Nella medesima notte, quella compresa tra il 24 e il 25 agosto 1957, Virgilio Giotti veniva trasportato d’urgenza all’ospedale e non sarebbe mai più tornato a casa e Umberto Saba moriva. Nello spazio di poche ore, la Poesia perdeva, quasi in una sinistra sincronia, i suoi due maggiori esponenti triestini, aprendosi così a un lutto di cui tanto Trieste, la loro città natale, quanto l’Italia sembravano non comprendere appieno la portata.
L’altezza del loro messaggio, come quella di tutti i grandi poeti, è tale da parlare direttamente al cuore e alla mente di chi ne legge, ne ascolta i versi, forse anche perché ragioni a prima vista meno avvertibili ce li rendono ancora contemporanei. La scelta di Giotti del triestino come lingua della poesia è stato segno di una novità rivoluzionaria.
I nostri amici della rivista « Il Ponte rosso » di Trieste hanno voluto rendere omaggio a questi due grandi poeti emblematici della cultura giuliana del Novecento dedicando loro un lodevole numero che potrete scaricare gratuitamente QUI : Ponterosso Speciale Saba-Giotti 11/2017
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Per voi, ne abbiamo tratto un articolo, …“E della vita il doloroso amore”, a firma di Anna De Simone :
…E DELLA VITA IL DOLOROSO AMORE
Il 25 agosto del 1957, muore a Trieste Umberto Saba. In quello stesso giorno Virgilio Giotti, viene ricoverato d’urgenza all’Ospedale Civile. Sulla città cala una notte senza fine e senza colori. Nessuno oserà mai più le “trite parole” di Saba. L’incanto delle sue poesie morirà con lui. Ma paradossalmente, impigliata tra le maglie dei versi, rimane lei, la “calda vita”, che indossa il rosso scialle di Lina [sua amata moglie]. Saba ha lasciato per qualche ora la clinica per salutarla un’ultima volta. E lo fa durante la funzione civile, leggendo a voce alta in italiano, il “Padre Nostro”. Poi ritorna nella solitudine costruitagli intorno come un muro, dalla malattia, fino al momento in cui lui pure lascerà per sempre Trieste.
Giotti, morirà un mese dopo, il 21 settembre. Solitamente, ogni anno, in quella stagione, comperava al mercato del Ponte Rosso un uccellino e se lo portava a casa, in via Lamarmora, per proteggerlo dal freddo. «Come i suoi compagni degli anni passati, con la primavera riavrà la libertà e avrà insieme da noi un ringraziamento, non inteso da lui, ma che per noi il farglielo sarà stato ugualmente un piacere. Lo comperai e portai a casa ieri. Ci si preparava ad andare a letto. L’uccellino era là nella sua gabbiolina coperta di un panno scuro affinché la luce della lampada non lo disturbasse nel sonno. Dormiva appallottolato. E io dissi: non siamo più due in casa, siamo tre» (Appunti inutili /10 /1955).
Quell’uccellino che non canta sembra voler ricordare a tutti noi la tragica solitudine di Giotti, sui cui versi si chiude la grande stagione della poesia a Trieste. È successo soltanto ieri: Giotti sognava di diventare pittore, la sua giovinezza scorreva senza inciampi; fantasticava di incontrare una ragazza, di chiacchierare con lei, di innamorarsi: «una bona putela, / che za se conossèssimo de tanto, / che de ela, una volta, / mi fussi sta un pocheto inamorado […] El sol tramontaria; / faria za un fià frescheto / lassù a quel’ora; e mi ghe iutaria / meterse su el sacheto; / ghe ingrumaria de tera, / cascà soto la tàvola de piera / su l’erba, el fazzoleto» (Una bela giornada).
Chi ci regalerà, ancora una volta, l’acqua fresca di questi versi, la loro innocenza, la gioia della scoperta: della vita, dell’amore, di una risicata felicità? Tutto questo detto nel modo più semplice possibile, con la naturalezza che è solo di Giotti, del suo dialetto, diventato grazie a lui una miracolosa lingua di poesia, ed è di Saba, che confessa di aver trovato “l’infinito nell’umiltà”. E mai definizione dell’infinito ci è parsa più sconcertante e originale.
Il suo manifesto di poetica, Saba lo consegna a parole consunte dall’uso e a una rima apparentemente facilissima, quasi infantile. Ma quelle “trite parole” contengono la verità della vita. Che si specchia negli occhi celesti della sua bambina. «Di tante parvenze che s’ammirano al mondo, io ben so a quali / posso la mia bambina assomigliare. / Certo alla schiuma, alla marina schiuma / che sull’onde biancheggia, a quella scia / che’esce azzurra dai tetti e il vento sperde; / anche alle nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo; /e ad altre cose leggere e vaganti».
Secondo Claudio Magris «la chiarità leggera [di Saba] che è certo un miracolo della sua lirica, nasce da una profondità tortuosa e torbida, che conosce tutta la gamma del desiderio […] Saba, che ha amato «trite parole» e la rima «fiore-amore», è una delle voci più classiche della poesia del Novecento, ha parlato per tutti, dicendo la malinconia della vita inafferrabile e la grazia della pienezza per un istante raggiunta» (A. Ara e C. Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1982 2, pp. 39, 40).
Un flash : Giotti è seduto in un bar con sua madre, che in realtà è morta da tempo. Parla del più e del meno, ma non osa dirle che i suoi figli, Paolo e Franco, non ci sono più [ambedue persero la vita in Russia durante la seconda guerra mondiale]. È lontana, lontanissima la prima giovinezza. Giotti è un uomo ferito a morte dalla tragedia che lo ha schiantato. E ce lo dice in questa poesia che ci strazia già nel titolo – Co’ mia mama, ma che è uno dei capolavori del Novecento: non c’è una sola parola di troppo; tutto è detto con grande pacatezza, con una calma che ci disorienta:
«Co’ ’sto seren de primavera, in bar, / nel mio sòlito posto, go bevudo / un cafè insieme co’ mia mama vècia, / tornada indrio par mi in ’sto mondo un poco. / Ghe iera el bon odor del cafè bon, / che a ela ghe piaseva bevù in pase. / E ghe go carezzado la man scarma, / averta stanca su la tola; come / prima, ghe go dito quatro parole. / No’ ghe go dito gnente d’i mii fioi / che no’ i xe più». (Con questo sereno di primavera, in bar, / nel mio solito posto, ho bevuto / un caffè insieme con mia mamma vecchia, / tornata indietro per me in questo mondo un poco. / C’era il buon odore del caffè buono, / che a lei piaceva bere in pace. / E le ho accarezzato la mano scarna, / aperta stanca sulla tavola; come / prima le ho detto quattro parole. / Non le ho detto niente dei miei figli / che non ci sono più).
È questo, Giotti: un greco moderno che ha il senso della misura e non conosce eccessi di nessun genere. Il dolore se lo tiene dentro per tutta la vita. Dal dolore sono nate liriche straordinarie; dal dolore è nato il dialogo con i figli (Ai mii fioi morti) e con la madre (Co’ mia mama). Le Fantasie, invece, sono ispirate forse alle fiabe e alle novelle russe, che la moglie di Giotti raccontava ai figli. Se ne sarà ricordato Paolo quando si è trovato davanti all’immensa Russia:
«Davanti ’na zità / piturada sul ziel, / el ga sintù la nina / nana sua de putel. // El ga trovà su’ mama, / sintù ga la su’ rècia / cantà ela de novo. / Ma no’ su’ mama vècia. // Iera su’ mama giòvine, / iera su’ mama bela…» (Davanti a una città / pitturata sul cielo, / lui ha sentito la ninna / nanna sua di bambino. // Ha trovato sua mamma; / le sue orecchie hanno sentito / cantare lei di nuovo. / Ma non sua mamma vecchia. // Era sua mamma giovane, / era sua mamma bella).
Giotti immagina tutto questo, la sua è una fantasia vagamente surreale, un sogno che vorrebbe far dimenticare la durezza della realtà: la guerra, la neve, la morte. Ci sono, poi, nel suo Canzoniere, le grandi poesie sulla casa, nido un tempo sicuro distrutto dalla guerra e dalla morte.
Una in particolare è considerata, a ragione, il suo capolavoro: El Paradiso. La casa reale di via Lamarmora, è ormai il regno di nessuno, ma questo poeta le restituisce la vita, anzi ne fa il poema della vita e della morte. La casa di oggi contiene anche la casa di ieri, della giovinezza in Toscana, e la stagione è una sola, bella e grande, è mattina ed è sera ed è il bel chiaro giorno e il poeta non è vecchio e non è giovane, ma gli pesano addosso centomila anni, come nelle fiabe. Nella casa, attorno a una tavola apparecchiata che diffonde luce, ci sono i suoi figli, Paolo e Franco, scomparsi in Russia. E la Tanda con la sua bambina. E c’è la madre del poeta, “la sèria nona”. Giotti si è costruito così un suo paradiso laico, abitato dai vivi e dai morti. Stanno tutti insieme, e parlano e ridono, e e si guardano in viso: «e in pase se parlemo; / e semo in paradiso».
Poesia surreale, allucinata, meravigliosa, El Paradiso. Come meravigliose sono le poesie di Saba che più amiamo. Sono tante e fanno scorrere sotto i nostri occhi Trieste, che è la sua città, ed è la città di Lina. Perché «fu di Lina / dal rosso scialle il più della mia vita […]. Per l’altezze l’amai del suo dolore; / perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra, / e tutto seppe, e non se stessa, amare».
I giorni scorrono veloci, forse la fine è davvero dietro l’angolo. Ne dànno l’annuncio le rondini e gli stornelli con i loro gridi lungo il viale XX Settembre. L’inverno si avvicina a grandi passi, come il pensiero della morte. Come “il bruno passero” leopardiano. È rimasto lui solo a consolare l’invincibile solitudine del poeta in quella «Trieste ove son tristezze molte, / e bellezza di cielo e di contrada». Quella Trieste dove «s’apre una strana bottega d’antiquario». Quella Trieste dove tante volte Saba ha sognato di vivere la “calda / vita di tutti, d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni”.
Anna De Simone
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Trieste, itinerari di viaggio di Giuseppe A. Samonà