Teatro Festival Valtellina 2013: Premiate « le solitudini nell’Odissea » di Odi a sé.

E’ “ODI A SE’. Soliloqui e pensieri di solitudini nell’Odissea” scritto da Alessandra Merico lo spettacolo vincitore della V edizione del Teatro Festival Valtellina 2013. La pièce, andata in scena nel cortile di palazzo Juvalta a Teglio, provincia di Sondrio, ha visto come protagonisti la stessa Merico, in doppia veste quindi di autrice e attrice, e Giuseppe Zonno. Abbiamo incontrato la giovane scrittrice, poetessa ed interprete.

La giuria, capitanata da Maurizio Gianola, nella suggestiva cornice del territorio valtellinese tra Sondrio e Livigno, dove il festival ha animato, dal 28 luglio al 12 agosto, con i suoi sentieri di arte, teatro e musica, l’estate valtellinese, ha premiato gli attori nel salone dell’oratorio insieme all’anima del Festival, Agnese Bresesti, la quale ha così motivato il meritato riconoscimento: «Proseguendo sulla linea tracciata dalle precedenti edizioni, si intende sottolineare la bravura degli interpreti che si sono cimentati in un testo impegnativo con il piglio tipico dei giovani alla ricerca della loro strada artistica. Riuscire a proporre un’attualizzazione dell’Odissea senza cadere nel ridicolo o nel banale ha dimostrato rispetto per l’autore ed ha messo in luce la potenzialità degli attori».

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[**Intervista alla giovane Alessandra Merico per capire meglio gli intenti e gli scopi di questo lavoro.*]

Evolena.: Buongiorno Alessandra. La prima domanda è d’obbligo. Ci incuriosisce il titolo di questo lavoro: perché “ODI A SE”, perché questo titolo.

Alessandra Merico: Quando si pensa all’Odissea, i primi riferimenti approfonditi nascono in relazione al viaggio, all’ubris, all’amore imperituro, alle peripezie coronate dal lieto fine. Ma una diversa prospettiva può cogliere sfumature impreviste: l’assenza, il mormorio del paese, le macarie (termine dialettale per indicare le magie, le stregonerie), gli inganni, gli incantamenti. Telemaco, Ulisse, Penelope una sorta di sacra famiglia che di sacro ormai non ha più nulla. Sono personaggi estremamente soli: Telemaco, cresciuto in solitudine, con un padre assente e una madre descritta a piangere chiusa nelle sue stanze. Penelope sembra aver perduto ogni speranza, la vita e l’attesa si fanno tutt’uno e non sembra interessata a nulla se non al ricordo del marito mai tornato. Ulisse si è smarrito durante la via del ritorno, ha perduto i compagni, la nave, il suo ruolo da re. E poi sabbia, rabbia, invidia, Dei in un susseguirsi di eventi tra il pettegolezzo e la leggenda, che segnano la profonda solitudine che stagna nei i rapporti umani. Odi a sé è un ode a se stessi, ad ognuno di questi ( e altri) personaggi, che per quanto legati dai fili del destino, si sono persi nel mondo, nel paese, nelle vicoli. E chissà che non ci siano passati affianco almeno una volta. Un’epopea raccontata da fatti quotidiani, dai mass media, da aneddoti che mettono al centro figure bislacche, drammatiche ma divertenti al medesimo tempo.

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E.: Il lavoro teatrale e narrativo si svolge su piani diversi. Uno di questi è il paese, inteso nelle sue voci più diverse, nei suoi protagonisti del quotidiano. Che ruolo hanno queste voci all’interno del significato intrinseco della pièce?

A.M.: Lo spettacolo è stato scritto su tre piani narrativi. Il primo è quello attoriale, all’inizio e in alcuni raccordi gli attori interpretano se stessi, attraverso un prologo e momenti di passaggio da un personaggio all’altro. Tra l’altro essendo io e il mio collega Giuseppe Zonno ad interpretare tutti i ruoli, abbiamo deciso di spettacolarizzare anche i momenti di cambio d’abito e quindi di ruolo. Successivamente c’è il piano del paese, il mormorio, le dicerie, i pettegolezzi. Attraverso una sorta di intervista agli abitanti dell’isola si ha così un excursus su quello che è rimasto della figura di Ulisse agli occhi della gente. Questi aneddoti sono gli unici cimeli che Telemaco conserva di suo padre, un padre quindi “raccontato, più che ricordato” come si dice nello spettacolo. Inoltre il paese è anche il giudizio, ad esempio nei confronti di Penelope, che perde tempo invece di riprendere marito e ridare un re ad Itaca, e che non esita a crederla morta quando una mattina non la vede più affacciata al balcone ad aspettare guardando verso il mare. Il terzo piano è quello intimo, dei personaggi raccontati: i loro pensieri, i loro soliloqui, i loro dialoghi.

E.: Emerge chiaramente nella scrittura e nell’interpretazione l’uso dei dialetti, oltre che della lingua italiana. E’ una modalità che sta prendendo sempre più piede, quasi come a significare un ritorno alle origini del teatro stesso. Qual è, nel tuo caso e soprattutto nell’economia dello spettacolo, il significato attribuito all’uso delle lingue dialettali?

A.M.: Questo spettacolo è un compendio di dialetti, di modi di dire, di formule tipiche del linguaggio parlato, utilizzate nel paese, che lette in forma di copione non sembrano avere alcun merito letterario. Ma a torto. Perché la ricerca delle assonanze, di parole onomatopeiche, del ritmo, della musicalità all’interno delle frasi è stata perseguita in modo accurato e mai banale. Spero. E poi, non è solo una questione stilistica, di forma che mi ha portato a prediligere una versione più popolaresca dell’opera. La precisa scelta di usare, in alcuni momenti dello spettacolo i dialetti (sono diversi quelli utilizzati, tra cui il barese, il livornese, il siciliano e il leccese), mi ha aiutato ad indagare più in profondità nelle diverse biografie immaginarie che ho formulato per la costruzione dei personaggi. Il dialetto mi ha permesso uno scavo più accurato della personalità di ciascuno, e mi ha dato la possibilità di arricchire le sfumature caratteriali dei personaggi, avvicinandoli anche al pubblico, rendendoli più famigliari.

E.: Certo è da notare che la forma dialettale, infatti, non è usata in tutti i contesti. Ci puoi spiegare perché Ulisse, che nel suo monologo di presentazione parla barese, torna aulico, torna ad utilizzare la lingua italiana, in altri momenti, per esempio nel finale, quando rincontra Penelope?

A.M.: Anche questo non è casuale. Il linguaggio famigliare è tipico di un contesto privato, intimo, dove si può parlare senza dover rivestire una maschera, un ruolo sociale. Si parla in dialetto quando si è sicuri di essere protetti, di non fare brutte figure, in casa, con le persone care o da soli. E questo fanno anche i personaggi nello spettacolo, ad esempio Penelope nel suo monologo si lascia andare ad uno sfogo privato, dove il pubblico si fa spettatore silenzioso della sua solitudine, delle sue stravaganze, dei suoi desideri. Ma quando avviene l’incontro tra i due sposi, dopo vent’anni, si parla in dizione, in italiano corretto, perché non c’è più intimità, è un dialogo tra due estranei, entrambi portatori di storie diverse e inconciliabili. Solo Telemaco parla sempre allo stesso modo, con leggera cadenza sicula, perché lui è un essere ancora puro, non ha sovrastrutture, è un ragazzo cresciuto senza un padre che gli insegnasse a stare al mondo, a combattere, o ad utilizzare una maschera.

E.: Sempre pensando all’uso della lingua, risulta singolare la formula prevista nel momento dell’incontro di Ulisse con Circe, dove le due forme si fondono, in un intrecciarsi di barese e italiano. Come mai?

A.M.: Ulisse nello spettacolo non sa cosa aspettarsi da Circe. Sappiamo dall’Odissea, invece, che Mercurio, il messaggero degli Dei, ha incontrato l’eroe sul cammino verso la casa della maga, la quale, senza farsi scrupoli, ha trasformato i suoi compagni in porci. L’eroe, che vuole andare a rivendicare la sorte dei suoi, viene dunque messo in guardia da Mercurio di stare attento alle stregonerie di Circe predicendogli che la maga, una volta scoperta la sua identità, farà di tutto per giacere con lui, al fine di stabilire un rapporto paritario tra loro, creato proprio attraverso l’intimità col nemico. In “Odi a sé ” le cose vanno diversamente. Ulisse entra da eroe nella casa di Circe, sfoggiando dapprima la sua dizione, indispensabile per un ingresso trionfale, ma una volta al cospetto della maga, si lascia andare in un soliloquio dialettale sbruffone e vanesio certo di aver già la maga in pugno, o meglio nel letto. Ma appena si rende conto dell’indifferenza della donna verso il suo fascino da eroe, toccato nell’orgoglio, torna a parlare in italiano. E così via in un susseguirsi di battute fino al totale rovesciamento dei piani di potere: Ulisse si trasforma da capitano della nave a uomo, da eroe a peccatore, fedifrago e assente nei confronti del figlio in una divertente e quanto mai esilarante seduta psichiatrica condotta da Circe.

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E.: Il personaggio di Ulisse prende una nuova veste in questo lavoro. Ci chiediamo chi è davvero e a quale possibile altro personaggio puoi esserti ispirata per costruirlo così come ci appare.

A.M.: Ulisse è l’eroe per antonomasia, si può paragonare quasi ad un semidio, sempre in bilico tra l’Olimpo e la terra, l’unico sopravvissuto anche al volere degli Dei (sappiamo bene che Nettuno non aveva molto in simpatia l’eroe), il vincitore della guerra, il grande condottiero dalle idee geniali (il cavallo di Troia, l’uccisione di Polifemo etc..) . Nella mia versione invece ho voluto sottolineare il carattere più umano, l’ho fatto scendere dal piedistallo su cui Omero l’aveva consacrato per secoli, ma solo per osservarlo meglio. Dapprima come marito. E’ vero, dieci anni di viaggio, soprattutto dopo dieci di guerra, non sono pochi, ed è comprensibile (anche se non encomiabile) che possa scapparci qualche storiella. Ma Ulisse non ha vissuto delle avventurette da una notte e via, qui stiamo parlando di vere e proprie storie parallele durate anni. Sei sicura, Penelope, di riuscire a perdonare il tuo sposo, soprattutto dopo aver pianto per vent’anni conservandoti pura e candida come una fanciulletta? (Nell’Odissea Penelope è ritratta quasi sempre a piangere e a struggersi per suo marito). E poi, dopo tutti questi anni, sarà la stessa persona che hai sposato, o le vicissitudini, il dolore, le vicende della vita e quant’altro hanno inciso, come è normale che sia, anche sulla forma mentis del carattere, della persona? Ma non è solo una questione di fedeltà ma anche di priorità. E se Ulisse avesse provato gusto nello stare sempre in viaggio, sempre in vacanza, vivendo nuove avventure e prolungando così quello stile di vita solitario e spericolato che poco si addice alla figura di un re con famiglia a carico? Domande che vengono poste al pubblico sul finire dello spettacolo.Ora passiamo ad analizzarlo come padre. (…) Fatto. Non c’è nulla da dire, il suo senso paterno non è mai stato sviluppato, è partito troppo presto e tornato troppo tardi, nessuno potrà mai ridargli indietro la paternità. (Forse un’altra gravidanza, come alcune versioni letterarie ci dicono, ma Penelope ha quasi quarant’anni e la fecondazione assistita all’epoca non c’era. Ad ogni modo atteniamoci al testo di Omero). Sotto questa luce l’uomo con i suoi difetti, i suoi peccati e le sue le debolezze non ci sembra più tanto divino, tanto lontano. Come condottiero però l’Odissea è chiara, Ulisse è il più forte, il più abile, tra tutti il più furbo. Ma sarà stato proprio così? Anche l’ultima certezza del valore dell’eroe viene mandata in aria, proponendo una versione di Ulisse senz’altro meno eroica, ma forse più veritiera. Perché della guerra tutti hanno paura, e poi dice in “Odi a se” il prode condottiero: “io ci tenevo alla pelle, che quella una è!” Mi viene in mente una citazione dal film di Brancaleone di Mario Monicelli (personaggio a cui mi sono molto ispirata per Ulisse):

“Sono impuro, bordellatore, insaziabile, beffeggiatore, crapulone, lesto de lengua e di spada. Fuggo la verità e inseguo il vizio.”

Ulisse è così una sorta di capitano della commedia dell’arte, un personaggio pavido e sbruffone, coinvolto sempre in rocambolesche avventure (o disavventure) e in situazioni che richiedono una grinta e intelligenza superiore alle sue facoltà. E nonostante questo se la cava, perché Ulisse è anche fortunato, ha Atena dalla sua parte, dea dell’intelligenza, che nella mia versione parla attraverso Euriloco, uno dei suoi compagni, che suggerisce, senza volerlo, tutte le idee geniali al suo capitano, che ogni volta si salva senza neanche sapere come.

E.: Parliamo invece adesso di Penelope, il personaggio che tu stessa interpreti. Anche lei è molto diversa dalla Penelope originaria, se pure in certe sfumature ritornano la sua forza e il suo sentimento. Come l’hai pensata?

A.M.: Penelope è un personaggio che mi ha sempre molto affascinato. Mi fa venire in mente l’immagine di un’eroina romantica che si strugge in attesa del suo amore. Che poi questo amore sia reale e vissuto, o immaginario e platonico poco importa. Purché sia amore, e purché ci sia fedeltà a questo valore. E’ una donna che non ha nulla a che vedere col corpo, con la carne, con i sensi. E’ un angelo del focolare, sempre chiusa nel suo dolore, raccolta nelle sue stanze a piangere a tormentarsi, anche dopo vent’anni di solitudine. E’ come se il tempo si fosse fermato al momento della partenza del marito, non c’è evoluzione per lei, nessun cambiamento nessuna prospettiva di vita che non sia legata al destino del suo uomo. Io me la sono immaginata vestita di bianco, da sposa, leggera, effimera, ancora ragazza perché non c’è accettazione del dramma in lei, non c’è risoluzione. C’è sofferenza e il perseguimento di un’ideale, e questo mi porta a pensarla ancora giovane.

Ho creato la sua biografia, dapprima me la sono immaginata bambina a saltare la corda con le sue amiche Mina, Etta e Luisa, e a cantare una filastrocca sugli elefanti che si dondolano sul filo della ragnatela (un’immagine che rimanda alla tessitura e quindi alla tela). Una fanciulla spensierata, senza troppe aspettative per il suo futuro e poco interessata alle attenzioni del sesso opposto. Ha una madre molto ingombrante nella mia versione, che le vuole insegnare ad essere una donna da marito così da accaparrarsi lo sposo migliore. E poi c’è l’arrivo di un uomo che la chiede in sposa, ma non uno qualunque, lui è il signore dell’isola, re di Itaca.

Ma Penelope non ama da subito Ulisse, l’innamoramento avviene solo il giorno del suo matrimonio perché di fronte a tutte le dee con i loro vestiti luminescenti e davanti alle più belle mortali dell’isola lei si rende conto che lui aveva scelto lei.
“Chissà sarà forse stata questa profonda riconoscenza o il fisico scultoreo, perché comunque Ulisse era bello, o l’intelligenza, lo charme non so mi fecero crollare, innamorare perdutamente. Sentivo gli elefanti che si dondolavano dentro il mio stomaco.” Penelope dunque dal momento in cui si sente la prescelta decide di consacrare il suo amore a quest’uomo, per sempre. E anche nel lungo periodo di assenza del marito non ha mai un cedimento, lei lo aspetta al balcone in attesa che torni. Il monologo finisce nel momento in cui i Proci invadono la casa e Telemaco, unica gioia per la donna, inizia a preoccuparsi. Ma lei, profeticamente, lo invita a portare loro un messaggio: “digli di andare a morire ammazzati. Capito? Digli proprio così, a mamma!”

E.: Dunque: Penelope rifiuta il marito, Circe lo psicanalizza, il sesso debole si ribella. Le donne – ci sembra di capire – hanno la meglio nell’opera. E’ così?

A.M.: Si, le donne in quest’opera sono il sesso forte. Sia Circe che Penelope rifiutano Ulisse. Parliamo ancora un momento di Penelope: nel momento in cui lei riconosce il suo sposo capisce che non può accettare la realtà, che non può riaverlo al suo fianco, perché lei non è più la donna che ha sposato ma solo quella che ha pianto il marito morto. Lei non lo accetta, perché ormai si è sublimata nel suo ideale romantico, e riavere affianco un uomo vuol dire anche prendere coscienza dei suoi difetti delle sue debolezze ed accettare tutto quello che ha fatto, che poco si confà all’idea che la donna ha dell’amore. Lei ha ancora il vestito da sposa verginale, non ha proseguito alcun tipo di esperienze di vita, è rimasta nell’ambito dello spirito, delle idee. Lui ha vissuto, ha avuto a che fare con la guerra, col viaggio, col sangue, con la morte, con le donne, con la vita. Lei preferisce l’idea di un marito perfetto lontano, piuttosto che un marito “difettoso” al suo fianco.

E.: Di solito non si svela mai il finale di un’opera, è preferibile lasciare lo spettatore con la propria interpretazione ma ti chiediamo di fare un’eccezione e di dirci almeno qualcosa, una piccola nota, quello che puoi, sulla conclusione.

A.M.: Il finale è l’unico compromesso possibile che ho potuto fare col testo originario. D’accordo, gli sposi si ritrovano, la famiglia è ricomposta. Ma solo in apparenza. Non dico altro. Venite a vedere lo spettacolo!

E.: Un’ultima domanda che è d’obbligo per l’intervista e per il pubblico che vorrà seguirti. Quali sono i progetti futuri di “Odi a sé” e naturalmente di Alessandra Merico?

A.M.: Per quanto riguarda questo spettacolo ci sono grossi progetti. Tra pochi mesi uscirà infatti un CD di una mia cara amica di Bologna, non che bravissima cantante, Eloisa Atti, tutto dedicato ai personaggi dell’Odissea. Queste musiche diverranno a breve la colonna sonora di “Odi a sé” e lo spettacolo verrà presto proposto con l’inserimento quindi di musica dal vivo, che verrà interpretata sicuramente, oltre ad Eloisa dal chitarrista Marco Bovi. Stiamo programmando per l’uscita del CD la realizzazione di un videoclip – che verrà girato in Puglia e a Bologna – dove, sotto al testo e alla musica della canzone dedicata a Penelope, io renderò l’eroina visibile con gli abiti di scena della pièce teatrale. Le repliche dello spettacolo sono già previste in alcune città d’Italia – come Bologna, Padova e vari luoghi del Salento – e stiamo ricevendo richieste e contatti continui.

Per quanto riguarda me, oltre all’impegno su questo lavoro, ho molti progetti in cantiere che non posso anticipare per – capite bene – motivi scaramantici. L’unica cosa che posso dirvi è che sono entrata a far parte della nuova compagnia teatrale leccese “Teatri a Sud” di Fredy Franzutti e che presto metteremo in scena, con la regia di Beppe Menegatti un lavoro di Cechov.

Ringraziamo Alessandra Merico per la bella intervista, augurandole grandi successi per il suo impegno artistico che, ci sembra di poter dire, stiano già cominciando ad arrivare.

Evolena per Altritaliani

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Alessandra MERICO nasce a Maglie (Le) nel 1986. All’età di otto anni si trasferisce a Bologna e si diploma al Liceo Classico Internazionale L. Galvani. Nel 2012 si diploma all’ « Accademia Internazionale di Teatro” di Roma, con la quale rappresenta diversi spettacoli per la regia di Fiammetta Bianconi, Marco Paciotti, Silvia Marco Tullio ed Emmanuel Gallot Lavallée. Dal 2007 prende parte a laboratori tenuti da Nathalie Mentha, Ferruccio Di Cori, Jacopo Serafini e Cesare Ronconi. Dal 2007 al 2008 ha frequentato un tirocinio di teatro-terapia nei contesti psichiatrici al Centro Diurno di Villa Lais e a quello di Montesanto a Roma, curati dal docente di Psicoterapia Teatrale dell’Università la Sapienza, Michele Cavallo. Nel 2008, per la manifestazione culturale “ArteinParabita” (direzione artistica di Michele Placido), ha curato il progetto di teatro sociale “Non c’è più religione”, ideato dal docente Michele Cavallo. Nel 2011 va in scena con “Le buffe verità“, uno spettacolo satirico-buffonesco che viene rappresentato in diverse regioni d’Italia. Nel 2012 scrive e interpreta lo spettacolo “Al di là dello specchio fatato” tratto dal libro omonimo di Cinzia Demi al Teatro “San Filippo Neri” di Bologna. Una reinterpretazione in chiave moderna di alcune note fiabe e delle tematiche che si celano dietro ad alcune di esse (la violenza, i problemi familiari, l’incesto). Allo spettacolo hanno partecipato anche i musicisti Marco Bovi ed Eloisa Atti, e l’autrice del libro Cinzia Demi. Successivamente prende parte a “I bellissimi della tv” uno spettacolo di satira televisiva che mette in scena le ipocrisie dei palinsesti televisivi. Nel 2013 scrive ed interpreta lo spettacolo per bambini “Un matrimonio scombinato” tratto dalla celebre commedia “il malato immaginario” di Molière.

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Giuseppe Zonno nasce nel 1985 a Bari, dove nel 2004 si diploma all’I.T.C. “Romanazzi” come ragioniere programmatore. Prosegue i suoi studi all’Università di Bari nella facoltà di Lettere con indirizzo “Cultura Teatrale.” Nel 2004 partecipa alla realizzazione di un fumetto multimediale (soggetto, sceneggiatura, dialoghi e doppiaggio) e prende parte come aiuto regista e cameraman ad un progetto didattico per alunni di “Scuola Primaria in area a rischio” con successiva realizzazione del DVD. Nel 2005 collabora ad un progetto pedagogico di musico-terapia con bambini dai 6 agli 8 anni della Scuola Primaria. Nel 2008 si iscrive all’Accademia di Arte e Musica “Unika” di Bari, dove partecipa alla rielaborazione e al recitato di un cortometraggio dal titolo “Squilli nel Silenzio”, tratto dal racconto “L’inferno” di Juan Josè Millàs a cura di Rocco Capri Chiumarulo; in questa fase prende parte anche a due stage di cinema tenuti da Clarizio Di Ciaula e Pierluigi Ferrandini. Dal 2009 partecipa a diversi spettacoli teatrali, uno dei quali scritto e diretto da se stesso e interpretato insieme al collega e amico Diego Parente, dal titolo “Tre stretti mondi di cose”. Nel 2012 si diploma all’Accademia Internazionale di Teatro “Circo a vapore”, dove rappresenta numerosi spettacoli con la regia di Fiammetta Bianconi, Marco Paciotti, Silvia Marco Tullio. Nel 2011 con Alessandra Merico crea la compagnia “ResArtis Teatro”, con la quale produce uno spettacolo satirico-buffonesco dal titolo “Le buffe verità”, che viene rappresentato in diverse regioni d’Italia.

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Evolena
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s'installe à Paris dans les années '70 et travaille à l'Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d'enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l'Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c'est un virus bienfaisant qu'elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d'Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.

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