Rubrica Un libro Una città. «La donna della domenica» è un romanzo di Fruttero e Lucentini del 1972. Da allora, n’è passato di Po sotto i ponti di Torino. La città operaia dell’automobilismo, con la FIAT, delle colline pullulanti di alta borghesia e finanche aristocrazia con nostalgie savoiarde, è oggi, specie dopo i fasti olimpici, molto cambiata.
Finiti i trionfi regali dei Savoia e finita l’integrazione dei meridionali. Porta Palazzo, le vie del centro, i mercati e mercatini, a cominciare dallo stranoto Balon, sono oggi abitati da nuove emigrazioni, con proprie tradizioni e religioni, etnie diverse e povere che consentono di tenere bassi i prezzi di case e mercanzie rendendo così la città del nord Piemonte una delle più “meridionali” d’Italia. Ma le strade, il gusto architettonico e urbanistico, tra il risorgimentale e il parigino, sono sempre quelle raccontate con la loro grazia, leggerezza ed ironia, dalla celebre coppia di scrittori, amanti della Francia e della loro Italia, come si conviene a dei veri piemontesi come loro. Una Torino nobile e popolare, discreta e laboriosa, che fu descritta magistralmente anche nella trasposizione cinematografica che, del celebre libro, fece nel 1975, Luigi Comencini (recensione del film QUI).
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Torino (da La donna della domenica, Fruttero e Lucentini pagg. 361 e 362 – ed. Mondadori)
L’idea venne al commissario la domenica mattina, un po’ prima delle nove, mentre andava in ufficio a piedi. Aveva già bevuto due caffè, ma la sua mente restava torpida, sfocata. Appena sveglio s’era messo a raccogliere, come dopo una festa finita male, i cocci sparsi dell’inchiesta, e camminando continuava a prenderli e lasciarli ricadere uno dopo l’altro, perduto nella loro spenta equivalenza. Niente gli diceva niente.
A dargli un aiuto nel suo solito modo negativo e circonlocutorio fu forse la città, spopolata e sprangata come in attesa dei barbari. Ma i barbari erano i cittadini stessi, dilagati verso i loro miraggi festivi: e la sistematica disciplina di strade e piazze deserte filtrò forse fino al commissariato e, combinandosi col suo umore, gli accese dentro un senso, una fioca concessione, di affinità.
Altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l’avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e quadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi al pian dij babi, al livello dei rospi. Si ripeté più volte la frase, con una specie di acre compiacimento: sapere e mai dimenticare, di essere al pian dij babi; nient’altro, in fondo pretendeva da te la città, che poi, una volta fatta la burbera tara del creato, stabilito il peso netto tuo e dell’universo, ti spalancava, se volevi profittarne, i suoi infiniti, deliranti spacchi prospettici. Così doveva vivere il Campi, divaricato consapevolmente tra buon senso e una lampeggiante demenza, tra le abnormi frontiere della Fiat e del Cottolengo; cosi, senza dubbio, viveva (se non era il Campi) l’assassino del Garrone e del Rivera, i quali a loro volta cosi erano, inconsapevolmente, vissuti. In questo modo si formò, forse, l’idea; che non era nemmeno un’idea, e non certo un’illuminazione, ma l’accettazione, con una scrollata di spalle, di un vago suggerimento, una scelta spicciola. Tanto valeva, si disse il commissario facendo dietrofront, cominciare da lì.
La casa aveva, come mille altre di Torino, il probo decoro dei poveri vestiti per una cerimonia, dei sudditi meno abbienti e più fedeli e schierati lungo un immenso viale da parata, ad attendere il corteo regale. Ma nessun corteo (era questo l’amaro segreto della città?) veniva mai, sarebbe mai venuto, il percorso era stato modificato all’ultimo momento, il cocchio, le piume, le fanfare, sarebbero sempre passati laggiù, oltre quei tetti, dietro quello spigolo. Dal balcone centrale di ogni piano, in corrispondenza del portone, sporgeva il sostegno arrugginito per esporre la bandiera nei giorni delle feste nazionali; e tra le sbarre di tutte le ringhiere premevano rigogliosi e anonimi fogliami. Accanto al portone c’era un piccolo caffè con le sedie fuori, gemello del caffè di Corso Belgio, e il commissario entrò, si fece dare dieci gettoni per telefonare a Novara, e infilato il primo cercò sull’elenco il numero di Anna Carla e telefonò invece a lei….
La redazione Altritaliani
LINK INTERNO: La donna della domenica, intervista a Fruttolucentini a cura di Marco Rognoni per Altritaliani
La donna della domenica
di Carlo Fruttero – Franco Lucentini
pubblicato da Mondadori (tascabile € 10,50)
Ambientato in una Torino malefica e metafisica, « La donna della domenica » è da molti considerato il capostipite del « giallo italiano ». La trama si snoda tra i vizi, l’ipocrisia, le comiche velleità e gli esilaranti chiacchericci che animano la vita della borghesia piemontese.