Il presepe è la vita che non vuole andarsene via. È il ricordo di quando eri bambino e aspettavi che tuo padre te lo facesse trovare già fatto un bel mattino di dicembre quando ti alzavi. Il presepe è voler essere ancora bambino. È conservare con cura ogni cosa per l’anno che viene, senza fare rompere niente, senza buttar via niente.
Il presepe è pensare tutti i giorni, anche sotto il sole cocente di Agosto, dove andare a prendere il muschio o le pietre o i pezzi di sughero per fare le case e i ponti. Il presepe è conservare le scatole vuote delle scarpe per poterci fare capanne e montagne. Il presepe è contare quanti pastori si sono rotti, quante braccia mancano, quanti piedi e quante gambe devi nascondere per non far apparire il tuo popolo, che vaga nelle strade del muschio, una folla di reduci della Prima Guerra Mondiale.
Il presepe è cercare gli artigiani più bravi, gli scultori più raffinati dove comprare i pastori. Pastori non scelti a casaccio, ma che formino una bella compagnia teatrale. Sì perché il presepe è teatro, il teatro muto e immobile più puro. I pastori non hanno voci, non cantano, non parlano. I pastori non si muovono, non corrono, non camminano, non danzano. Ma tutto il presepe è un mondo che vive. Un mondo che pulsa, che ci emoziona, ora, come quando eri piccino.
Nella loro immobile posa i personaggi hanno la forza di violare il tempo e lo spazio. La religione, se c’entra, rimane in secondo piano. La potenza del presepe più umile e povero sta nei personaggi che recitano questa antica storia. Allora li scegli, li cerchi con cura, che non manchi nessuno della compagnia. E se qualcuno si rompe vai a ricomprarlo o te lo fai ricostruire.
Tutti! Ci vogliono tutti: la famiglia di Dio, le pecorelle, Pulcinella che suona e che balla, lo scartellato (il gobbetto) che con la sua gobba porta fortuna a chi la tocca, la donna incinta che ostenta la sua maternità di carne alla madre di Dio, la parrucchiera vicino alla fonte, il soldato che Erode mandò ad ammazzare il bambino, il pezzente che tende la mano, la donna dei fiori, l’uomo che vende i biglietti del lotto, quello che vende gli scaccia malocchio, il diavolo che tenta i buoni che vanno alla stalla benedetta, gli amici che giocano a tombola,
la donna che lava i panni e tutti, tutti gli altri ancora. Il presepe è un intero paese che fa festa e che si ritrova con tutte le sue debolezze e con tutte le sue tragedie nel mondo che ogni giorno viviamo.
E questa magnifica e un po’ malinconica festa, il Presepe, lo spettacolo andato in scena tutto un mese filato, tra l’azzurro del cielo stellato ed il verde del muschio, finisce all’Epifania. Il sei di gennaio ecco i Re Magi!… gli ultimi ad entrare sul palco, proprio in coda, sulla scena finale. Vengono da molto lontano, così dicono. Ad arrivare prima non ce la potevano fare.
Ma a me sembrano che facciano come quei produttori teatrali che, finito lo spettacolo, vanno in pedana a rubare gli applausi agli attori veri.
Il presepe è una favola fatta di muschio, di terracotta, di stelle, di tanti colori e di qualche preghiera.
Flavio Brunetti
Testo, foto dell’articolo e del portfolio © Flavio Brunetti
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Il presepe: una festa di muschio e di stelle.
Quello che più impressiona della scrittura di Flavio Brunetti è la lingua. Come accade per le sue fotografie, Flavio con il suo ininterrotto racconto delle vite degli ultimi adotta una lingua straordinariamente tersa. Una prosa che sarebbe piaciuta al Pasolini degli Scritti Corsari. Un discorso , spesso lirico, a tratti elegiaco ma sempre tagliente, che si nutre di un italiano resuscitato, stentoreo nel sua missione di rianimazione della memoria storica di questo popolo.
Una lingua, quella di Flavio, impavida e affamata, povera di figure retoriche eppure iperbolica, unione di alto e di basso, invenzione di quel pidgin universale che fiorisce indifferentemente nelle banlieues di Parigi e nei bassi napoletani, negli slums di Nairobi e nei docks di Liverpool. La lingua dei vivi, contrapposta alla lingua dei morti, fatta dai tanti gerghi pseudo-politici ma anche pseudo-letterari di tutti i cavafosse di stato.
Con il suo stile stralunato e irriverente, Flavio scardina l’aforisma wildiano “la differenza fra giornalismo e letteratura è che il giornalismo non è leggibile e la letteratura non è letta » e scrive una letteratura da reportage dell’anima, nuda e pura. Un atto svergognato di riappropriazione dell’identità popolare, epurato del provincialismo asfissiante e del populismo ammiccante di tanta letteratura da cesso oggi dominante.
Leggi Flavio, guardi le sue fotografie, e ti « consoli », avrebbe detto la buonanima di mio padre (magari incollando l’ultimo pezzo di carta stagnola nel laghetto di Betlemme). Ti “consoli”, come se stessi sorseggiando il caffè di Eduardo o come se stessi affondando i denti nella pizza e minestra di tua madre. E mentre ti « consoli », avverti una dolce pressione spingere in petto. È lo sterno che ti si sta aprendo al mondo del ricordo. Quel mondo di verità sommerso dalla televisione e salvato, ancora gocciolante di scorno, dall’arte di Flavio.
Campobasso, 19 dicembre 2013
Luigi Fabio Mastropietro
Il presepe: una festa di muschio e di stelle.
Carissimo, dolcissimo Fabio!
Mi turbi con le tue elevate parole, luce diamantina nel buio delle banalità!
In esse è raccolto tutto l’intendersi, tutto l’afflato, il respiro comune, l’impegno, il sogno, la disperazione, il dolore di due soldati in guerra in lotta con il tanfo scialbo della morte che li circonda.
Le conserverò, le tue parole! Le stiperò nel cuore.