Felici di proporvi un nuovo racconto psicogeografico di Ennio Cirnigliaro, storico e archeologo genovese. Questa volta ci porta nella propria città.
Certosa è il quartiere di Genova (alle porte della Valpolcevera e alle spalle di Sampierdarena) attraversato dal viadotto autostradale progettato da Renzo Piano ormai noto dopo il crollo del Ponte Morandi, una vicenda drammatica, figlia di omissioni e incuria, che ha proiettato questa fetta di territorio in quella mondovisione delle tragedie che marca per anni i luoghi in cui si sono verificate sino a sovrapporre totalmente la loro identità all’evento luttuoso. Certosa, tuttavia, è molto altro e molto di più, a partire dal toponimo derivato dalla presenza della certosa medievale, edificio fondato nel 1297 non lontano da un insediamento romano che gli archeologi stanno portando alla luce proprio in questi mesi. Il quartiere, oggi abitato e vissuto da comunità di tutto il mondo, si sviluppa lungo gli ultimissimi chilometri del corso del fiume Polcevera, laddove le acque del Mediterraneo si incrociano con quelle dolci del corso d’acqua, anticamente risalito da genti e mercanti provenienti da ogni angolo della terra, entro un meticciato culturale che ab origine costituisce la vera identità plurale del luogo. Un territorio fragile, in cui la longa manus dei poteri economici vorrebbe ricavare una ZES = “zona economica speciale”, ossia un’area nella quale dare libero sfogo agli “spiriti animali del mercato” a scapito di ambiente, territorio e diritti di chi ci vive e lavora.
IL RACCONTO
Un muro di parallelepipedi colorati separava la linea azzurra del mare dalla terraferma, come un patchwork di metallo che, nei giorni estivi, formava miraggi ribollendo come una gigantesca caldera. Una volta questo confine netto era un orizzonte imprecisato nel quale il mare e l’acqua dolce del fiume celebravano il loro continuo matrimonio: lo chiamavano “la schiumaia”, nella cantante lingua locale, così strascicata da sembrare portoghese, anche se in italiano il luogo, forse per le consuete incomprensioni dei cartografi sabaudi, divenne “fiumara”, toponimo il quale, sia detto a parziale riparazione degli equivoci linguistici, si presta comunque abbastanza bene, dal momento che il fiume dei mesi estivi è solito assai frequentemente trasformarsi propriamente in una di quelle distese di sassi che in Calabria chiamano con lo stesso nome. Tornando alla lingua strascicata del luogo, in effetti con i portoghesi qui condividono una certa saudade quasi tropicale, nel contempo occidentale e levantina, oltre che vari capitoli di storia del mare e delle esplorazioni. «Sono nato a pochi metri da qui, in quella casa bassa, oggi stretta fra la ferrovia e le nuove strade. A quel tempo si vedeva bene il mare.»
Mi parlava fissando l’orizzonte e il patchwork che sembrava chiuderlo. Qua e la, dai parallelepipedi emergevano nomi esotici, alcuni in alfabeti che lui non conosceva, “Zim”, “Cosco”, “China Shopping”: era un confine poroso, nel quale la geografia penetrava sotto forma dei loghi rimandanti ai luoghi da cui i contenitori provenivano, dopo aver valicato latitudini e longitudini per giorni, spesso per mesi, assorbendo odori ed orizzonti, ora assemblati in quella improbabile biblioteca di Alessandria, o piuttosto torre di Babele in cui non si condividevano saperi ma si dividevano servitù: i giocattoli prodotti da mani anonime in qualche distretto della Cina o dell’India, caricati in qualche porto nel sud-est asiatico o nel Golfo Persico, trasportati da ciurme di ogni nazionalità che hanno visto il tramonto della loro gioventù rendere rosso il Canale di Suez e scaricati proprio lì, in attesa di essere spediti in centinaia di punti vendita copia-incolla sparsi per tutta la Penisola. Il muro mutava colore, aspetto, persino rumore, quotidianamente, come una cosa viva che, talvolta, gli suscitava persino simpatia. Oggi i loghi in ebraico, ad esempio, prevalevano su quelli cinesi scritti in alfabeto latino ed in lingua inglese, ma domani la situazione poteva anche ribaltarsi, in una sorta di geopolitica delle consegne che non aveva nulla a che fare (o forse no) con quella vera ma che lo divertiva procurandogli l’amaro sorriso che sempre segna il volto di chi rifletta sulla fugacità dell’esistenza.
Osservavo quel vecchio, una figura senza tempo, con una barba senza tempo, delle rughe senza tempo, delle mani gonfie e forti senza tempo, che, come senza tempo, nel piccolo giardino di fronte alla capanna di latta davanti alla piccola casa bassa, fissava il giorno che finiva. «Ormai non si può più andare a pescare scendendo scalzi sino alla spiaggia. Ci divertivamo a guardare i pescatori tornare a riva, sperando sempre che ci regalassero qualche acciuga da portare a casa. Eravamo come tanti gatti.» Sorrise, ed io con lui. Proprio non riuscivo ad immaginarlo bambino, eppure in qualche tempo e in qualche lontana dimensione lo era stato.
Dietro di noi, il bianco lucente del nuovo ponte, costruito a tempo di record dopo la catastrofe, quella che almeno per questo secolo rimarrà tale nella memoria storica degli abitanti della zona. Catastrofe pienamente inseribile fra le stragi di Stato che segnano il Paese da oltre settant’anni; anzi, in questo caso, forse, oltre che di Stato, quella potrebbe stare nel novero delle stragi di Mercato, forse ancora più taciute: i tanti, troppi “incidenti” determinati dall’ingordigia di chi sfrutta lavoro, ambiente e persone, omettendo anche le più elementari regole di sicurezza, siano esse quelle che fermano i macchinari pericolosi siano i controlli sullo stato di salute delle opere pubbliche.
Da alcuni mesi, ormai, quella zona, quel punto di non ritorno della terra che si getta nel grande Mediterraneo, con tutta la memoria, la storia e le tragedie che lo contraddistinguono, era diventato una “zona economica speciale”, ossia una gigantesca piattaforma logistica da cui espellere gli abitanti, al massimo reintegrabili con contratto a tempo determinato come manodopera a bassissimo costo, per far posto alla “logistica”, con tutta l’illogica logica del “Just in Time” come nuovo tempo della modernità. Contavano solo i profitti, gli spazi da adibire a nuovi depositi, i nastri da tagliare ad ogni telegiornale regionale e la felicità esibita in pubblici convegni. Il resto era un dettaglio, un’escrescenza, un’area dismessa da bonificare, naturalmente per destinarla ad altri frammenti del patchwork.
Un gabbiano, stridendo, emerse come un flash nell’azzurro del cielo per andare oltre il muro dei contenitori, sparendo sul mare. A lui non importa niente delle frontiere, del mercato e delle zone economiche speciali
Ennio Cirnigliaro
LINK Altritaliani ad altri racconti “psicogeografici” di Ennio CIRNIGLIARO, archeologo e storico genovese. Storie vere, a volte di fantasia, ma sorgono tutte da un dove preciso, reale, dalla cartografia personale dell’autore.