L’importanza del carteggio nell’esperienza migratoria

Quali sono le chiavi per la comprensione delle storie che si celano dietro alla calligrafia dello scrivente e quali sono i messaggi che volevano essere espressi nelle fotografie allegate? In questo articolo faremo luce sui contenuti, i codici comunicativi e culturali espressi dal migrante alla famiglia d’origine, rivelando anche quelle “regole non scritte” alle quali sapeva di doversi attenere al fine di mantenere vivo il ricordo di sé nei propri cari.

Riflessione ispirata dai carteggi rinvenuti presso l’archivio della Fondazione Paolo Cresci di Lucca e dal libro Un filo fra due mondi. Percorsi didattici sulla storia dell’emigrazione, a cura di Umberto Baldocchi, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, 2004.

Link alla presentazione del Dossier bilingue: «Odissea italiana. Storie e analisi dell’immigrazione italiana in Francia. 1860-1960 e oltre» e agli articoli pubblicati in italiano.

Il foglio e la storia

Vivendo in un’epoca dove la carta è quasi esclusivamente protagonista nel nostro quotidiano in forma di pratiche amministrative e la penna non serve più che a riempire formulari, la percezione del foglio scritto come mezzo di trasmissione di contenuti di interesse storico è quanto di più lontano da noi. Eppure la carta, seppur soggetta a deterioramento, è stata fino a qualche decennio fa il principale mezzo di trasmissione informativa di qualsiasi tipologia: opere letterarie, epistolari sentimentali e professionali, trattazioni filosofiche, bollettini di guerra, diari di bordo, pratiche commerciali e notarili, etc.

Ciò di cui vi parleremo adesso sarà la lettera intesa come testimonianza storica del processo migratorio e delle dinamiche sociali e linguistiche degli italiani all’estero.

La lettera come cronaca

Durante la fase migratoria l’epistola costituì l’unico modo per mantenere i legami fra chi partiva e chi restava.

© Archivio della Fondazione Paolo Cresci di Lucca

Solo recentemente, però, è stata riconsiderata l’importanza dell’epistolografia in relazione al fenomeno migratorio ponendo in primo piano anche le lettere scritte dai migranti semianalfabeti (in maggioranza contadini di fine Ottocento che si cimentarono nell’attività scrittoria al fine di rassicurare i propri cari del loro stato di salute o invogliando chi era rimasto alla partenza) e svincolando dunque l’attività dall’usuale studio dei carteggi dei soldati impegnati al fronte nella Prima Guerra mondiale. Soprattutto nella prima metà del XX secolo, la lettera ebbe la funzione fondamentale di indirizzare i flussi migratori caratterizzati dalle pratiche di ricongiungimento familiare e dando luogo, così, a vere e proprie «catene migratorie». La separazione dalla famiglia fu quindi il motore dell’attività epistolare.

Le caratteristiche del carteggio

Recandomi presso il Museo Paolo Cresci di Lucca e potendo toccare con mano, nonché osservare da vicino, alcuni dei carteggi relativi all’emigrazione italiana in Francia, mi sono state evidenti fin da subito alcune particolarità per niente scontate e, al contrario, fondamentali alla comprensione dello studio epistolografico. Innanzitutto la lettera deve essere immaginata come una fotografia di un frammento di vita in cui la maggior parte delle informazioni vengono date per scontate (poiché ben presenti al destinatario), quindi, al fine di comprenderne i contenuti è fondamentale l’attività di contestualizzazione ricercandone la data e il luogo di provenienza. Le congiunture storiche, il luogo e quindi l’ipotetica provenienza sociale del mittente sono alcuni dati che il lettore deve cercare di ricreare nella propria mente immedesimandosi nel ruolo sia dell’autore che del ricevente.

Attraverso la colloquialità del linguaggio, nonché i saluti iniziali e conclusivi, è possibile ricomporre inoltre l’intero contesto familiare del migrante tenendo conto che le lettere erano solitamente lette difronte alla famiglia riunita e rivolgevano perciò un pensiero, seppur sintetico, ad ognuno di loro. Per questo motivo le uniche parole di sincero sconforto che vi si leggono si legano principalmente alla mancanza dei propri cari senza che venga fatta allusione, se non in rari casi, alle difficoltà riscontrate durante il viaggio e nella terra d’arrivo: l’apprendimento della lingua, le condizioni di lavoro, la discriminazione sociale e la difficile integrazione corrispondenti alle fasi comuni dell’esperienza migratoria.

Il tono della lettera è per lo più nostalgico ma globalmente positivo al fine di non allertare i parenti ed anzi invogliarli, eventualmente, a fare lo stesso promettendo un migliore stile di vita e un maggiore benessere economico.

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Anche per chi restava il messaggio dei segni affidati alle fotografie da mandare a chi era partito era importante. Nella prima immagine la chiave di casa, i fiori, l’arancia (in una terra dove non ne nascono), le monete sono segno di benessere rassicuranti per l’emigrato. Nella seconda immagine la mela (frutto povero) e il borsellino vuoto sono segni di disperazione e grido d’aiuto di chi è restato. (Da “Non aprire che all’oscuro” – Molise 1910-1920 ©Flavio Brunetti)

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Persone oltre le parole

La scrittura intesa nel suo senso più generico, ivi compresa la calligrafia, gli errori ortografici, le correzioni, le competenze lessicali, le ripetizioni, l’uso del dialetto o dell’italiano, la presenza di contaminazioni linguistiche con la lingua straniera o l’uso ricorrente della stessa ci permettono inoltre di ricostruire una sorta di curriculum vitae del migrante lasciandone intuire il grado di scolarità, il tempo di permanenza all’estero e il livello di integrazione sociale.

Tuttavia sono molteplici i modi in cui la seconda lingua può influenzare l’uso della prima traendo in inganno il lettore attraverso la presenza di parole, espressioni e intere frasi in francese o di semplici francesismi. Quest’ultima è per l’appunto una comune caratteristica di coloro che hanno un ineguale grado di conoscenza delle due lingue e si può presentare sia in una fase intermedia di apprendimento linguistico, sia in quella di superamento della seconda lingua sulla prima nel caso delle seconde o terze generazioni di immigrati che hanno appreso l’italiano solamente a scuola.

Si riporta ad esempio parte di una lettera scritta da una donna residente a Marsiglia e che nel 1940 si rivolse ai parenti fiorentini che ipoteticamente non aveva mai conosciuto se non tramite uno scambio epistolare: «Tante scuse per il mio mal scritto, tanti sbagli!! Voglio sperare la loro indulgenza, ma ho lasciato gli studi della lingua italiana da tanti anni». Per un ricercatore operante nel settore, l’ottima conoscenza di entrambe le lingue è una competenza indispensabile anche al fine di individuare incertezze grafiche, errori sintattici, eventuali concatenazioni di parole (come «perme» al posto di «per me»), ma può non essere sufficiente per giungere alla completa comprensione del testo nei casi di deterioramento del documento o di povertà di contenuti. All’informativa divulgata dai carteggi si aggiunse quella delle agenzie specializzate in accordo con le compagnie di navigazione (che avevano l’interesse economico di convincere dell’eccezionalità del fenomeno migratorio), nonché quella dei giornalisti che stimolò indirettamente l’interesse nei confronti dell’emigrazione.

La lettera e la fotografia

Le relazioni epistolari nacquero dunque come una naturale necessità da parte dei migranti di superare la paura del viaggio e la nostalgia dei propri cari. Poteva anche accadere che alcuni si sposassero prima della partenza legando a sé la consorte e promettendole di fare presto ritorno al paese d’origine ma tramutando in seguito la promessa in una proposta di ricongiungimento. Nelle prime fasi d’insediamento nel nuovo stato il legame con la patria diventava generalmente più forte; nelle lettere si iniziò a descrivere la nuova quotidianità ricercando continuamente dei parallelismi con la vita passata e sottolineando la volontà di mantenere le abitudini italiane (come la “buona” cucina). Il fine ultimo dell’emigrato, in questa “seconda fase” di relazioni epistolari, era quello di mantenere vivo il ricordo di sé nei propri familiari anche attraverso le immagini.

© Archivio della Fondazione Paolo Cresci di Lucca

Molto spesso infatti le lettere erano accompagnate da una fotografia che comprovava il benessere economico raggiunto attraverso l’abbigliamento, un’ambientazione fittizia ricreata in studio o, ancora, dimostrando l’attaccamento alla madre patria sfoggiando uno stile italiano ma adattato al nuovo status sociale. Le immagini servivano inoltre ad introdurre i nuovi componenti della famiglia del migrante e a confermare la reciproca responsabilità fra chi era partito e chi rimaneva: i primi elargendo consigli e direttive sull’esperienza migratoria, i secondi rendendo possibile la partenza e procurando il denaro, nonché i beni di prima necessità, per sostenere il lungo viaggio.

Il mantenimento del ricordo

Quanto detto dovrebbe perciò lasciare intuire fino a che punto la conservazione del ricordo da parte del migrante nella famiglia di appartenenza fosse necessaria per accorciare psicologicamente le distanze. Naturalmente per comprendere tale necessità non può essere tralasciata la loro italianità concepente la famiglia (in base al modello cattolico e patriarcale) come una sorta di microcosmo sociale dove si compiono i diritti, i doveri e le libertà di ognuno estendendosi anche oltre le mura domestiche. L’esigenza di sottolineare il continuo attaccamento ai propri cari, nonché il ribadire l’assunzione di reciproche responsabilità, faceva perciò parte di quelle regole non scritte alle quali sarebbe stato non solo disdicevole ma addirittura disonorevole venire meno.

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I figli vestiti da collegiali sta a significare che i ragazzi sono assistiti e le mani della moglie stringono la lettera scritta da lui, lontano emigrato. (Da “Non aprire che all’oscuro” – Molise 1910-1920 © Flavio Brunetti)

Le lettere e le fotografie furono quindi un mezzo indispensabile per continuare a coltivare i principi di solidarietà familiare e per tessere un filo invisibile fra il mittente e i destinatari, nella certezza che ciascuna delle parti avrebbe continuato a condividere le sofferenze o gioie dell’altro a discapito di ogni possibile distanza.

Giulia Del Grande

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Giulia Del Grande
Giulia Del Grande, toscana di origini, dopo una lunga permanenza in Francia, dal 2018 risiede stabilmente a Copenhagen. Dopo aver ottenuto la laurea in Relazioni Internazionali ha specializzato la sua formazione nelle relazioni culturali fra Italia e Francia in epoca moderna e contemporanea lavorando a Bordeaux come lettrice e presso varie associazioni e istituti del settore, svolgendo, in ultimo, un dottorato in co-tutela con l'Università per Stranieri di Perugia e quella di Toulouse 2 Jean Jaurès. Collabora con Altritaliani dal 2016.

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