C’era una volta una città bellissima.
C’erano una volta i suoi amori e nelle sue vie e nelle sue piazze e nei suoi palazzi si rincorrevano le voci, i passi, i sensi e i colori dei fiori. Poi un giorno del 2009, alle tre e mezzo di un mattino di aprile, il suo cuore cessò all’improvviso di battere. L’amore fuggì portandosi via la luna, l’azzurro del cielo sbiancò, le stelle caddero giù e nelle vie e nelle piazze e nei palazzi restò solo il dolore dei morti e l’angoscia dei vivi.
Quella città porta il nome de L’Aquila. Il re dei voli giace ancora abbattuto e ferito. Dicono che stanno facendo tutto il possibile per ridargli la vita, i sensi, gli amori, i colori. Ma dicono anche che ci vorranno anni, molti anni, lunghissimi anni.
3 e 32 del 6 Aprile 2009, un boato, le urla, la fine.
Nel racconto di Flavio Brunetti riviviamo quel tragico evento con le sue parole e le sue foto, che hanno dato luogo a mostre con esposizioni a Livorno, New York, e altre città italiane.
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LA CADUTA DELL’AQUILA
I fiori di campo, bellissimi, vanitosi, graziosi d’armonia divina, arricchiscono con mille colori i giovani verdi della primavera adornati da una corona di cime bianche. Le candide guglie dei monti sono laghi d’argento, che incantano gli occhi, abbracciano le valli, i torrenti, le strade, i ponti. L’azzurro del cielo è intenso. C’è una luce, una luce nell’aria, che dà la voglia di vivere, di sognare, di correre, di andare lontano. Lontano. Una luce che è desiderio di amare. Appare tutto più bello. Anche l’autostrada, oggi, è meno scontata, meno banale, meno noiosa, più sorprendente.
La città ha il nome di voli infiniti, di traiettorie ardite e sicure verso le nuvole alte, a dominare la terra giù in basso.
La terra oggi si è fatta più bella, vuole illudere ancora chi continuerà sempre ad amarla. La terra perdonare vuol farsi il tradimento, la sua cattiveria, la sua indifferenza al dolore di quelli che l’amano.
C’è un uomo, un uomo del mio paese, in quella città che io non conosco. Un uomo buono, che aspetta da due notti e due giorni. Lo hanno visto scavare con le sue mani, lacerate di dolore, graffiate d’angoscia. Aspetta il ritorno del figlio. Spera che lo ricaccino vivo, da sotto le pietre, da sotto i mattoni, da sotto quei ferri contorti. Spera che lo portino via dall’ingiuria alle dolcezze, ai sogni, alle certezze di un ragazzo di poco più di vent’anni. Oltraggio di polvere sporca, offesa di calcinacci imbrattati, stupro di pezzi d’intonaci e di vetri rotti.
Sto andando con le mie macchine in cerca di immagini che possano raccontare la sciagura di una città martoriata, ché servano in futuro a qualcosa di buono. Ho una tristezza addosso mista a sgomento. Quell’uomo in attesa del ritorno del figlio, quell’uomo buono in pena e trepidazione davanti al sacrario di macerie, non lo voglio incontrare nel suo grande affanno. Sarei troppo piccino rispetto al suo immenso dolore, e le mie parole sarebbero nulla. Quelle immagini, poi, non avrei mai il coraggio di scattarle. Scattare è come andare alla guerra, non hai il tempo di piangere o di commuoverti. E lì, sicuro, il pianto avrebbe la meglio.
Mi attende Lorenzo, un ragazzo, un amico di Elvio, il figlio che aspetta il mio amico. Lorenzo è il rappresentante dell’Unione studenti universitari dell’Aquila. È uno studente di Fisica.
Stamattina, prima di partire, ho comprato due pezzi di pizza e due bottiglie d’acqua. Lì non ci sarà niente. E ora, cinquanta chilometri prima, mi fermo per l’ultimo caffè ad un distributore lungo la strada.
Un ragazzo e una ragazza si incontrano qui, dentro questo posto banale. Si abbracciano forte. Abbracci così forti non li vedevo da tempo. Lei piange, lui guarda nel vuoto puntando lontano gli occhi oltre il collo di lei. Sono in tuta. Sono in fuga. Vanno lontano. Vanno via.
– Alfredo, no. Alfredo sta bene. Lui ce l’ha fatta. Si è fratturato solo il bacino. – bisbiglia e piange la ragazza.
Si stringono. Lei continua a piangere. Lui no. Guarda fisso come se il bancone del bar fosse all’infinito, all’orizzonte. Ma l’orizzonte, qua dentro, non c’è. Si stringono.
Ciao, Lorenzo – saluto al telefono – sono Flavio. Sono qui. Sono quasi arrivato. Dove ci vediamo?
Ecco i crolli. Muri di pietra sbriciolati come ricotta guastata.
Sulla sinistra il cartello indica Onna; vi continuano ad estrarre i morti. Il pianoro su cui sorge è una valle meravigliosa. Queste valli sono depositi di antichissimi laghi e quando l’onda del sisma le raggiunge sbatte sui bordi delle montagne, torna indietro, si scontra con le altre che vanno e impazziscono tutte, come le onde dell’acqua in un catino percosso con una mazza da fuori. È il disastro per le case costruite dagli avi, pietra su pietra, in queste povere terre stupende.
Appena alle porte dell’Aquila – mi risponde Lorenzo al telefono – incontri il cimitero. C’è un grande spiazzo e lì possiamo lasciare la tua auto per andarcene a piedi. Ti aspetto al semaforo. Ho un maglione grigio e uno zaino addosso.
– Io, invece, ho una specie di fuoristrada grigio metallizzato.
Lorenzo è un ragazzo magrolino, delicato e dolcissimo. Un aiuto prezioso. Un compagno ideale. Cammino con lui la prima volta in quella città.
Sono teso. Ho paura di disturbare il dolore degli altri. Una città dove non conosco e dove non mi conosce nessuno.
– Buon giorno ingegnere – mi ferma e mi stringe la mano uno dei primi passanti che incrociamo dopo aver parcheggiato – siete venuto anche voi qua? In questo disastro a dare una mano?
Balbetto qualcosa, non so chi sia quell’uomo, non lo riconosco e penso tra me e me:
– Ma che diamine! Pure qua mi ferma la gente?… Chissà che guai grossi tiene quello…
I cancelli dello stadio sono aperti. Entriamo a vedere se hanno cominciato a montare le prime tende. Il campo verdissimo è libero e dagli spalti, sotto la luce del sole, è bellissimo.
– La senti? Eccola! Ne è un’altra che viene! Senti come ballano i piedi? Oramai è un continuo tremare. Io le sento tutte, le scosse che arrivano. – mi fa Lorenzo
La terra che ondeggia ci sorprende mentre guardiamo quel prato. Usciamo. Incontriamo un ragazzo nella strada deserta. Saluta il mio amico:
– Ma voi dove state dormendo?
– A casa – gli risponde Lorenzo – entriamo da dietro senza farci vedere.
– Fortunati! Voi avete il giardino e il balcone di dietro. Noi invece da dove diavolo entriamo? E la casa nostra non ha manco una lesione. E ci hanno cacciati!
– Nemmeno la nostra
– Stanno bene le nostre case, ma quelli, niente, non ne vogliono sapere, dicono che dobbiamo starcene fuori. Almeno per ora.
Le strade della città antica sono sbarrate da corpi di guardia che impediscono di entrare alla gente. Carabinieri, Polizia, Finanza, Forestale, ed altri.
Puoi andare solo se ti accompagnano i vigili del fuoco. Ma per il momento hanno troppo da fare. La gente prima d’andarsene via dalle loro case sfasciate dal sisma, ha bisogno di rientrare a riprender l’essenziale.
– Cristo! Per favore, devo prendere qualcosa. Solo qualcosa! Non ho più niente! E che futuro mi aspetta qua fuori? Una tenda o una squallida casa al mare di chissà chi! Il maglione, mi serve. Il giaccone! La bambola per la nostra bambina, ci serve, ché sono due giorni che piange e non dorme! Vi prego portatemi! Casa mia è qui, dietro l’angolo! È vicino!
– Ma signore, lì non si può entrare, è pericoloso … va bene, andiamo, venga con noi, salga in macchina, ci proviamo.
Che eroi, e che gentilezza questi pompieri italiani! Tutti! Che bravissimi eroi!
Entriamo da una strada di lato. Incontriamo tre speleologi, quelli che, per sport, vanno dentro le grotte e i cunicoli da claustrofobia.
Sono amici di Lorenzo. Ma, il ragazzo, credo che qua, a quanto ho capito, lo conoscano tutti. Deve essere uno importante.
– Avete trovato qualcun altro? C’è ancora speranza di trovar viva altra gente?
– Noi ce la mettiamo tutta, ma qua non sono mica le grotte. Sono macerie ammassate le une sulle altre. Siamo stanchissimi.
– E sporchissimi.
– Che ci vuoi fare: è il minimo, sporcarsi di polvere e calcinacci.
Ci vedono in quelle strade deserte. Arrivano i carabinieri. Siamo soli senza i pompieri. Ci intimano di andarcene via.
Facciamo finta di uscire. In compagnia di un altro fotografo prendiamo la strada oltre l’incrocio ed entriamo, invece di andar via, nel cuore della città antica. Crolli e pietre dappertutto. Vetrine rotte, manichini caduti e ancora vestiti di capi eleganti all’ultima moda. Il marciapiede davanti al teatro è tutto coperto di pietre cadute.
– Dovete andare via. Qui non potete restare – ci urla imperioso un altro carabiniere e ci mostra la strada per uscire.
Quella strada passa sotto la basilica di San Bernardino, semidistrutta, il campanile crollato a metà.
C’è una troupe televisiva importante con il conduttore che è un viso noto. La trasmissione è una di quelle che parla della nostra Italia, dei campi, delle città, dei dolci, etc. Ha i baffi ma non conosco il suo nome. La troupe è accompagnata da un esperto ai monumenti, forse il Sovrintendente dell’Aquila. Ci accodiamo e restiamo con loro anziché andar via. Mi allontano in un vicolo per fotografare. Le tegole scivolate verso la gronda e rimaste appese sono un pericolo. Basterebbe un piccione per poterti ammazzare.
Mentre fotografo cornicioni crollati sento un vagito di gatti.
– Mia… aaaooo…oooooo !!!!
Uno di quei versi felini che ti stringono il cuore anche in tempi normali. Viene da dentro un androne elegante ed antico. Il portone è socchiuso. Lo apro. Due gatti stanno chiavando.
Li fotografo a lungo. Continuano indisturbati dalla mia presenza e dai miei scatti, fino a che la femmina, con un verso ancora più crudo, più lungo e le unghie cacciate di fuori, si scrolla di dosso il suo maschio ingombrante. Poi si rotola a terra più volte di schiena a pulirsi l’odore di quello.
– Ma vi sembra il caso?– gli domando – qua, in mezzo a queste macerie, voi due fare all’amore?
– Siete due pazzi – li ammonisco e aggiungo – ma ora chi pensate vi darà più a mangiare … a voi due e ai vostri figli che adesso avete concepito? Siete due pazzi!: La signora è partita!!
Quelli della troupe se ne vanno al castello con le auto RAI e il Sovrintendente. Se ne vanno e restiamo da soli. La città è un deserto. Tutta un deserto. Ogni tanto qualcuno con le cose da portar via e qualche pattuglia di guardie alle quali sfuggiamo.
Si son fatte le due. Mangiamo la pizza che ho comprato stamane, dividendola con le mani, a strappi. Beviamo l’acqua che ho comprato stamane, una bottiglietta ciascuno.
Ci infiliamo ancora più dentro alle macerie. La Finanza ci ferma di nuovo.
Ci scheda, perquisisce lo zaino al mio amico. Li fotografo tra quelle macerie. Li capisco: hanno paura degli sciacalli e degli incoscienti, ed il mio amico ed io siamo due incoscienti. Ci conducono fuori verso una zona meno rischiosa e mentre andiamo con uno di loro, che ci controlla a vista, continuo a fotografare.
Quando siamo lì fuori facciamo finta di andare, ma appena più in là rientriamo in San Silvestro tra le case crollate. Quando ecco una squadra di pompieri.
– “Ora ci cacciano” – penso e invece:
– Ma io vi conosco! – esclama uno di essi
– Porca miseria – rispondo – com’è piccolo il mondo!
– Sì – annuisce e sospira – è proprio piccola questa terra piena di guai.
I visi degli uomini di quella squadra sono distrutti dalla stanchezza.
Impolverati, le giacche, i caschi, le mascherine, gli occhiali. Lo sguardo di questi uomini eroi è assente è lontano. Devono recuperare il corpo di una donna che era allettata e che non si trova. Scavano da ventiquattro ore. In quella città, tra morti e mattoni, nella più totale emergenza. Uno di essi, saputo che sono ingegnere, dopo avermi rimproverato, mi fa infilare uno dei loro caschi e mi porta con lui, a scalare una montagna di calcinacci davanti al portone della casa sfasciata dalla furia della terra e dove è sepolta la donna. In simili frangenti ogni aiuto è prezioso. Vuole farmi vedere una trave cadente sotto la quale stanno scavando la morta per sapere da me quando alto è il rischio che stanno correndo i suoi uomini. Glielo dico: non c’è tempo, bisogna far in fretta; potrebbe crollare tutto, da un momento all’altro, ad un’altra, nuova scossa. Così comincia il mio vero lavoro per poter raccontare agli altri come la furia del sisma viola le cose più intime, gli affetti, i ninnoli, il tavolo dove si mangia, gli abiti, il letto, il bagno, il lavandino.
Alla fine, quando dopo venti minuti riscende, dall’ultimo piano sotto il tetto distrutto, giù in basso, e risale sulla montagna di pietre, di mattoni, di tegole, di detriti e di mobili rotti, ammassati davanti al portone, l’uomo, nella sua impolverata divisa, è tutto felice, come un bambino: ha riportato, da su, il computer e i telefonini ad uno studente che si era salvato e che stava aspettandoci giù. Si rischia la vita anche per questo, per far ricominciare la vita agli altri.
Usciamo dalla città martoriata e che non guarirà. Lorenzo deve recuperare un furgoncino dell’Unione degli Studenti. All’Università.
– Mi racconti di Elvio? – domando al mio amico
– Non chiedermi niente. Non posso. È uno strazio, per me, parlare ora di Elvio. È un ragazzo dell’Unione Studenti. Qui all’Aquila siamo quasi tutti studenti. Ci conosciamo tutti. Un bravo ragazzo di una dolcezza indicibile, di una gioia continua e delicata. Un ragazzo soave. Speriamo che ce la faccia.
Il furgone dell’Unione Studenti dopo un paio di colpi parte. Si mette in moto. Andiamo al campo di calcio. Stanno montando le tende. Speriamo le smontino subito. Le squadre parlano accenti diversi, sono giunte da tutta l’Italia.
Gli Irpini fanno il caffé, affettano il pane, cuociono pasta e minestroni, hanno pure un boccione da due litri di amaro e un sorriso per tutti: sanno ancora, dopo i tremila morti della loro terra e dopo trent’anni, cosa vuol dire morire sotto le pietre e rinascere. Sanno che in quel campo bisogna portare la voglia di vivere.
– Ciao, Lorenzo, rientro al paese stasera. Non è il caso che io resti qui questa notte. Non c’è posto nemmeno per voi. Quello che dovevo fare l’ho fatto, per ora. Sei stato un grande amico. Ci sentiamo presto. Ritorno.
Sto guidando. Sono più teso di stamattina. Mi fa compagnia la luna. Ho voglia di piangere.
Mi fa compagnia la luna che domina il mare. Ho voglia di piangere.
Reportage fotografico e racconto di Flavio Brunetti
PORTFOLIO:
La caduta dell’Aquila | 6 Aprile 2009 alle 3.32
Ho pensato allla luna che ti faceva compagnia mentre avevi voglia di piangere venendo via da Aquila .
Con le tue foto ma soprattutto con le tue parole ci hai
fatto condividere l’angoscia per questa bella città ,soprattutto per gli aquilani.
Ora penso ad Alberto ,alla sua scelta di iscriversi a Medicina proprio all’Aquila ,alla sua voglia di vivere ma anche di condividere la sua giovinezza ,i suoi progetti,il suo desiderio di servire gli altri.
Sembrano cose d’altri tempi invece una buona percentuale di giovani è come lui d i s p o n i b i l e .
Spero di sentirti presto. dimenticavo di dirti che sei BRAVISSIMO come sempre.
La caduta dell’Aquila | 6 Aprile 2009 alle 3.32
Buona sera Flavio,
La tua testimonianza è forte, molto forte.
L’ho percepita fin dalla prima lettura come un grido soffocato, un grido silenzioso a causa del tuo rifiuto di lasciarti pervadere dal dolore, a causa dell’ emozione latente che tratteni e superi grazie all’azione: inoltrarsi sempre più avanti a dispetto del pericolo per scattare, “scattare è come andare alla guerra”.
Poi con caparbietà incredibile, malgrado la desolazione, registri ogni scena, ogni segno di vita, sia nel ambiente naturale, sia tramite oggetti irrisori che tornano rilevanti quando tutto è distrutto. Sei sempre dal lato della vita, stai braccandola. Gli esempi sono numerosi nel racconto, e tra le fotografie trovo per esempio straordinaria quella della giovane donna accovacciata che sta rinvasando una pianta con tanta cura.
Nonostante gli ostacoli o l’emergenza della situazione la tua percezione della bellezza della natura rimane intatta. L’inizio del testo è stupendo e farà, per contrasto, risaltare più acutamente la vastità e la violenza del disastro. Ami la tua terra, la personifichi, rimani in osmosi con lei e vuoi continuare ad amarla, va da se, dato che è fonte di vita, di bellezza, d’amore.
Tuttavia ci dai una lezione d’umiltà quando ne parli , perché guardi sempre lontano, verso le cime delle montagne o verso le vaste valli in basso o ancora quando evochi la sua perennità storica. Ovviamente a questa scala la dimensione dell’uomo diventa infinitesimale, è totalmente superato e non ce la farà mai a padroneggiare l’universo.
Infine la tua sensibilità e la tua conoscenza intima della tua terra di frequente straziata ti dettano un atteggiamento spontaneo di profondo rispetto davanti a tutte le persone coinvolte. Dai prova di discrezione, di decenza davanti al dolore dei terremotati: non si vede, non si legge mai una scena di pathos. Spesso non si vede nessuno o solo una persona o due nelle grande tende diventate luoghi di vita nell’emergenza, si percepisce allora quanto più che loro sono sperdute, isolate nello sgomento. Anche le fotografie dei visi seri e tristi dei vigili del fuoco, esauriti dalla fatica, sono eloquenti nella loro sobrietà:”Che eroi!”.
E la musica lancinante di Satie dal ritmo lento e dai temi ripetuti assume la gravità di una cerimonia funebre.
Sono convinta che sia la tua appartenenza a questa terra a rendere possibile una testimonianza di qualità tale, poteva solamente scaturire ‘da dentro’.
Grazie grazie per tutto Flavio,
Françoise
La caduta dell’Aquila | 6 Aprile 2009 alle 3.32
Grazie per la tua profonda analisi sul mio racconto di un terremoto (L’Aquila, l’Irpinia o San Giuliano sarebbero state la stessa cosa). Essa va al di là del racconto e apre nuovi spazi e nuove considerazioni sulla fragilità dell’essere umano.
Flavio
La caduta dell’Aquila | 6 Aprile 2009 alle 3.32
Sono onorata di avermi eletta tua lettrice…..nn ho ancora l tempo di leggerlo tutto…..a dopo