Il dibattito che ha seguito la scomparsa di Giorgio Napolitano si è concentrato, come è giusto che sia, sul suo ruolo di presidente della Repubblica. Ma una diversa chiave di lettura mi è stata suggerita da una nota di uno studioso di Pasolini (Paolo Desogus) che insegna a Parigi.
Nel 1974 Pasolini aveva scritto sul Corriere della Sera un articolo destinato a diventare un pezzo di storia comune: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (…) Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969 (Piazza Fontana, ndr). (…) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale». Poche righe più in là, Pasolini (che di sé scriveva: « Io, comunista comune, non tesserato, ma irrispettoso comunque di ogni istituzione ») individuava nel PCI la residua speranza di salvezza dell’Italia. « Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico ». Questo scritto ebbe una risonanza enorme. Contribuì molto alla formazione del “mito” (in particolare associato alla figura di Berlinguer) del PCI come di una forza esemplare, “diversa”, eccentrica anche rispetto alla storia stessa del movimento comunista.
Ma (e qui sta il punto interessante) fu proprio su questo articolo che Giorgio Napolitano, in quel periodo responsabile della cultura del PCI, costruì un suo dissenso rispetto alle posizioni di Pasolini. Napolitano non concordava sull’idea di un PCI rappresentante di una parte “pulita” del paese opposta a una “sporca”. E vedeva semmai il PCI come una forza di dialogo con gli altri settori della società civile e politica, capace di portare le istanze del movimento operaio e popolare nell’agenda complessiva del paese.
In quel dissenso tra il più grande intellettuale dell’epoca e l’allora responsabile della cultura del PCI, futuro presidente della Repubblica, sta, in nuce, molta parte della storia successiva dell’Italia. Da un lato, l’idea “manichea” che vi siano due paesi opposti eternamente destinati a combattersi. Un’idea adottata e promossa poi (certamente in modo tanto più banale) dalla produzione culturale di consumo (ad esempio da registi come Virzì, o autori di best sellers come Carofiglio o Saviano) e da movimenti politici come i 5 Stelle. Dall’altra, c’è invece l’idea che la sinistra non sia « un’isola», che occorra accantonare l’idea di superiorità e accettare il dialogo con gli « altri » se si desidera far evolvere il senso civico della collettività, inteso come patrimonio comune e non come randello da agitare nel conflitto politico. Enrico Berlinguer, negli anni successivi alla morte di Pasolini, parve (con la famosa « superiorità morale » dei comunisti italiani) adottare la prima idea. Mani pulite, all’inizio degli anni Novanta, fu una realizzazione paradossale della profezia pasoliniana: una classe dirigente (il “paese sporco”) messa a processo. Ma che per eterogenesi dei fini produsse un effetto di segno opposto: l’ascesa di un partito Berlusconiano che riprendeva proprio quella stessa divisione del paese in blocchi contrapposti, rivendicando però per sé il ruolo di « paese pulito » e attribuendo al mondo di sinistra il ruolo opposto.
Non si tratta, è ovvio, di stabilire chi avesse ragione tra Pasolini e Napolitano. Con tutto l’amore per Pier Paolo (compreso e anzi ancora più forte quello per i suoi dubbi, le sue nevrosi e le sue incoerenze), anche io ho sempre sospettato che il pezzo « io so », proprio per la sua eccezionale forza espressiva, abbia contribuito a fondare (in modo, se non innocente, al più preterintenzionale) una stagione che ha portato frutti guasti. Quelli dell’antipolitica, della politica come moralismo, postura di superiorità, del sospetto come metodo permanente, dell’identificazione dell’altro come male da estirpare. Ma in quella spettacolare diagnosi pasoliniana, e nella sottile critica che ne faceva Napolitano, ci sono ancora elementi che permettono di comprendere l’Italia di oggi.
Proprio in questi giorni a Genova, nel quartiere di Rivarolo, ragazzi immigrati minorenni sono stati rinchiusi in container senza finestre, in condizioni indecenti. In questa come in altre occasioni, l’alleanza tra i circoli di sinistra e il mondo cattolico sta intervenendo per aiutarli, con atti concreti e una mobilitazione spontanea e sorprendente. C’è, in questo sussulto di civismo e solidarietà, qualcosa che ci riporta all’idea pasoliniana di paese pulito in un paese sporco; ma anche alla diagnosi opposta, quella di Napolitano, secondo la quale è possibile intervenire attivamente, e non moralisticamente, nel tessuto sociale, per farlo evolvere su posizioni socialmente avanzate. Nel confronto di allora, tra quei due protagonisti della storia italiana recente, c’è insomma ancora molta parte dell’Italia di oggi.
Maurizio Puppo
Ho una pessima opinione sia su Pasolini che su Napolitano, sia su chi li esalta annullando i fatti che scandendo la loro esistenza li caratterizzano. Quindi rimango sempre scioccato quando questo articolo di Pasolini da vaticinante ritroso viene usato per dimostrare la sua capacità di vedere ciò che gli altri non vedevano e di dire ciò che gli altri non dicevano… senza accorgersi che i realtà non disse nulla… mi ricorda solo la mia cugina dispettosa e sciocchina che diceva sempre: io lo so ma non te lo dico. Tra i pochi che hanno le idee chiare su Pasolini c’è Belpoliti che sul suo libro « Pasolini in salsa piccante » lo mette a nudo… purtroppo nonostante questa rara eslamazione « il re è nudo » tutti continuano a vestirlo con le loro « opinioni a prescindere »… Napolitano lo ritrovi nel libro di Ermanno Rea « Mistero napoletano », nella « questione ungherese » e nella distruzione delle intercettazioni sulla trattativa Stato mafia… che, dicono, sta continuando nell’aldilà… dicono…
Caro Zanon, grazie per il commento. Il ruolo di « vaticinante » spesso attribuito a Pasolini, personalmente, non mi ha mai convinto. A mio modo di vedere Pasolini, più che una capacità profetica aveva, umanamente e intellettualmente (come su un altro registro Ezra Pound) i tratti del profeta. Che non vuol dire fare gli oroscopi, ma appartenere, anche dal punto di vista culturale e psichico, a una realtà diversa da quella del proprio tempo. Il suo articolo « Io so » era però tutt’altro che un gioco privo di contenuto. Anzi, è un (disperato) atto di fede nella democrazia (« io credo alla politica, credo nei principi « formali » della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti », dice), un esercizio sulla natura del potere (Pasolini dice che il vero « colpo di stato » avverrà quando a fare i nomi dei colpevoli « saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere »). Come ho cercato di scrivere, l’idea di « paese pulito in un paese sporco » ha inciso molto sulle idee, le attitudini, le prese di posizione del periodo successivo della storia italiana.
Quanto al giudizio su Giorgio Napolitano, il suo mi pare un po’ allusivo (vede che il pezzo di Pasolini ha proprio lasciato delle tracce? Scherzo naturalmente) e tagliato con l’accetta. E quando si va con l’accetta, si perde qualche pezzo per strada. Il libro di Rea a cui lei fa riferimento, che è bellissimo (ne consiglio la lettura) e parla tra altre cose dell’espulsione dal PCI del gruppo Gramsci, in polemica con la visione di Amendola (maestro di Napolitano), è critico ma più articolato di quello che lei sembra lasciare intendere. Un cordiale saluto, Maurizio
Essendo diversi si danno interpretazioni diverse. Nel libro di Rea si dice chiaramente che gli attacchi contro « i sovversivi » da parte dell’apparato di cui faceva parte Napolitano e da lui stesso in prima persona portarono al suicidio Francesca Spada. Me lo sono riletto or ora per non sbagliare… e non mi sbagliavo… ma ripeto essendo diversi… grazie per la risposta. Gian Carlo