Il ritmo della vita, in Francia, è dettato dalle vacanze scolastiche. Da inizio settembre a fine giugno, si alternano sei settimane di scuola e due di vacanza. Più ovviamente la pausa scolastica di luglio e agosto. Restrizioni del Covid a parte, nella cerchia dei genitori parigini (in media, di buone condizioni economiche) le vacanze occupano l’intero spazio dell’esistenza. Per tre settimane si parla delle vacanze appena trascorse; per le 3 successive, di quelle che stanno per arrivare. Poi finalmente arrivano le due settimane tanto agognate, alla fine delle quali il ciclo riprende. Il periodo natalizio non fa eccezione.
Per me bambino, Natale era una discreta rottura di scatole. L’iconografia natalizia mi risultava fastidiosa, con la zuccherosità dei presepi, le visite obbligatorie ai parenti, le lancinanti e ossessive canzoncine natalizie. E poi la noia di quelle lunghe giornate invernali senza nulla da fare. Per anni avevo sentito dire a mio padre che, il pomeriggio del giorno natalizio, mi avrebbe portato «ai baracconi» (parola meravigliosa, per indicare quel che oggi è chiamato Luna Park). Ero ancora nell’età in cui si crede alle promesse. Poi il giorno di Natale passava e la promessa (in seguito a qualche mia, peraltro flebile, insistenza) veniva riformulata rimandando tutto al giorno successivo: quello di Santo Stefano, detto «la seconda festa». Ai baracconi non ci siamo mai andati. Né il giorno di Natale né in quello di Santo Stefano. Forse anche per questo, odiavo il Natale e le sue formule vuote. Detestavo l’immagine dolciastra della Madonna e del «bambinello». Con qualche amico complice, storpiavamo le canzoni religiose, sostituendo al “oooh bambino pargol divino” innocue blasfemie come “puzzi di vino” (nessuno si senta offeso). Non sopportavo gli auguri delle stelle e stelline della televisione, le formule stereotipate dei telegiornali che iniziavano sempre con «la giornata di Natale è trascorsa serenamente…».
Eppure, posso dirlo? In tutto quello, restava (nascosto, occultato, silenzioso) un misterioso residuo di incanto. Come l’eco di un antico mistero. Di un patto nascosto. Qualcosa che aveva legato il filo del tempo, i miei antenati, i pranzi natalizi, la preparazione dei ravioli, i parenti, una legge scritta da qualche parte. E poi dietro il conformismo del Natale c’era pur sempre quel terribile mistero della fede, quella domanda, esiste Dio? (Le risate più pazze). Io ero un bambino appena cresciuto e già rivendicavo di non credere in Dio. Mia nonna, ruvida popolana, mi diceva, indicandomi le cose da mangiare (i panettoni, i torroni, le noci, i datteri), tu che non credi in Dio, ma da dove pensi che venga tutta questa roba? Questo «ben di Dio», appunto? Mi guardava con rimprovero. Non so cosa c’entrasse Dio con i panettoni ma forse sì, c’entrava. Ed io quella cosa non l’ho mai dimenticata. Perché dietro di me c’erano generazioni di miseria per cui il Natale era stato l’occasione soprattutto di mangiare bene, e sentirsi parte di un tutto, quel tutto che per vie misteriose risaliva fino a Dio.
Poi le cose sono cambiate. Almeno per me. In Francia, il Natale è iscritto nel ritmo delle vacanze obbligatorie, e sempre più assomiglia (prezzi a parte) a un Black Friday, Cyber Monday, Double Eleven cinese: cioè un rito di consumo di massa. Vacanze e acquisti.
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Dostoïevski si chiedeva: se Dio non esiste, tutto è permesso? La risposta è sì. Tutto è permesso, perché siamo ormai rimasti soli nell’universo. La vecchia religione (che non sopportavo) è stata sostituita, ma non (come speravano molti di noi) da una visione laica e libertaria dell’esistenza, o da un’altra speranza, magari tenue o irragionevole, come fu un tempo quella di una società senza ingiustizie. La vecchia religione è stata invece sostituita da un’altra idolatria, se possibile ancora peggiore di quella precedente: quella del divertimento obbligatorio. Me ne vado per le strade di Parigi piene di luci e di colori, gente che porta sacchi enormi, e quasi rimpiango la vecchia odiata e ipocrita religione, quella che sapeva di borotalco, quella moralistica e falsa che tanto detestavo.
Ma oggi il tempo è freddo e bellissimo, e nel cielo blu scuro del tardo pomeriggio, per un istante, sento di nuovo quell’antico residuo di incanto di un tempo lontano. Forse non tutto è stato perduto, forse c’è ancora un mistero nell’esistenza e nel destino. E in quella cosa che chiamiamo Natale celebriamo, senza saperlo, un mistero che nonostante tutto urla senza voce, nel silenzio eterno degli spazi infiniti di cui ci parlava Pascal.
Finché non incontro una vicina che mi riscuote. “Alors? Vous partez où pour les vacances? Vous allez profiter un peu ?”. Fine dell’incanto.
Maurizio Puppo