Il Covid-19 ha messo in ginocchio l’economia italiana e la ripresa stenta a vedersi. Il virus non ha cambiato solamente il temperamento solare degli italiani ma anche il tessuto urbano delle loro città. Questo è il racconto di un’estate italiana passata e di quella presente, nella speranza che, in un giorno non molto lontano, ciò che stiamo vivendo possa essere ricordato come una brutta pagina della nostra storia.
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«E la chiamano estate / Questa estate senza te / Ma non sanno che vivo / Ricordando sempre te / Il profumo del mare, /Non lo sento, non c’è più / Perché non torni qui / Vicina a me / E le chiamano notti / Queste notti senza te / Ma non sanno che esiste / Chi di notte piange te…» Così recitava la canzone di Bruno Martino del 1965.
Correva l’estate di un anno fa, dopo l’assenza primaverile, ero tornata in Italia per le vacanze e come sempre, ancora prima di partire, avevo l’agenda colma di piccoli impegni da compiere: il pranzo da nonna, l’aperitivo con le amiche, la passeggiata in centro con mamma, il mare con i cugini e così via. Non vedevo l’ora di tornare. Nel mese precedente avevo diminuito i contatti con gli amici e con la famiglia che, come di consueto in vista del mio prossimo arrivo, mi sentivano improvvisamente più vicina. La nostalgia, nel frattempo, si faceva sentire, evocandomi momenti felici e spensierati che ero sicura di rivivere. Come sempre, avrei ritrovato le amicizie di un tempo e i familiari con cui avrei riso e discusso secondo le stesse dinamiche di una vita e che, piacevoli o meno, mi avrebbero fatto sentire inequivocabilmente a casa.
In quel mese di luglio il caldo era come me lo ricordavo: umido e senza vento, il sole forte e pungente mi scoraggiava ad uscire nelle ore centrali e, come sempre, girovagavo di sera, scendendo le colline a bordo della mia vecchia ma fidata Vespa 50 che papà, di consueto, mi faceva trovare lucidata per l’occasione.
L’estate italiana è facile da descrivere perché è molto simile al suo stereotipo: le spiagge affollate, i volti abbronzati, i bar pieni per l’ora dell’aperitivo, la gente riversa nelle strade, accaldata ma piena di vita, chiassosa e gesticolante. Passeggiando nelle vie del centro, guardando in alto, scorgevo le verdi persiane, chiuse, da cui spesso filtrava una canzone o la voce della radio che accompagnava le faccende domestiche di una donna o che allietava le giornate di chi ricercava, come poteva, un po’ di compagnia. Definirle le istantanee di un’estate sarebbe però riduttivo, è piuttosto l’istinto di chi sa dove rivolgere lo sguardo come lo si fa con un automatismo vitale.
I turisti erano ovunque; con la mia amica, sedute su una panchina con in mano un gelato, ci divertivamo a leggere le targhe delle macchine e a contare quante nazionalità erano venute a farci visita. Non che ci piacesse la vista di quei volti rossi e di quelle carni che strabordavano dai pantaloncini ma anche quella era, per assurdo, parte di una rassicurante normalità. Ogni sera il bar accanto alla chiesa era il punto di incontro di amici e di conoscenze; ognuno era ugualmente fondamentale nel colorare la piazza di un vocio festivo che, ancora una volta per me, sapeva di casa.
Camminavo per gli stretti vicoli del centro sperando di incrociare un vecchio amico, un parente o il proprietario di un negozio fidato con cui scambiare due parole; altre volte sperando di non incontrare nessuno, cosa che invece regolarmente accadeva.
Questa era la mia Estate.
Anche quest’anno ho fatto ritorno a casa. La mia nonna me lo avevo detto: «Co’ non sarà come te la ricordi». Ma chi ci credeva! Già mi vedevo a dare pacche sulle spalle agli amici, a raccontarsi l’assurdità che ci era accaduta e a prendere in giro chi aveva temuto che niente potesse essere come prima. Sui social, già dal mese di giugno, avevo iniziato a vedere foto di gente senza mascherina esprimente serenità. Ci avevo creduto, sì, e mi ero sbagliata. Ma l’errore non è stato tanto convincermi che in breve tempo tutto sarebbe tornato come prima, quanto immaginare che quella normalità fosse imperitura, resistente al tempo e agli eventi.
Oggi la città è molto silenziosa: non ci sono che pochissimi turisti, molte attività hanno la saracinesca abbassata senza un biglietto che ne spieghi la ragione, altri incoraggiano a visitarli ad un nuovo indirizzo fuori dal centro o sono vuoti, con un cartello «vendesi» o «affittasi» sulla vetrina sporca di polvere. Questa non è la descrizione della mia particolare esperienza ma quella di un intero Paese in fuga da se stesso.
Ed è vero che ormai ci salutiamo con una gomitata, che con la mascherina sorridere non ha più tutta questa importanza, che ci schiviamo invece di avvicinarci, che ci siamo abituati all’assenza, a fare a meno dell’altro, ad essere più silenziosi e guardinghi. Adesso il pericolo comunicato dai media non ha il colore della pelle di un immigrato ma il bianco di un corpo riverso in un letto d’ospedale: è un’immagine violenta e dura da accettare, perché colma di una realtà collettiva dalla quale nessuno è escluso. Questo virus, quindi, qualcosa di buono l’ha fatto: ci ha ricordato che siamo tutti uguali, forti e vulnerabili. Quale scoperta! Eppure è necessario ricordarlo.
Allora forse, quando tutto sarà finito, la smetteremo di credere che la felicità può essere comprata, che c’è una società di serie A e di serie B, che quello che non si fa oggi può essere rimandato a domani. Forse la paura ci renderà delle persone migliori o forse, invece, ci condurrà verso una sorta di anarchia, verso uno stato di natura in cui semplicemente chi ha la pelle più dura la vince. «Chi vivrà vedrà» dice un proverbio. Adesso l’unica certezza è che passerà del tempo prima che accada un qualche cambiamento e che, nel frattempo, l’estate italiana è un ricordo in un cassetto, sigillato da una stretta di mano in lattice, nella speranza che il vento si alzi, che arrivino le piogge e che ci riportino l’attesa e assordante calura di un Estate italiana.
Giulia Del Grande