“Le opinioni nuove sono sempre malviste e di solito avversate, solo per il semplice fatto di non essere già comuni”. Lo aveva pensato tre secoli fa il fisico e filosofo britannico John Locke (1632-1704), e si potrebbe mutuare oggi nella attualissima catastrofe che sta coinvolgendo la Lega, se non fosse che la loro “opinione” non sia stata “avversata” da una propria idea incolta di “nuovismo”, in un panorama già logoro di malgoverni e ruberie. E se quegli elettori non fossero stati plagiati da un manipolo di lungimiranti malfattori che forse non aspettavano altro che mettersi al pari di coloro che spesso rozzamente offendevano per malefatte o per aver trascurato il nord produttivo e tartassato, inveendo ai danni del sud sprecone e pessimamente governato.
Ma la parabola discendente di quel movimento, in questa breve riflessione, val la pena analizzarla da un ulteriore punto di vista, quello forse meno affrontato, legato alla idiozia e la scarsa visibilità di un padre (Bossi) che avrà voluto certo migliorare le condizioni dei propri figli, dall’alto di un potere e di un carisma che si era costruito credendoci e con molta fatica, e in questo non senza meriti. Plagiando e misurandosi demagogicamente (da oltre vent’anni) con surrettizie problematiche di massa ed inventandosi riti e presunte nazioni. Facendo leva su una diffusa sottocultura non sempre incolpevole. Un padre che vuole migliorare o elevare le condizioni dei propri figli (chi non lo farebbe) trascurando tuttavia le loro capacità intellettive (ma una laurea non si nega a nessuno) e che prima o poi qualcosa lo avrebbero pure imparato: tanto in politica (almeno in questa attuale) i risvolti o le conseguenze delle proprie azioni non sono mai calcolati col metro della storia, bensì del contingente.
E così il capo decaduto della Lega, i suoi epigoni travolti dal malaffare, hanno comunque sciupato un patrimonio di massa, illudendo quegli elettori in un cambiamento di rotta della mala politica, e mistificando su concetti quali secessione, federalismo, e padania-libera, utili idiozie per accumulare consensi.
Quello che fa specie è che ancora oggi, quale quarta carica dello Stato (il Nostro, ma anche il loro) compare una persona (la Mauro) che vanta di essere stata “un’asina a scuola” (a sua discolpa dall’accusa di comprare lauree all’estero) e che con altri cumulava tesori forse in vista di una possibile disfatta. In tutto questo, l’allora ministro dell’Interno (Maroni) che in teoria potrebbe controllare il movimento di ciascun cittadino, dov’era?, dove pensava che fossero poteri e cerchi occulti se non intorno a lui? Consapevole peraltro che a far da tesoriere e gestire i finanziamenti pubblici del suo partito ci fosse un ex buttafuori. Un manipolo di cialtroni, dunque.
Ma quel che è più doloroso è l’aver ignorato quel familismo amorale evocato da Banfield il secolo scorso, analizzato in Basilicata. “Padri e figli” è la rilettura che obbligheremmo a quell’incauto capopopolo che brandiva e brindava con ampolle sulla sorgente del Po. Tre momenti letterari consiglieremmo a quell’uomo ormai distrutto, imploso nella sua stessa spocchia, cui il pudore di tacere non fa alcuna presa. Tre momenti distinti che portano lo stesso titolo, “Padri e figli”: il romanzo del russo Ivan Turgenev (del 1862, dove si conia il termine nichilista); il film di Mario Monicelli (commedia dei sentimenti e sui conflitti, premiato al Festival di Berlino nel 1957); e non ultima la stupenda canzone di Cat Stevens incisa nel 1984, “Father and son”. Dove canta “non è tempo per cambiamenti / solo siediti, prenditela lentamente…” L’avesse ascoltata una volta quel capopopolo, avesse visto quel film, avesse letto quel romanzo.
Armando Lostaglio