Per Missione Poesia vogliamo ricordare Cristina Campo, nel centenario della nascita (1923-1977), una poetessa dai grandi tormenti sia per la vita vissuta che per il modo di interpretare l’arte, che scrisse pagine meravigliose sulla liturgia usando formule come splendore gratuito, e si occupò di intrattenere emblematici epistolari con molti personaggi dell’epoca. È ormai riconosciuta come una delle voci poetiche più alte del novecento. Nell’articolo ci soffermeremo sulle lettere che Cristina Campo scrisse alla poetessa e filosofa spagnola María Zambrano tra il 1961 e il 1975.
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Cristina Campo, pseudonimo della poetessa e scrittrice Vittoria Guerrini, è nata a Bologna nel 1923 ed è scomparsa a Roma nel 1977. Cristina ha compiuto studi privati, in quanto minata da una malattia al cuore che ha condizionato la sua intera esistenza, ed è cresciuta nel culto della bellezza, animata da un’incoercibile tensione alla perfezione, sia etica che estetica. Il suo pensiero è stato molto influenzato da Simone Weil, e nei suoi ultimi anni si è dedicata allo studio dei mistici e della grande tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale.
Inizialmente nota soprattutto per l’attività di traduttrice (J. Donne, E. Dickinson, San Giovanni della Croce, W. C. Williams e altri), in vita ha pubblicato solo un’esile raccolta di versi (Passo d’addio, 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971). L’interesse intorno alla sua figura, oltre la cerchia ristretta degli esperti di cose letterarie, è venuto crescendo parallelamente al costituirsi postumo del corpus dei suoi scritti, a partire da Gli imperdonabili (1987), in cui è raccolta l’intera opera saggistica. Sono seguiti La tigre assenza (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), libro che raccoglie le poesie, edite, inedite e sparse, e le traduzioni, e Sotto falso nome (a cura di M. Farnetti, 1998), in cui sono stati riuniti articoli, prefazioni e altri scritti sparsi. Sono anche stati pubblicati numerosi volumi di lettere: Lettere a un amico lontano (1989; 2ª ed. accresciuta, 1998), dirette ad A. Spina; L’infinito nel finito: lettere a Piero Polito (1998); Lettere a Mita (1999), dirette a M. Pieracci Harwell e pubblicate a cura della medesima; Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-75 (a cura di M. Pertile, 2009); Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino (2012).
In questo articolo, non potendo analizzare tutta la produzione dell’autrice, ci occuperemo proprio di uno di questi volumi di lettere, ovvero di quello che raccoglie gli scritti inviati a Maria Zambrano, pubblicato da Archinto Edizioni nel 2009, e accenneremo brevemente al suo pensiero, con particolare riferimento a quanto espresso in merito alla decisione del Concilio Vaticano II sull’eliminazione dalle funzioni religiose la liturgia in lingua latina.
Cristina Campo è stata un personaggio di quelli rimasti per lungo tempo, per lo più, invisibili e dei quali non si poteva parlare, solo per il fatto di essere considerata vicina a una certa parte politica, pur senza essersi mai schierata apertamente per nessuna ideologia. Questa sua, comunque, “non appartenenza” la Campo l’ha pagata naturalmente con il “non riconoscimento” da parte dei critici, almeno per un certo periodo, tra le grandi voci del ‘900, pur avendo compiuto gesti di altissimo valore letterario e di cui dobbiamo esserle grati, come ad esempio il fatto di aver capito per prima l’essenza polimorfa di Simone Weil e di averla tradotta con un’intensità tale da portare “al massimo del sapore” le sue parole, rendendole in una dimensione quasi corporale e sul filo della morte.
Inoltre, tra le altre considerazioni necessarie, non possiamo non attribuirle anche il merito, avendo vissuto il Concilio Vaticano II, così come tanti altri autori dell’epoca, tra i quali ad esempio Pasolini e Giudici, di aver saputo interpretarlo con le sue poesie e con il suo pensiero contestando, in particolar modo, relativamente ad alcune decisioni prese dal Concilio. La contestazione che l’autrice più muoveva riguardava l’abbandono della lingua latina per l’esecuzione della liturgia, così come dettavano le nuove regole, e che determinava, secondo lei, una perdita totale dell’ideale di bellezza. Questa sua visione, venne avallata e maggiormente enfatizzata da Cristina dopo la morte, avvenuta in contemporanea, dei genitori, avvenimento che la spinse a denunciare e a combattere ancora più tenacemente su questo fronte. Una dimostrazione la troviamo in un significativo passo di Diario Bizantino: Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale alla liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.
Sono parole molto profonde, in particolare il concetto di splendore gratuito, eppure per Cristina c’era molto di più: la perdita dell’ortodossia liturgica tradizionale, del resto sostenuta da diversi altri autori di carattere internazionale che scrissero anche una sorta di lettera manifesto al Papa Pio VI (tra questi figurano: J. Maritain, J. L. Borges, S. Quasimodo, E. Montale), era paragonata alla mancanza della quarta Virtù Cardinale, quella della Bellezza, quella a cui deve tendere il poeta nella sua intuizione in quell’enigma ogni giorno nuovo, proposto e mai risolto, se non nell’ora decisiva del gesto puro, alimentato come dice Sant’Agostino dalla pazienza e dal silenzio che aiutano a tenere la direzione. La poetessa, coinvolta nelle attività dell’associazione Una voce, avendo contribuito anche alla fondazione della sezione italiana della stessa, s’impegnò in quest’ambito anche supportando i cardinali Ottaviani e Bacci nella stesura del Breve Esame Critico del Novus Ordo Missæ, consegnato a Paolo VI – che non gradì ovviamente la missiva -, e del quale riportiamo un passaggio: Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato – opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime – il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i « canoni » del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
Ma, come detto, se il pensiero di Cristina Campo può considerarsi non privo di tormenti, basti solo l’accenno al tema precedente, altrettanto tormentata fu la sua vita privata specie relativamente all’amore nel quale fu libera, come nella scrittura. Non si sposò mai ma amò tre uomini: Leone Traverso, un grecista e traduttore, il poeta Mario Luzi (già sposato) e lo studioso Elemire Zolla (anch’egli già sposato con la poetessa Maria Luisa Spaziani) sostenendo sempre il suo alto pensiero in merito: “Che io non voglia mai chiederti amore” dovrebbe essere il voto reciproco degli amanti, la formula sacramentale delle nozze. È un equilibrio impossibile, ma di che altro l’amore vorrà vivere?
Furono proprio la sua inquietudine e il suo disagio interiore, intriso di quel desiderio di libertà e ribellione anticonformista mai sopito, che spinsero la Campo, comunque cattolica tradizionalista, a legarsi allo scrittore ed esoterista Elémire Zolla (1926-2002) – i cui interessi per la tradizione non combaciavano certo con l’ambito cattolico – e al quale si avvicinò, probabilmente, nel momento in cui cominciò a cercare la bellezza della liturgia nel rito ortodosso. Animata da un grande desiderio di incentivare il mondo cattolico tradizionalista, l’autrice si sforzava di ricevere spesso presso le sue abitazioni di Roma e Firenze i protagonisti e i pensatori dell’epoca, se pur malata e frequentemente allettata, dato il grave scompenso cardiaco che, da lì a poco, avrebbe posto fine alla sua esistenza, quell’orribile nodo, come lei stessa definiva la sua malattia, che la faceva vivere solo nel tempo presente, sospesa nel suo misticismo e lontana dallo scorrere del tempo. Quello stesso tempo che non le sarà riconoscente dato che le sue opere saranno scoperte dai lettori, per la maggior parte, molto dopo la sua morte e saranno ben poche, se pure intrise di una concezione altissima della letteratura. Di lei resterà la sua scrittura non facile, la complessità dei temi e la perfezione del linguaggio, tanto da renderla necessaria lettura per chi voglia immergersi in qualcosa di veramente elevato, per ammirare la vera bellezza di una mente creativa, quasi di una veggente dei due mondi.
Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano (1961-1975)
La forma epistolare è ermeneutica per comprendere molta della letteratura del primo e del secondo novecento, sia che si tratti di biglietti che di veri e propri trattati, e le lettere di questo volume, inviate da Cristina Campo alla poetessa e filosofa spagnola Maria Zambrano, e per le quali non si è trovata nessuna missiva di risposta, ne sono un esempio. Pensandoci bene, tuttavia, la risposta non risulta in nessun modo necessaria: la direzione è chiarissima tanto che la Campo occupa, da sola, le due dimensioni dello spazio epistolare e fa riecheggiare nei testi anche il pensiero dell’amica, in quella Roma di fine anni ’50.
Se tu fossi qui racconta dunque, attraverso la scrittura privata, una relazione di amicizia tra due delle pensatrici più significative del Novecento. Il testo contiene lettere, biglietti, trascrizioni e cartoline della Campo, scritte nel periodo tra il 1961 e il 1975. Le due autrici si erano incontrate a casa di Elena Croce in un salotto di conoscenze comuni, alla fine degli anni Cinquanta a Roma, dove la Zambrano era arrivata con la sorella Araceli esule dalla Spagna franchista. Tra gli ospiti figurava anche Elémire Zolla, compagno di Cristina, che in quel periodo scriveva a sua volta lettere alla Zambrano.
La Campo nelle sue missive parla dell’amica come di una “custode” e trascrive per lei poesie di autori vari, tra i quali quelle del poeta mistico persiano Rumi, di Hofmannsthal, di Borges, di Pasternàk cercando di trovare uno sguardo comune nelle parole lette e condivise. Di lei gioirà per la vicinanza di sentimenti, esprimendosi in questi termini: Sempre silenziosa e sempre vicino a te, mia dolcissima Maria, con un tesoro di parole non scritte chiuso nel cuore per te, con l’immenso desiderio di un’ora di tregua in questa lotta tremenda per scriverle tutte, una per una, per dirti, come in uno stretto, lungo abbraccio, la sua grande tenerezza, la sua profonda ammirazione, il suo augurio di ogni soave bene e per chi ti è caro.
Ma, il rapporto che si creò tra le due autrici fu, ad ogni modo, pienamente libero spaziando da un comune cammino di ricerca spirituale della verità e della bellezza – in due esistenze nelle quali si realizzò, come in pochi altri casi, una convergenza tra la vita vissuta e le opere realizzate – ai racconti della vita reale e alle scoperte quotidiane, financo ai colori, e agli odori che circondavano Cristina, la quale dice, a un certo punto: vorrei mandarti fasci interi di questa menta che è dappertutto intorno alla casa… e ancora ai gatti che entrambe amavano, alle corrispondenze astrologiche, agli amici comuni. L’amicizia, in particolare, era ritenuta dalla Campo un vero prodigio, un dono, una presenza costante se pure nella lontananza, e nella sofferenza fisica che creano spavento e, in tal senso, vanno lette l’attenzione, la cura, l’offerta d’aiuto, l’ammirazione, le riflessioni più personali, nonché l’incoraggiamento e l’esortazione alla perseveranza nella scrittura, da parte della Campo alla Zambrano: Che tu scriva o non scriva, che tu sia triste o allegra, non tornare. Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire. Un libro è come lo Sposo – non dice l’ora del suo arrivo. Ma tu non lasciare la porta e la lampada. Ricorda che me lo hai promesso – e la promessa, deposta nelle mie mani, non era fatta a me.
Con questa raccolta di lettere, cartoline, testi e immagini la curatrice del libro, Maria Pertile, ha voluto raccontare, almeno in parte, questo stupendo rapporto tra Cristina e Maria pur nella consapevolezza che essa non sia completa, che manchi più di un anello di raccordo, prova ne sia il fatto di non aver rinvenuto le lettere di risposta di Maria che, comunque, si riescono ad indovinare, davvero stupende, nelle stesse lettere campiane, laddove immagini, riflessioni, osservazioni, citazioni ci permettono di comprendere la qualità dello spazio di condivisione che, la stessa Pertile, ci indica con due coppie di parole: parola e vita, amore e tempo.
Riportiamo il testo di una breve lettera, alla quale Cristina aggiunge una delle sue poesie più famose:
Natale 1967
Sempre silenziosa e sempre più vicina a te, mia dolcissima Maria, con un tesoro di parole non scritte chiuso nel cuore per te, con l’immenso desiderio di un’ora di tregua in questa lotta tremenda per scriverle tutte, una per una, per dirti, come in uno stretto, lungo abbraccio, la sua grande tenerezza, la sua profonda ammirazione, il suo augurio di ogni soave bene per te e per chi ti è caro.
Così, Maria, la tua
Vittoria
La Tigre Assenza
…………………pro patre et matre
Ahi che la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola,
pure,
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divora la bocca
e la preghiera…[1]
Cinzia Demi
Bologna, 20 dicembre 2023
[1] La poesia verrà pubblicata sulla rivista Conoscenza religiosa, 3, luglio-settembre 1969.
En français, un article intéressant du Cercle Jean-Mermoz: Les Incandescentes : Simone Weil, María Zambrano et Cristina Campo — Entretien avec Élisabeth Bart