccio rimatore, di Roberto Fedi
Boccaccio, il Decameron e la questione della lingua italiana, di Anna Mori
La voce a Boccaccio: Madonna Oretta, Giornata VI, Novella 1, di Floriana Calitti
Intervista a Giancarlo Alfano. L’intrigante Decameron, tra passato, presente e futuro, di Giovanni Capecchi
Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film, di Gianfranco Bogliari
Boccaccio in Europa. Non solo il Decameron, di Ilaria Rossini
L’affascinante storia editoriale del nuovo testo del “Decameron”. Intervista a Maurizio Fiorilla. Di Stefania Modano
Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”, di Floriana Calitti.
Intervista di Floriana Calitti ad Amedeo Quondam. Le cose e le parole del mondo nel “Decameron” di Boccaccio.
Nastagio degli Onesti e l’exemplum della caccia infernale, di Floriana Calitti
Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento di Anna Maria Panzera
Boccaccio narratore in versi: Il “Ninfale fiesolano” di Daniele Piccini
Boccaccio e le “conclusioni del Decameron” di Luigi Surdich
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI IN ORDINE ALFABETICO:
- G. Boccaccio, Decameron, 1348-53
- G. Boccaccio, Genealogie deorum gentilium libri, a cura di Vincenzo Romano, voll. 1-2, G. Laterza e figli, Bari 1951. Pagina web
http://www.bibliotecaitaliana.it/indice/visualizza_testo/si040 - G. Boccaccio, De praeclaris mulieribus, 1361-1362.
- V. Branca, Boccaccio visualizzato. Opere d’arte d’origine italiana, Einaudi, Torino 1999.
- J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel 1860 (trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1968).
- Arduino Colasanti, Due novelle nuziali nella pittura del Quattrocento, in “Emporium”, XIX, 1904.
- N. Ghetti, Boccaccio “pittore” e le sue muse, “Left”, 23/11/2007. Pagina web
http://www.avvenimentionline.it/pdf/47_23-11-2007.pdf - V. Kirkham, The sign of reason in Boccaccio’s fiction, Olschki, 1993.
- G. Proietti, Le figure femminili del “Decameron”, tesi di Laurea, relatore A. Gareffi, pagina web
http://www.tesionline.com/__PDF/33267/33267p.pdf - P. L. Rubin, Images and Identity in fifteenth-century Florence, Yale University Press, New Haven – London 2007.
- M. Viero, La quinta giornata del “Decameron” di Boccaccio: un ipertesto del fondale della “Calunnia”, in “Engramma”, http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/saggio/42/42_viero_boccaccio.html