La peste è stato un male ricorrente nella storia dell’umanità. Per dire quanto fosse presente nella vita delle società del tempo, basta ricordare alcune date: 1630 la peste a Milano, che sarà celebrata nei Promessi sposi di Manzoni, pochi anni dopo la terribile peste che colpì Napoli nel 1656, nemmeno dieci anni dopo nel 1665 la peste, provenendo dalla Olanda, arrivò a Londra. Sarà l’ultima grande epidemia di quel tipo per l’Europa, ma i suoi effetti furono tragici. Oltre 100.000 morti nella capitale inglese, un quinto della sua popolazione, e, come se non bastasse, l’epidemia si arrestò solo con il famoso grande incendio del 1666 che distrusse totalmente la City che poi, ricostruita, avrà, grosso modo, l’aspetto che oggi conosciamo.
Quella peste venne raccontata, con piglio cronistico, dal romanziere Daniel Defoe (autore dei celebri Robinson Crusoe e Lady Roxana) che all’epoca dei fatti aveva cinque anni, ma che riuscì tuttavia a raccontare quei terribili avvenimenti non solo grazie alla sua traumatizzata memoria, ma anche per l’ausilio di testimonianze e di preziosi documenti che costituirono i tasselli di una fedele ricostruzione dei fatti a limite della cronaca giornalistica. Il tutto con una scrittura magnificamente letteraria ed avvincente. Il risultato fu il libro: “Diario dell’anno della peste” che venne pubblicato nel 1722 e che successivamente Elio Vittorini definirà: “le pagine più belle che Defoe abbia mai scritto”.
Come in un diario, il protagonista, l’immaginario sig. HF (dietro il quale si cela Defoe), alterna la contabilità quotidiana dei morti, con tanto di dato statistico sugli incrementi giornalieri (come avviene oggi con Covid 19), alla descrizione letteraria e pulsante delle giornate, delle paure, delle diffidenze reciproche, delle strade semideserte (come in ogni epidemia, allora come oggi, chi poteva fuggiva verso le case in campagna, al mare, cercando il massimo dell’isolamento) rappresentando la vita nel chiuso delle case, attendendo atterriti il rituale e quotidiano passaggio dei monatti che con il loro grido macabro ordinavano: “Portate fuori i vostri morti!”.
Ci soffermiamo su un piccolo episodio della quotidianità, apparentemente marginale e che, tuttavia, in quel drammatico contesto, ben evidenzia la diffidenza che vi era anche per gli accadimenti più banali.
Daniel Defoe : Diario della peste – Londra 1665
Vorrei poter restituire il suono esatto dei lamenti e delle invocazioni che ho udito da alcuni poveri moribondi quando erano nell’estrema agonia e nell’estrema angoscia; e vorrei poterli fare udire a chi legge, come a me sembra di udirli ora, come se mi riecheggiassero ancora nell’orecchio. Se potessi solo riportarli in modo così efficace da suscitare un’emozione nell’animo stesso del lettore, sarebbe per me motivo di grande soddisfazione aver ricordato tali fatti, per quanto in maniera imperfetta e sommaria.
Dio mi concesse di essere ancora risparmiato, nel pieno del vigore e in perfetta salute, ma assai insofferente per essere stato confinato in casa per circa quindici giorni. Non riuscii a resistere al desiderio di andare alla posta a spedire una lettera per mio fratello e, una volta per strada, notai che c’era intorno un enorme silenzio.
Quando arrivai alla posta, dove ero andato a imbucare la lettera, vidi un uomo in piedi in un angolo del cortile, che discorreva con un altro affacciato alla finestra, mentre un terzo aveva aperto una porta dell’ufficio. In mezzo al cortile c’era una piccola borsa di cuoio contenente del denaro e da cui pendevano due chiavi, ma nessuno se ne curava. Chiesi da quanto tempo si trovava in quel luogo, e l’uomo alla finestra rispose che stava lì da quasi un’ora, ma che non si erano intromessi perché non sapevano se chi l’aveva lasciata sarebbe tornato a cercarla. Io non avevo tanta necessità di denaro, né quella somma pareva così elevata da indurmi a immischiarmi in quella faccenda o a prendere il denaro, con tutti i rischi che un’azione del genere poteva presentare. Accennai dunque ad andarmene, quando l’uomo che aveva aperto la porta disse che l’avrebbe raccolta lui, ma che l’avrebbe restituita senz’altro al legittimo proprietario se fosse venuta a cercarla. Rientrò quindi in casa e ne uscì con un secchio d’acqua che posò accanto alla borsa; poi andò a prendere della polvere da sparo e ne gettò un bel po’ sulla borsa, e successivamente, con quella stessa che aveva rovesciato sulla borsa, fece una traccia di un paio di metri. Dopodiché rientrò per la terza volta e ritornò con un paio di molle arroventate che, suppongo, aveva preparato appositamente. Per prima cosa diede fuoco alla stiscia di polvere, che bruciacchiò la borsa e affumicò l’aria; poi prese la borsa con le molle finché le molle non l’ebbero bruciata da parte a parte, e poi, scuotendola, fece cadere il denaro dentro il secchio e lo portò dentro. Ricordo che era una somma di tredici scellini, più qualche moneta nuova da quattro pence e alcune monetine di bronzo.
Probabilmente, come ho già detto, c’erano molti poveri abbastanza arditi da correre dei rischi per avidità, ma da quanto ho raccontato si deduce che i pochi individui che si salvarono si mostrarono molto prudenti in un’epoca cosi straordinariamente pericolosa.
(Da: Diario dell’anno dalla peste, Daniel Defoe, traduzione dall’inglese di Antonietta Mercanti – Elliot editore 2014)
Nicola Guarino
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