Dopo Il ROGO della Città della Scienza di Napoli, c’è stata una sorta di sollevazione popolar-culturale in molti paesi del mondo e non solo in Italia. Immediatamente si sono messe in moto le macchine della solidarietà per trovare i fondi per la sua ricostruzione. Queste iniziative continuano e continueranno ancora per ridare a tutti noi, grandi e piccini, che ci nutriamo di Cultura, la speranza. Nel suo nuovo racconto “La terra degli Dei” Flavio Brunetti condivide con noi una “selva di ricordi”. Ricordi che vagano dalle stupende bellezze del Creato alla sciagurata industrializzazione del XX secolo, dai sogni dell’uomo moderno e democratico alle lotte operaie. Un volo che alla fine ci rivela che la Scienza non ha paura di incendi e che un bel giorno anche La Città della Scienza di Bagnoli rinascerà. Nonostante tutto.
[**CARBONI, VELENI E SPERANZA*]
L’immagine delle donne in costume da bagno, ai piedi della Città della Scienza carbonizzata, distese nel minuscolo spazio sulla riva del mare, ricavato tra la sporcizia che invade la spiaggia di Coroglio, ha lo stesso amaro, stonato sapore degli applausi alla bara, quando esce dalla chiesa con dentro, sigillato, il morto di turno. Nel, tutti insieme!, batter le mani al defunto, né entusiasmo, né gioia, né dolore, ma solo la dissonante voglia di vivere. Vivere contro la morte. Vivere contro il fuoco. Vivere e basta! Che i guai vadano via!
Città della Scienza non c’è più. Ci sono solo i carboni sequestrati dal giudice, tizzoni, che nessuno può calpestare. Sequestrati, come tutta l’area avvelenata dall’Italsider e dall’Eternit. Tutta la baia di Coroglio, centoventi ettari, è un immenso sequestro. Carboni e veleni.
Avevano annunciato che Città della Scienza era stata riaperta, ma non c’è nulla. Di fronte alle nere macerie, al di là della strada, che da Posillipo porta a Bagnoli, i grandi spazi dell’Edificio Servizi, ambienti che già c’erano prima. Immensi, dove si perde, ora qua, ora là, la figura fuggente di qualche impiegato. Un paio di stanze al piano terra accolgono “L’avventura sui vulcani” con reperti di geologia donati da un benefattore dopo il rogo.
In basso, sui manifesti attaccati ai muri il giuramento solenne: “Insieme, ricominciamo!”. Ma in alto, all’ingresso, sventola lo striscione “Lavoratori di Campania Innovazione senza lavoro né futuro”, che già prima del rogo ondeggiava in silenzio nel vento del mare vicino.
Intanto, fuori, si alternano iniziative di grande solidale passione collettiva. La ricostruzione di Città della Scienza è una sfida della Cultura mondiale contro il potere delle armi. Cosa è il fuoco, gettato sui libri, se non un’arma?
Ce la faremo a far rinascere, dalla nera cenere, ancora il fiore della speranza?
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LA CITTÀ
Quando un aereo sta per atterrare a Capodichino, si sente un frastuono in tutta la città, un rombo celeste, un lunghissimo tuono, ma la gente che sta nelle case o per le strade, è oramai abituata e non si mette paura. Dall’alto, dall’aeroplano, invece, i viaggiatori che sperano presto di rimettere i piedi per terra, restano attoniti e senza parole, un po’ per la fifa che prende tutti quando si scende dal cielo e un po’ per la meraviglia. Dopo ore di viaggio, all’improvviso e per pochi secondi, volano, calando sempre più in basso, sino quasi a sfiorarli, sullo stadio San Paolo delle magie di Maradona, su Mergellina e le sue barche, e poi, uno dietro l’altro, veloci e sfuggenti, scorrono la Certosa di San Martino, Piazza Plebiscito, il Palazzo Reale, il Maschio Angioino, la Reggia di Capodimonte, gioielli di incredibile bellezza della città, orgogliosa di grazia e di storia.
E da lassù, legati al sedile, il naso schiacciato al finestrino, lo sguardo sbarrato, non hanno il tempo di afferrare con gli occhi, nemmeno un istante, nemmeno una, una sola di quelle perle preziose dei secoli che corrono, ti salutano e ti lasciano smarrito.
L’ INATTESO OSPITE
Nella hall Luciano guardava l’orologio e sbuffava, aveva fretta che il passeggero, il suo inimmaginabile e imprevisto ospite, si presentasse all’uscita. Il parcheggio dove aveva lasciata l’automobile, ogni ora o frazione di ora, costava l’ira di Dio. Tra un po’ sarebbe scattata un’altra ora e quello che stava aspettando ancora non si presentava all’uscita. Luciano ne conservava un vago, lontano ricordo, ma non sapeva adesso come fosse fatto, alto o basso, pelato o con i capelli bianchi, grasso o magro e invece quello gli aveva ricordato, al telefono, che un tempo lui, il bambino che ora aveva trentasei anni, gli era diletto come un figlio e che il padre, Antonio, era il suo più caro amico.
Antonio era un operaio dell’Italsider di Bagnoli. Un’avanguardia sindacale.
Due sere prima, a casa del giovane era arrivata la telefonata:
– Pronto? – aveva risposto Luciano
– Pronto! – una rauca voce lontana maschile all’altro capo del telefono – casa Russo?
– Sì?
– Ciao. Sono Andrea. Andrea Magliulo. Sto chiamando da Parigi. Non so se vi ricordate di me. Forse no, dopo tanti anni. Io sono il vecchio amico di Antonio.
– Di mio padre? – il giovane rispose stupito
– Luciano! – esclamò la voce all’altro capo del telefono e chiese conferma – tu sei il figlio di Antonio?
– Ma – lo interruppe il giovane – non so se lo avete saputo, mio padre, purtroppo, è morto quattro anni fa.
– Sì che l’ho saputo. L’ho saputo, qui a Parigi, da compagni comuni. Ma dimmi, sei Luciano?
– Sì. Sono io.
– Ah sapessi quante volte t’ho portato in braccio quando eri bambino! Eri piccolo piccolo… poi me ne sono dovuto andare via da Napoli e non ci siamo visti più. Tu allora tenevi, più o meno, cinque anni
– Eh già – sospirò Luciano all’altro capo del telefono – qualcosa mi ricordo, ma con tutti i casini e i problemi che successero … Ma ora dove state?
– Te l’ho detto, vivo a Parigi. Insegno all’Università di qua.
– Allora siete un professore?
– Luciano, dammi il tu, come si dà a uno zio.
– Va bene! Pure se non vi conosco…. oh, scusate, pure se non ti conosco. Ma perché hai chiamato? E il numero chi te l’ha dato?
– E che ci vuole a trovare un numero! Fino ad ora non ho potuto, ma adesso ho deciso. Sono lontano da Napoli da più di trent’anni. Ci avevo pensato tante volte, ma ora voglio proprio tornare.
– Per sempre?
– No. Solo qualche giorno. Tu stai sempre alla casa dove abitavate con mamma e papà? A Bagnoli?
– Sì. Ma ora vivo da solo. Mamma se ne è andata da tempo. Si separarono, lei e papà, e ora vive con un altro. Ma, tu, perché vuoi tornare?
– Ho visto quelle immagini terribili della Città della Scienza incendiata e in me è scattato una specie di richiamo della foresta.
– Il richiamo della foresta? E che è? Che ci sta la foresta qua?
– È una selva di ricordi. Io ero uno studente quarant’anni fa quando ero amico di tuo padre. Io, tuo padre, lo veneravo. Per me era un eroe, un mito. Eravamo due comunisti. Io da studente e tuo padre da operaio. Quante cose abbiamo fatto assieme! Quante nottate a discutere! Quante riunioni! E tutte in quella parte di terra dove ancora tu abiti.
– Perciò forse mia madre a un certo punto si è stufata e mio padre poi si è ammalato coi veleni dell’ILVA e dell’Eternit, che l’hanno portato alla tomba.
– Vorrei andare al cimitero da Antonio. Hai tempo per me? Vorrei rivederti. Vorrei parlarti e ritornare con te sui luoghi, sugli spazi che ci videro insieme, tuo padre ed io, e che poi, per una mia scelta assurda ho lasciato, perdendo anche tuo padre.
L’ABBRACCIO COMMOSSO
L’aereo non tardò molto ad arrivare. I due subito capirono l’altro chi fosse e il professore si lasciò andare in un abbraccio commosso, che Luciano accettò con distacco e un certo imbarazzo. Poi si diressero verso la casa di Bagnoli vicino alla vecchia Italsider. Andrea era andato via da Napoli, per evitare la Giustizia. Lo avevano messo più volte sotto torchio e anche in galera per la sua stretta conoscenza di compagni confluiti in gruppi armati rivoluzionari. A quel tempo, quando se ne era scappato, la tangenziale che ora avevano imboccato era stata completata da poco.
Procedendo nel traffico lento sopra i tetti di Corso Malta a più di cento metri d’altezza, il giovane che era fuggito, lasciando la sua terra, la sua città e ogni cosa e ogni amore, nelle sue rughe scavate dal tempo, ora ricordava lo scempio del quartiere sottostante violato dagli enormi piloni di quella strada e guardava, per la prima volta, i grattacieli del Centro Direzionale frastagliare la distesa del mare e le linee, all’orizzonte, della costiera di Sorrento e dell’isola di Capri.
IL ROMANTICO GENIO
– Questa era la mia facoltà – disse Andrea quando l’auto, uscita dalla tangenziale, passò sotto il bell’edificio e continuò – Ingegneria. Qui dentro avevamo il nostro comitato politico. Qui si preparavano i manifesti e gli striscioni. Da qui partivano le manifestazioni. Quest’opera d’arte di architettura è di Luigi Cosenza. Un ingegnere. Un comunista romantico.
– Ah! – assentì il giovane – ne ho sentito parlare. Dicevano che questo è l’unico esempio in cui la Scuola, il Pensiero, si unisce alle case del popolo attraverso portici e percorsi che collegano l’edificio universitario alle case popolari progettate sempre da Luigi Cosenza.
– Quando questa meravigliosa struttura fu inaugurata, Luigi Cosenza non si presentò. E sai perché?… avevano invitato il Cardinale di Napoli e lui non sopportava l’idea che un Cardinale dovesse inaugurare una sua opera.
– Allora era uno che non guardava in faccia a nessuno!
– Cosenza aveva progettato opere che rimarranno per sempre negli annali dell’architettura. La Olivetti di Pozzuoli era l’unica fabbrica al mondo dove gli operai erano immersi nella natura e in una spettacolare visione del mare. “ – Non possiamo negare agli operai le bellezze del Creato. Perché un operaio mentre lavora non dovrebbe vedere il mare? e perché un’industria non dovrebbe essere immersa nella natura? -” così diceva. Egli era un comunista romantico.
– Bellissimo!
– Pensa che una volta lo arrestarono e fece giorni di galera.
– Perché? – chiese Luciano
– La Polizia, in Via Toledo, aveva osato sbarrare la via al corteo degli operai dell’Italsider che dovevano raggiungere la Prefettura per protestare contro la temuta chiusura dello stabilimento. Certamente là in mezzo, alla testa del corteo, c’era anche tuo padre.
– Ma lui, Cosenza, che c’entrava?
– La potenza e la combattività degli operai dell’Italsider produceva un irrefrenabile fascino e un immenso entusiasmo negli intellettuali e negli studenti. Quando li vedevi arrivare in corteo, in cinquemila, con i loro caschi gialli e le loro tute blu era come se avanzasse un esercito armato a cui nessuno si poteva opporre. Io perciò amavo tuo padre. Mi sentivo onorato dell’amicizia di un operaio dell’Italsider, uno così preparato e così combattivo. Una vera avanguardia che stavano tutti a sentire e che non aveva nessun timore di parlare a migliaia di persone. Anzi, con le sue parole, entusiasmava le masse… le masse, così si diceva.
– Ma dimmi di questo Cosenza. Che combinò per essere arrestato?
– Si diresse verso il questore che capeggiava il manipolo di celerini e, al suo rifiuto di dar via libera al corteo degli operai, gli allentò un sonoro ceffone sul viso, un pubblico schiaffo da duello in piazza!
Stettero, i due, pensando qualche istante in silenzio, fermi al semaforo, poi il vecchio sospirò e continuò
– Per noi studenti che volevamo rovesciare il mondo, questo luogo progettato e costruito da uno come Luigi Cosenza era un luogo sacro. E qui non c’erano soltanto quelli d’Ingegneria, qui venivano da tutte le facoltà. Studiavamo e vivevamo qui dentro. Fino alle otto di sera, quando a quell’ora nell’atrio usciva il capo dei bidelli e urlava tre o quattro volte: “ SI CHIUDE! SI CHIUDE! SI CHIUDE! “ e, a quel grido, tutti gli studenti uscivano fuori.
I CAMPI DEL FUOCO
C’era una volta, tanti e tanti anni fa, un grandissimo vulcano che si affacciava sul mare Tirreno. Un giorno il bordo del suo cratere, quello dove andavano a infrangersi le onde, per un terribile cataclisma soprannaturale, si inabissò nel mare e scomparve. Il vulcano si aprì e, come in un abbraccio sublime, donò all’azzurro e all’orizzonte i Campi Flegrei, i campi del fuoco. Da un vulcano ne nacquero tanti altri più piccoli, che continuavano ad innalzare le loro fiamme al cielo e a mostrare agli esseri viventi impauriti e impotenti tutti i misteri legati al fuoco delle viscere della terra.
Tutto l’ignoto e il divino era lì. Crollando, il vulcano gigante donò agli uomini la terra vicina agli Dei. La Solfatara dove Poseidone sbuffa il suo fiato bollente. Il lago D’Averno, l’ingresso al mondo dei morti. L’antro della Sibilla, il responso indecifrabile e oscuro di Apollo. Cuma, la più antica città greca sull’italico suolo. Puteoli dove la terra non smette di salire e di scendere. Capo Miseno, il sepolcro innalzato da Enea al marinaio, che aveva osato offuscare con la sua tromba il canto delle conchiglie di Tritone, figlio del mare. Baia, la città romana, oramai sommersa sotto il velo turchino dell’acqua del porto. Il Monte Nuovo, l’ultimo nato, il pargoletto che ha appena 500 anni. Nisida, bellissima e strappata alla gente, dove Bruto e Cassio decisero di uccidere Cesare. Gli Astroni, la riserva di caccia dei re con le antilopi, i leoni, i cinghiali, prigionieri del cratere. E infine Possillipo, dimenticare ogni guaio nell’infinito.
Un mondo fatto di minutissime ceneri sciolte, di pozzolane, di lapilli, di tufi, di zolfi, di pomici, di ossidiana, di scorie e di lave. Un mondo tutto a colori.
Ai piedi del bordo del grande vulcano, sotto Posillipo, distendeva il suo verde e i suoi fiori, Coroglio, insenatura di rara bellezza, di rara grazia, di rara amenità. Lì doveva nascere una nuova Venezia, duecento anni fa, collegata attraverso gallerie di mare a Mergellina e ricca di calli e canali. Un incredibile, fantastico sogno distrutto dall’uomo.
La città di Coroglio si racconta da sola nel nome che ha: Bagnoli. Fatta di fiori, di alberi, di arance e di mare.
Poi, in quell’insenatura, Paradiso Terrestre, arrivò l’uomo del ventesimo secolo. Su un’altra isola, molto lontana, che i Romani chiamavano Ilva, cavavano il ferro. Ferro. Ferro. Ferro. E il ferro serviva alle guerre. Guerra. Guerra. Guerra.
A Coroglio costruirono gli altiforni dove scioglievano il ferro dell’Isola D’Elba per farne le armi. Quell’industria la chiamarono come il nome latino dell’isola del ferro: Ilva. Poi quando diventò ancora più grande si chiamò Italsider. Attorno ad essa ne nacquero altre, come ad una malattia ne seguono altre. L’Eternit, con la morte nel suo amianto. Il cementificio che bruciava le scorie dell’Ilva ed altre. Offuscato era il cielo da nubi di polveri fini e di fumo.
Così l’industria sporcò tutto e la terra e l’aria si ammalarono. Per caricare le navi strapparono anche il verde del mare.
Antonio Russo, morto di tumore a cinquantaquattro anni, era uno dei diecimila operai di Bagnoli – Coroglio.
Poco alla volta, finite le guerre, le armi, le navi e la ricostruzione, già da quando i compagni Antonio e Andrea combattevano insieme, cominciarono a cacciar via gli operai. Quando l’ultimo operaio andò via rimasero i veleni e le carcasse delle industrie. Qualcosa vendettero alla Cina, all’India, e ad altri paesi orientali, ma quel che restava dell’antico Paradiso Terrestre erano centoventi ettari di terra avvelenata.
LA GOCCIA NEL MARE
Era una bella mattina di domenica. Piena di sole. Il ragazzo aveva ospitato il professore francese. Non gli era costato tanto perché quello aveva detto che sarebbe ripartito solo dopo due giorni. Si erano appena alzati e stavano sorseggiando il caffè mattutino. Dopo un poco sarebbe partita la manifestazione di protesta contro il rogo della Città della Scienza e Andrea aveva chiesto al suo giovane ospite di accompagnarlo, spiegando che perciò era venuto da Parigi. Che aveva letto che tutti i partecipanti si sarebbero sporcati la faccia coi carboni del rogo per dimostrare che la Scienza non ha paura di incendi. E che avrebbe voluto sporcarsela anche lui e che anche avrebbe voluto urlare, dopo più di trent’anni che se ne era scappato senza tornare.
– Quando a Parigi è arrivata la notizia che avevano costruito nei vecchi capannoni lungo il mare di Bagnoli la Città della Scienza, mi sono sentito orgoglioso di venire da questa terra – disse il professore mentre era ancora in mutande perché aveva dimenticato il pigiama a Parigi
– Orgoglioso? – ribatté il giovane – e perché?
– Potevo finalmente vantarmi con gli amici francesi che queste cose non le sanno fare solo loro.
– E che avevano fatto i Parigini?
– Qualche tempo dopo che me ne ero andato là, erano stati capaci di riabilitare un’intera zona, una volta periferica, ma dopo abbracciata dalla città, dove in passato si facevano i mercati degli animali e ci stavano i mattatoi. L’avevano trasformata in un museo della Scienza e della tecnica. E questo, dopo una decina di anni, era successo pure qua! Là erano mattatoi con il tanfo del sangue. Qui era un’industria chimica, che aveva appestata una spiaggia. Ti pare poco?
– La nostra Città della Scienza era una goccia dalla quale poteva nascere ogni speranza – commentò Luciano
– Ogni speranza, contro la speculazione edilizia e contro la Camorra. Contro l’ignoranza. Contro i falsi miti. Hai ragione. Era una goccia nel mare dalla quale poteva nascere la speranza. Perciò le hanno dato fuoco – disse il professore.
Se ne andarono i due, camminavano insieme. Tra la gente che urlava, i ragazzi che saltavano, la ragazze che cantavano, sporcate le facce di nero, tra i bambini che piangevano increduli di tale cattiveria vigliacca.
Camminavano i due sul lido di Coroglio invaso dalla monnezza , sulle alte coste di Posillipo, lungo i muri dell’Italsider che coprono i centoventi ettari di veleno nel posto più bello del mondo.
Il professore ha portato fiori al compagno sepolto, poi non è più ripartito. Dopo qualche giorno ha trovato casa a Bagnoli. Arredata.
Dice che vuole restare.
Flavio Brunetti
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Altra storia di Città della Scienza: tra veleni, carboni e speranze.
Sono contenta di essere oggi in grado di reagire al tuo ultimo bellissimo racconto.
È stato un grande piacere leggerti di nuovo! Come sai descrivere bene la tua città,- perché si può dire che Napoli è la tua città, no? È un racconto commovente per la sua sensibilità e la sua ricchezza. Vorrei dirti come mi ha toccato.
L’archittetura del racconto è seducente come se tu ti fossi ispirato al modello di Luigi Cosenza: gli esseri umani vengono raccontati, nella semplicità, con azioni o ricordi nella storia del loro ambiente sociale e culturale.
I dialoghi affettuosi e familiari tra Andrea e Luciano, la nostalgia dell’ impegno politico di Andrea, ne fanno personaggi vivissimi con i quali il lettore si identifica volentieri, tanto più che il narratore sceglie un punto di vista che li accompagna in movimento. Il lettore condivide quindi le loro percezioni visive, scopre la città dall’ alto, dall’ aereo, e poi li segue sulla tangenziale che, inevitabilmente, sente anche lui come una antica ferita al cuore della città.
Trovo inoltre esemplare il tuo modo di scrivere la storia. Ci offri una storia di questa terra fin dall’ origine del mondo, che si legge al di là di tutto come una favola meravigliosa. La geologia incontra poi la topografia e la mitologia mentre la bellezza dei luoghi frequentati dagli Dei si fa poetica grazie a diverse enumerazioni di nomi, di minerali, di colori…
Il contrasto con la storia economica del Novecento fa risaltare molto più acutamente la brutalità dello sviluppo industriale incontrollato e le sue conseguenze mortifere per gli uomini e per la regione.
Infine riesci a far rispuntare la vita in quella “insenatura” straziata dalla violenza umana, sia con le fotografie, sia con la narrazione. Si può leggere il tuo racconto come un atto di resistenza contro la barbarie. Nonostante i fatti criminali, il tuo racconto è già di per sé un motivo forte di speranza.
Vorrei ancora aggiungere che ho letto il tuo racconto con la mappa di Napoli sotto gli occhi, seguendo tutti i toponimi. Per me è stato bellissimo rifare così il viaggio a Napoli che avevo fatto qualche anno fa da turista media. Mi ero allora documentata sulla città ma tutti i libri trascuravano la storia economica e sociale. Tu invece, con il tuo attacamento profondo alla tua terra sei riuscito in poche pagine e con fotografie eloquenti a fornirmi delle informazioni fondamentali, una storia genuina e viva.
Questo fa proprio venire la voglia di tornare ancora una volta a Napoli per approfondire.
Françoise
Altra storia di Città della Scienza: tra veleni, carboni e speranze.
Caro Flavio,
ho letto il tuo racconto « Altra storia di Città della scienza » e ho visto il diaporama del tuo reportage a corredo. Sono entrambi belli e potenti. Ho già detto e scritto a proposito della tua capacità di trasfigurare luoghi e persone attraverso la fotografia. Non a caso l’eponimo e il saggio « Visibilia – Invisibili di terra e di cielo » mi sono stati ispirati dalla tua arte. Devo aggiungere che il tuo racconto è una struggente testimonianza del patrimonio che l’uomo perde quando perde se stesso e le sue radici e allo stesso tempo indica la via, l’unica via possibile della letteratura e dell’arte. Per questo il tuo racconto è prezioso almeno quanto lo straordinario reportage fotografico a corredo.
Leggendolo mi è venuta in mente l’iniziativa del grande intellettuale e regista cinematografico Silvano Agosti che da anni ha richiesto formalmente all’UNESCO e alle Nazioni Unite di riconoscere ufficialmente l’essere umano quale patrimonio dell’umanità. Può sembrare paradossale, ma è proprio la negazione della centralità dell’essere umano in questo mondo – l’assassinio dell’Uomo Vitruviano – la causa remota di tutti mali che ci affliggono. Per questo il tuo lavoro è anche un’importante baluardo didattico contro le derive razziste e xenofobe di questa sempre più tirannica Europa delle banche. E a questo proposito bellissima è la chiusa della storia (« Camminavano i due sul lido di Coroglio invaso dalla monnezza, sulle alte coste di Posillipo, lungo i muri dell’Italsider che coprono i centoventi ettari di veleno nel posto più bello del mondo. Il professore ha portato fiori al compagno sepolto, poi non è più ripartito. Dopo qualche giorno ha trovato casa a Bagnoli. Arredata. Dice che vuole restare »). « Restare » è l’atto più politico che oggi si possa concepire.
Luigi Fabio Mastropietro