Duplicità e riflesso nei Mottetti di Montale: «Non recidere, forbice, quel volto». Attraverso l’esempio montaliano un tema ricorrente nella poetica. La corrosione del tempo l’oblio che cancella i momenti cari. Una riflessione stimolante per un’Italia che negli anni sembra aver perso il bene della memoria.
Nella seconda sezione de Le occasioni (1932- 1939) – intitolata Mottetti – si trova un gruppo di 21 brevi componimenti che costituiscono un «romanzetto autobiografico», come scrisse il poeta il 16 febbraio 1950 fra le colonne del Corriere della sera:
«Molti anni fa Mirco, noto poeta che oggi ha cambiato mestiere, scrisse mentalmente e poi trascrisse su certi pezzetti di carta che teneva appallottolati nei taschini del panciotto, e da ultimo pubblicò, una serie di brevi poesie dedicate, anzi indirizzate per via aerea (ma solo sulle ali della fantasia), a una Clizia che viveva a circa tremila miglia di distanza da lui. Clizia non si chiamava affatto Clizia, […] e neppur Mirco si chiama Mirco, ma la necessaria circospezione non toglie nulla al senso di questa noterella. Basti identificare la tipica situazione di quel poeta, e direi quasi d’ogni poeta lirico che viva assediato dall’assenza-presenza di una donna lontana, nel caso presente di una Clizia portante il nome di colei che secondo il mito fu mutata in girasole. Le piccole poesie di Mirco, che formarono poi una serie, un romanzetto autobiografico tutt’altro che tenebroso, nascevano di giorno in giorno. Clizia non ne sapeva nulla e forse non le lesse che molti anni dopo; ma talvolta le notizie di lei che giungevano a Mirco fornivano lo spunto di qualche mottetto; e così nuovi epigrammi nascevano e scoccavano come frecce, al di là dei mari, senza che l’interessata ne offrisse, neppure involontariamente, il pretesto».
Epigrammi, dunque, scoccati come frecce e definiti singolarmente mottetti. Il “mottetto”, in origine, era una complessa e raffinata forma musicale polifonica, che si era sviluppata in ambito sacro a partire dal XIII secolo. Del resto, questo non è l’unico titolo montaliano legato espressamente alla dimensione musicale nella sfida di evocare l’armonia della musica attraverso la parola poetica; si pensi, ad esempio, ai giovanili Accordi e, fra questi, a Corno inglese, unico testo degli Accordi ad essere conservato – seppure con alcune variazioni – in una raccolta successiva.
Tuttavia il termine “motto”/ “mottetto” conobbe ben presto un’accezione letteraria indicando, già a partire dalla tradizione poetica due-trecentesca, un breve componimento a carattere gnomico dalla rapidità e dalla sentenziosità dell’aforisma. Dunque, il titolo stesso, come sottolineato da Tiziana de Rogatis* , rimanda ad una duplice origine: religiosa e sacra da un lato, aforismatica e stilnovistica dall’altro; è come se il lettore fosse portato sin da subito a riflettere sulla duplicità della scrittura, la quale si manifesta in molteplici sfumature, dal binomio assenza-presenza della donna amata alla contaminazione fra «racconto» e «visione», dalla bipartizione dei componimenti in due strofe e in due tempi alla contaminazione fra chiarori metafisici e opacità del reale e, soprattutto, dal riaffiorare delle memoria in luminosi flash-back al suo lento, inesorabile raggelarsi e dissolversi in poca nebbia di memorie.
Per esemplificare meglio questa “legge del due” possono essere utili alcune osservazioni su uno dei mottetti senz’altro più emblematici e significativi, Non recidere, forbice, quel volto:
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto,
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicale
nella prima belletta di Novembre.
Alcune indicazioni fondamentali possono essere tratte dall’analisi metrica del testo, che ricavo anche da un’attenta lettura di Luigi Blasucci. In prima analisi si noterà, banalmente, che la poesia si articola in due quartine, ognuna composta da tre endecasillabi e un settenario (vv. 4-7). Più nello specifico, non sfugge una specularità fra gli ultimi due versi delle due strofe: la prima si conclude con la serie endecasillabo-settenario, dunque, da un punto di vista ritmico, in calando e, dal punto di vista semantico, con un’immagine di nebbiosa dissolvenza, mentre la seconda termina con la serie settenario-endecasillabo, in un crescendo ritmico e con un’immagine di secchezza desolata e di ascendenza dantesca (Inf., VII, 124: «or ci attristiam ne la belletta negra»). Inoltre una consonanza forte, o se si vuole una quasi rima, collega le ultime parole delle stanze: v4. «sEMpRe» : v.8 «NovEMbRE». Vera rima interstrofica, del resto, è quella fra il v.2 «sfolla» e il v. 6: «scrolla». Il v. 5, invece, presenta due rime interne: «cala» : «cicala» (v.7), «svetta» : «belletta» (v.8). Le rime, così, risultano tutte adempiute. I vari collegamenti che si instaurano fra i due tempi della poesia, dunque, sembrano suggerire la possibilità di un’unica sequenza che, anche se descrive situazioni apparentemente diverse, delinea un solo avvenimento: il venir meno, o meglio la cancellazione, o meglio ancora la recisione della memoria.
Per quanto riguarda il campo figurale, la sovrapposizione fra duplicità e specularità, fra diversità dell’immagine e identità del referente, risulta ancora più evidente. Infatti nella prima strofe, con un incipit in cui l’imperativo assomiglia tanto ad una supplica, il lettore si trova immerso in un paesaggio psichico offuscato dal timore della perdita: «Non recidere, forbice, quel volto». Di quale forbice si tratta? C’è chi, come Franco Fortini**, pensò ad una forbice reale e a un giardiniere, ma senza dubbio più convincente è l’interpretazione proposta da Bàrberi Squarotti, che fa riferimento all’iconografia della Parca, raffigurata nell’atto di tagliare con le forbici il filo della vita. Presente è, inoltre, la memoria dantesca di Paradiso, XVI, 9: «lo tempo va dintorno con la force». La forbice, infatti, rappresenta, come afferma l’autore, proprio «il mezzo distruttivo», dunque l’azione corrosiva del tempo e dell’oblio sul ricordo. Non escluderei, anche se la critica non ne fa accenno, un’influenza del sonetto LXIII di Shakespeare – autore, tra l’altro, tradotto dallo stesso Montale – dov’è la donna, ma anche la memoria di lei, ad essere offesa e logorata dal Tempo. Proprio a seguito dell’appassire della bellezza, il poeta si erge a sua difesa; contro la crudele lama del Tempo che minaccia di reciderla dalla memoria, egli si arma delle linee nere tracciate dai propri versi:
For such a time do I now fortify
Against confounding age’s cruel knife,
That he shall never cut from memory
My sweet love’s beauty, though my lover’s life:
His beauty shall in these black lines be seen,
And they shall live, and he in them still green
(vv. 9-14).
Se il sonetto shakespeariano si conclude con un’immagine che rimanda alla funzione del verso come mezzo che rende la memoria eterna, il mottetto di Montale si apre, invece, con il «mezzo distruttivo», con l’affacciarsi dell’oblio e della «nebbia di sempre», con un’immagine che ricorreva già nella Casa sul mare (Ossi di seppia, 1925):
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io
(vv. 16-23).
Nella seconda strofa, invece, il paesaggio non è più psichico, ma naturalistico; dalla psiche si passa ad un giardino autunnale. Tuttavia, di nuovo, duplicità e identità si intersecano: se fra una strofa e l’altra cambia il piano figurale, quello referenziale rimane lo stesso, ossia la perdita del ricordo. Si tratta di una privazione che assume i tratti di una mutilazione subita quasi passivamente, come l’acacia scrolla da sé, per il colpo subito, il guscio della cicala, simbolo della calda estate:
«Il guscio di cicala […] è l’involucro della voce dell’estate, che è morta e cade nel primo fango d’autunno. Somiglia dunque a quei ricordi che sfollano la memoria del poeta, ricordi di estati di vita, sonore, ricche, di cui non resta che un guscio vuoto».
Anche qui agisce la “legge del due”, nella dialettica fra il caldo della stagione estiva e, dunque, della vitalità del ricordo ancora fresco, e il calare del freddo autunnale che violentemente trascina via con sé le tracce labili della stagione precedente: sconfitta del ricordo in un balzo che è insieme cronologico e metaforico.
Infine, la duplicità agisce, oltre che in ambito espositivo (allocutiva la prima strofe, discorsiva/narrativa la seconda), anche nell’elemento temporale. Il testo, infatti, non solo è incentrato su un prima e un poi, ovvero sulla persistenza precaria e sulla scomparsa fulminea, ma, a ben vedere, il lettore si trova di fronte ad una temporalità divaricata, quasi una prosecuzione metafisica o epifanica, in un tempo lontanissimo da quello simultaneo della similitudine o della metafora, ma che è espressione pure del correlativo oggettivo montaliano.
Vincenzo Allegrini