Nel dicembre 2019, a Granada, presso la Società Dante Alighieri, è andato in scena il monologo teatrale “Una casa di donne”, scritto da Dacia Maraini e rimasto a lungo inedito. Grazie a questa iniziativa Silvia Datteroni ha avuto il piacere di scriverne e di dialogare successivamente con la scrittrice, affrontando diverse questioni per lo più relative al suo modo di intendere la scrittura. Riproponiamo con piacere questa breve intervista, festeggiando il fatto che “Una casa di donne” è tornata in scena in Italia. Prossima data: 25 marzo alla rassegna “Essenze femminili in arte 2023”, che si terrà a Civitanova Marche Alta.
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UNA CASA DI DONNE
Questa pièce, scritta alla fine degli anni ’70 e rimasta inedita, è caratterizzata da un accentuato vigore artistico, potenziato da un irriducibile residuo di attualità proprio delle grandi opere.
“Una casa di donne” è la storia di Manila, laureata in Filosofia, che in un momento di estrema lucidità e consapevolezza decide di porre fine a una relazione ‘perfetta’, all’interno della quale si vede progressivamente relegata al ruolo claustrofobico di donna e compagna altrettanto ‘perfetta’. Tra le relazioni sbagliate della sua vita è da includere anche quella conflittiva con la madre, in parte responsabile delle sue insicurezze. Manila, ad un certo punto, intraprende la strada della prostituzione e inizia a condividere l’appartamento con altre due ragazze e colleghe, Marina ed Erika, tormentate anch’esse da un passato intriso di traumi personali, abusi sessuali e scelte controverse.
Nonostante le premesse, questo brillante monologo a tre voci evolve prescindendo dal vittimismo; la magistrale semplicità delle riflessioni che si abbattono sul pubblico graffia fino a travolgerlo, lacerando progressivamente un imborghesito senso comune che si sgretola a colpi di realtà. In questo modo Dacia Maraini ci (ri)propone contraddizioni strutturali proprie della società di allora e di adesso, lanciando un segnale di allarme tuttora irrisolto.
Si tratta di una critica sociale radicale ma non definitiva, che prende forma nitidamente e che spinge a riconsiderare la prostituzione come un atto estremo di ribellione; una risorsa sociale disperata, una condanna e allo stesso tempo un’arma, per donne come Manila, che decidono di imporsi e di lottare contro l’immobilismo collettivo, dinamitando dall’interno ataviche strutture vessatorie. Così la prostituzione, nel caso specifico di questa casa di donne, dilata e stravolge il proprio contorno semantico divenendo un provocatorio e polemico simbolo di libertà. Dacia Maraini in questo modo trasforma inevitabilmente l’opera in un controverso interrogativo morale rivolto a una società, come la nostra, ancora troppo poco ricettiva e solo presuntamente aperta nei confronti di certe problematiche.
INTERVISTA A DACIA MARAINI
Domanda : Il Suo monologo “Una casa di donne”, interpretato da Ottavia Orticello e con la regia di Jacopo Squizzato, è stato scritto alla fine degli anni ’70 e può essere considerato figlio di un’epoca e di un contesto culturale e politico effervescente, rivendicativo nei confronti dei diritti delle donne. Se dovesse riscriverla adesso, cosa cambierebbe? Come immagina Manila nella nostra società?
Dacia Maraini : Oggi dovrei tenere conto che la prostituzione è cambiata, si è divisa in due: c’è la prostituzione fatta da adulte consenzienti -quella di Manila- che ora si chiamano escort. E c’è la prostituzione di strada, che ormai è fatta quasi interamente da ragazzine straniere, spesso minorenni, che vengono comprate e vendute dalla tratta.
D. : Ogni scrittore ha la propria produzione ‘dispersa’. “Una casa di donne” è rimasta inedita fino a poco tempo fa. Perché aveva deciso di non pubblicare il testo? Cosa Le ha fatto cambiare idea?
D. M. : Non era una mia decisione, ma è dipeso dal fatto che gli editori sono poco inclini a pubblicare testi di teatro perché in effetti la gente non li compra. Il problema è che il teatro scritto non lo compra nessuno. Non sono io che non voglio pubblicare i testi ma la Casa editrice che resiste.
D. : In una precedente intervista ha affermato che il teatro, per Lei, «è il momento civile». Come considera la narrativa? E la poesia? Esiste per Lei un genere ‘più imprescindibile’ degli altri per comunicare con il Suo pubblico?
D. M. : Si può comunicare in tanti modi. Il teatro è per sua natura molto simbolico e politico, nel senso della immediata critica sociale e civile. La narrativa comunica in maniera più complessa e realistica, ma non è mai legata alla attualità, a meno che non si tratti di un libro che volutamente tratta dell’attualità, ma in questo caso si tratta di giornalismo e non di narrativa. La poesia comunica attraverso un processo fortemente legato al suono. Ogni frase ha un ritmo e una melodia tutta sua che, quando è vera e profonda, comunica delle emozioni immediate a chi legge. Inoltre devo aggiungere che, per scrivere un romanzo io ci metto al minimo due anni e quindi non posso tenermi legata alla cronaca, mentre col teatro e col giornalismo posso intervenire sui fatti del giorno. Infatti per scrivere un testo teatrale mi bastano due mesi, per un romanzo, come ho detto, a volte anche 5 anni, come mi è successo per “Marianna Ucria”.
D. : All’interno della Sua variegata produzione artistica, che include diversi generi quali la narrativa, il teatro, la poesia e la saggistica, uno dei temi principali da Lei toccati, in maniera trasversale ai generi, si costruisce intorno alla condizione femminile: ne analizza la problematica in profondità, prendendo in considerazione infinite contraddizioni e sfaccettature di quella che potremmo chiamare la questione femminile. Come cambia il modo di approcciarsi ad essa nei diversi generi da Lei trattati? Esiste una differenza in termini di coinvolgimento emotivo e di intento programmatico tra “Una casa di donne”, “Donne mie” e “Tre donne”, per esempio?
D. M. : Non credo che ci sia una differenza in termini di coinvolgimento emotivo, ma ci sono molte differenze che distinguono una emozione dall’altra. Come ho già detto, il teatro parla attraverso i corpi degli attori e tutto è compreso nel dialogo. Non ci sono descrizioni o interventi dell’autore nel dialogo. Questo rende il teatro molto ristretto nel suo ambito ma anche molto potente nel suo messaggio, per questo si presta alla politica, anche se si tratta naturalmente di politica sociale, non quella dei partiti. La prosa permette di approfondire, ironizzare, indagare il carattere dei personaggi e il loro rapporto col mondo. Clara Reeve, nel suo “Progress of romance” (scritto nel 1785) costruisce una teoria del romanzo molto interessante: per lei esiste il Romance e la Novel. Il romance viene dall’epopea, e si tratta di una «favola eroica che tratta di persone e di cose favolose», come scrive l’autrice. Novel invece è «una rappresentazione di vita e di costumi reali al tempo dello scrittore». Non poteva dire meglio: Swift e Kafka da una parte, Dickens e Tolstoj dall’altra. Aggiungerei qualcosa a proposito della poesia. Rispondo con una metafora. Mentre scrivere un romanzo è come costruire una casa, il che richiede tempo e competenze, scrivere un testo teatrale è come costruire un pozzo. Ci vuole competenza, ma si può fare in breve tempo e richiede un rapporto verticale fra acqua e cielo. Infine scrivere una poesia per me è come piantare una tenda in un posto bello, dormirci, godere del panorama, riflettere, meditare, e poi la mattina dopo, schiodare la tenda e ripartire.
D. : In precedenti interviste Lei ha spiegato che tutti i personaggi delle Sue opere sono inventati. Quando non inventa è perché scrive della Sua vita o sulla Sua famiglia. Esiste comunque un genere in cui, più degli altri, dice “IO”?
D. M. : No, quando scrivo di me, lo faccio chiaramente usando nomi e cognomi, cominciando dal mio, e il libro diventa un recit, come dicono i francesi, intendo un misto fra autobiografia e riflessioni sui temi che sto smuovendo mentre scrivo. Quando scrivo un romanzo invece invento e non sono mai io. “Bagheria”, “Un clandestino a bordo”, “La grande festa”, “Corpo felice”, sono testi che stanno a mezzo fra l’autobiografia e la saggistica. Gli altri sono romanzi di invenzione.
D. : Alberto Moravia, nell’introduzione al suo primo libro, “Una vacanza”, l’ha definita una scrittrice realista, riferendosi al suo amore nei confronti della realtà «per quello che è e non per quello che dovrebbe essere». Si riconosce in questa etichetta?
D. M. : Sono contraria in genere alle etichette perché tendono a semplificare. Le etichette servono sopratutto ai critici e ai giornalisti per chiudere in un cassetto l’artista. Ma di solito ogni autore esce dai limiti della etichetta. E non ama stare nei cassetti. Magari è un poco realista e un poco fantastico, un poco simbolico e un poco naturalista. La mia prosa è stata definita a volte realistica, a volte appartenente al realismo magico, a volte didascalica, a volte come realismo lirico. Certo, dò importanza alla realtà, ma nello stesso tempo credo che il mio stile sia anche visionario. Ma preferirei uscire dalle etichette ed essere giudicata per le emozioni, anche estetiche, che posso comunicare e per i mondi immaginari in cui, come dice Ortega Y Gasset, «ci si impaesa e non si ha piu voglia di spaesarsi».
Senza dubbio la penna di Dacia Maraini rifugge dalle etichette, impaesandosi di volta in volta in esperienze differenti, tutte accomunate da un estremo bisogno di realtà. L’impegno letterario dell’autrice appare come il riflesso di una scrittura intransigente, sottesa all’intervento sociale, e caratterizzata da una tonicità lirica, estetica, che alimenta e definisce una poetica essenziale.
Silvia Datteroni
Presidente Società Dante Alighieri Granada