“Sul baratro”, un libro di Marina Valensise

Sul baratro. Città, artisti e scrittori d’Europa alla vigilia della seconda guerra mondiale” di Marina Valensise (ed.  Neri Pozza/I Colibrì), un libro per risvegliare le coscienze innanzi ai rischi di nuovi conflitti mondiali, come le tragiche vicende ucraine dimostrano, e ricordare al lettore contemporaneo quanto sia vulnerabile la libertà europea e quanto fragile la civiltà che ne è il fondamento. Una riflessione su un passato non lontano per riuscire a capire meglio, forse, il presente della nostra Europa. Una lettura di Lodovico Luciolli.

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Sul baratro, di Marina Valensise (ed. Neri Pozza/I Colibrì), pagine 218, 19€)

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Marina Valensise da un pò di tempo, con la sua formazione comprendente anche i letterati, intellettuali e artisti dell’Europa dell’Est di prima della 2a guerra mondiale, voleva far conoscere le loro vicissitudini di allora, finché la guerra in Ucraina l’ha sollecitata a farlo con la pubblicazione di “Sul baratro” per risuscitare la coscienza di fronte all’incoscienza dei rischi di dilatazione dei conflitti quando iniziano per rivendicare i territori altrui con le popolazioni presenti o presunte della stessa lingua.

Incoscienza avutasi fino alla Conferenza di Monaco del settembre 1938 poiché, dopo che all’Anschluss della Germania con l’Austria del marzo 1938 non c’era neanche più stata la parvenza di opposizione che Mussolini aveva manifestato fino all’assassinio di Dollfuss nel 1934 e fino ai primi tempi del suo successore Schuschnigg, anche lì nessuno tra Chamberlain e Daladier di fronte a Mussolini e Hitler voleva ammettere che si trattava, con la cessione dei Sudeti dalla Cecoslovacchia alla Germania, anziché della pace salvata (come nelle manifestazioni al rientro dei rispettivi Capi d Governo in Inghilterra, Francia e Italia), del “prologue to tragedy” (dal titolo del libro del 1948 di Wheeler-Bennett).

Se, allora, erano ancora in parte rimasti nebulosi gli stati d’animo a Vienna dopo l’annessione (Stefan Zweig: “ho capito subito che l’Austria era solo una colonia mussoliniana e che tutto sarebbe crollato appena il padrone avesse abbandonato il suo giocattolo”), lo erano confusi nella disperazione (tale per cui Hermann Broch, trasferitosi a 300 km da lì, scriveva che gli abitanti mostravano “quell’indifferenza verso la miseria del mondo fra l’altro tipica dell’austriaco”, e intanto contattava Thomas Mann, Aldous Huxley e Albert Einstein per una mobilitazione in difesa dei diritti umani anche presso la Società delle Nazioni); oppure lo erano dopo che altri scrittori ebrei ne erano partiti: Robert Musil per Zurigo; Franz Werfel (ceco di origine, sospettato pure per l’amicizia con Schuschnigg deposto con l’Anschluss) per Capri insieme alla moglie Alma Schindler (vedova del compositore Gustav Mahler e poi divorziata dall’architetto Walter Gropius), e successivamente per alternarsi tra Parigi e il sud della Francia finché l’occupazione tedesca di questa li aveva costretti a esiliarsi negli USA.

Più distanti apparivano gli stati d’animo a Budapest: almeno quello di Sándor Márai poiché dell’Anschluss era impressionato, più che per la notizia arrivata nella redazione del giornale dove lavorava, per aver visto l’arrivo in automobile di profughi austriaci e solo dopo alcuni anni, riducendo le sue attività spensierate, aveva scritto “volevo tacere”, quasi per giustificare il silenzio di fronte agli avvenimenti fino alle invasioni tedesca e poi sovietica in Ungheria, per cui si esiliava nel 1948: prima in Svizzera e con periodi a Napoli, infine a San Diego in California («L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore», dal suo romanzo “Le braci”).

A Berlino, anche tra l’Anschluss e la Conferenza di Monaco l’opposizione era tra l’altro rappresentata dai dissidenti della Chiesa evangelica, in particolare della Bekennende Kirche, dove il Pastore Dietrich Bonhoeffer era arrestato nel luglio 1938 per essere interrogato dalla Gestapo (suo fratello Klaus e i loro cognati Rüdiger Schleicher e Hans von Dohnanyi avevano fatto parte dell’opposizione fino alla partecipazione dei cognati all’attentato del 1944 contro Hitler, a seguito del quale erano stati giustiziati). D’altra parte Bonhoeffer era stato bandito da Berlino dopo che Himmler, capo della Gestapo, aveva chiuso in Pomerania il suo centro religioso di opposizione al regime (che nel 1933 egli aveva già manifestato alla radio). Nel 1938 era stato ipotizzato anche un rovesciamento di Hitler dall’opposizione interna prima dell’invasione della Cecoslovacchia che, secondo il biografo americano di Bonhoeffer Eric Metaxas, non era avvenuto perché Chamberlain era comparso “improvvisamente nel ruolo di paciere ex machina, come se avesse requisito una mongolfiera per offrire un cortese passaggio a terra a Herr Hitler” (a Berchtesgaden il 15 e a Bad Godesberg il 22 e 23 settembre, dove la “mongolfiera” tra i rispettivi hotels, il Petersberg sulla collina dalla parte opposta del Reno, e il Dreesen su questo fiume, non li aveva tuttavia messi d’accordo). Bonhoeffer, rimprigionato nel 1943 nel carcere di Tegel a Berlino, veniva giustiziato nel 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg, dove così si concludeva anche il dramma denunciato fin dall’inizio da uno dei massimi teologi.

Intanto a Parigi arrivava Ödön von Horváth, nato a Sussak (Fiume), cresciuto a Budapest, Monaco di Baviera, Bratislava, Vienna e Berlino, che perciò affermava: “Ho un passaporto ungherese, ma non ho una patria. Sono un tipo misto della vecchia Austria-Ungheria; contemporaneamente magiaro, croato, tedesco e ceco. Il mio Paese è l’Ungheria e la mia lingua madre è il tedesco”. All’Anschluss egli aveva lasciato Vienna (“in questa atmosfera non riesco a respirare”) come trentasettenne già romanziere e autore di teatro di successo, che aveva vinto il premio Kleist, ossia il maggior premio letterario tedesco. Dopo essere passato per Budapest, la Cecoslovacchia, Fiume, Trieste, Venezia, Milano e Amsterdam quasi alla ricerca d’una nuova identità, a Parigi aveva invece trovato la morte schiacciato da un albero durante un temporale. Era il 1° giugno 1938, ossia quasi due mesi dopo che lo scenario politico interno in Francia dopo il Fronte popolare era cambiato con il ritorno di Daladier al posto di Blum a capo del governo, e tre mesi prima che le fiamme di quello europeo fossero solo nascoste dopo dalla Conferenza di Monaco: “Oggi una morte prematura può significare la salvezza da cose ben peggiori”, aveva affermato l’amico Csokor con cui Horvàth aveva lasciato Vienna.

Affermazione tanto vera quanto per Milena Jesenská era stato il contrario perché erano state invece premature le fasi della sua vita: nata a Praga nel 1896, dopo aver perso la madre a 16 anni d’età e dopo aver sposato l’intellettuale ebreo Ernst Pollak s’era trasferita con lui nel 1918 a Vienna dove, conosciuto Kafka (con cui aveva avuto un cenno di relazione sentimentale), aveva tradotto i primi scritti suoi e di altri scrittori dal tedesco al ceco, e da dove era stata corrispondente di giornali cecoslovacchi. Per questi (compreso “Tempo presente” di Masaryk) aveva continuato a scrivere dopo esser tornata a Praga ed essersi risposata con l‘architetto Jaromír Krejcar il quale, prima di partire per l’URSS per costruire case nel Caucaso per i leaders politici di lì, l’aveva avvicinata al comunismo da cui s’era allontanata nel 1936 dopo l’arrivo delle notizie dei gulag e degli altri orrori di Stalin. Nel 1938 teneva conto della difficile convivenza dei tedeschi e cechi nei Sudeti, ma aveva pure scritto che “avrebbe avuto il suo seguito di campi di concentramento, di uomini cacciati dal loro popolo e dal loro Stato, di cartelli: qui non si vogliono ebrei”. Svanita anche la sua brevissima illusione sulla resistenza dei cecoslovacchi ai tedeschi, e giudicate equivalenti negli orrori le dittature nazista e sovietica, nel 1939 dopo l’invasione dei tedeschi a Praga e dopo tutti i suoi aiuti possibili agli ebrei e agli oppositori, veniva arrestata, inviata al carcere di Dresda e poi nel campo di concentramento di Ravensbrück per morirvi nel 1944.
Aveva, così, subito l’orrore del nazismo e non anche quello di Stalin, che invece Margarete Buber-Neumann aveva subito nel gulag di Karaganda (Kazakistan) dal 1938 al 1940, dopo il suo arresto a Mosca come “compagna socialmente pericolosa” di Heinz Neumann, ex deputato del Partito Comunista della Germania accusato di non esservi stato abbastanza energico, e quindi fucilato. Dai sovietici era stata consegnata ai tedeschi che, come comunista, l’avevano internata a Ravensbrück da dov’era uscita nel 1945 con i ricordi di Milena Jesenska scritti nella sua biografia, prima dell’autobiografia: “Prigioniera di Stalin e Hitler, un mondo nel buio” (1948).

Il mondo non appariva ancora buio a metà agosto del 1939 a Czesław Miłosz, destinatario (da insegnante esule a Berkeley) del premio Nobel per la letteratura nel 1980 (suoi i versi allora trascritti da Solidarność sul monumento a Danzica agli operai morti durante gli scioperi di dieci anni prima), poiché dalla campagna nella Polonia orientale egli scriveva: “la guerra non è ancora cominciata … nessuno crede che ci sarà”. In realtà, più che del rifiuto di crederci, si trattava del suo stato d’animo momentaneo fuori Varsavia (dove lavorava alla Radio polacca) che non gli piaceva (rispetto a Vilnius, allora polacca, dov’era cresciuto), perché i suoi scetticismi erano già sorti nel 1935 al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura a Parigi di fronte a Gide, Malraux, Aragon, Pasternak, Brecht e altri chiamati a denunciare il nazismo. L’affresco “L’Anticristo” di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, visto nel 1937, gli aveva fatto scrivere che la natura è “rivelata da ciò che accade ai lati del quadro”, con i carnefici “inginocchiati sulle vittime” che “strozzano con corde legate a cappio o levano i coltelli per sferrare il colpo”. I lati del quadro potevano allora essere come quelli della Polonia dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939.

A Bucarest intanto il romanziere e commediografo Mihail Sebastian aveva cominciato a scrivere quel Diario (1935-1944) pubblicato nel 2000 di descrizione della dittatura fascista e della persecuzione degli ebrei in Romania, d’importanza non minore di quello di Anna Frank. La lucidità dei suoi scritti si confermava non tanto riguardo ai suoi rapporti con Nae Ionescu (l’intellettuale ambivalente sull’antisemitismo), quanto nella percezione a quella distanza dell’arrivo dei drammi dall’Europa centrale: 1° ottobre 1938: “gli accordi di Monaco non ci mandano in guerra … ma ci preparano dei giorni tremendi”; 20 marzo 1939: entrata di Hitler a Praga: “e intanto Daladier e Chamberlain tengono dei discorsi di protesta”; 11 agosto 1939: “nei prossimi giorni a Danzica ci sarà un colpo … la guerra è possibile sin da questo mese”; 23 agosto: patto Molotov-Ribbentrop: in “due o tre giorni Danzica sarà tedesca”, “la pressione di Hitler si orienterà … su Bucarest … a crollare sarà tutto il sudest europeo”. Tanto Bucarest era ancora piena di vita all’inizio del suo Diario, quanto diventava ancora tetra con l’arrivo dei russi nel 1945, quando egli vi moriva schiacciato da un camion.

La persecuzione d’intellettuali in Russia era nel frattempo già drammatica:
Osip Mandel’štam, nato a Varsavia (allora russa) nel 1891, dopo essersi formato e aver vissuto e viaggiato a San Pietroburgo, Parigi, Heidelberg, Kiev (sposandovi la scrittrice Nadežda Jakovlevna), in Finlandia, Georgia e Armenia, e dopo l’inizio della serie di arresti per le critiche al regime e di condanne al confino o nei campi di concentramento, moriva nel 1938 nel gulag di Vtoraja (Vladivostok), nonostante i tentativi d’interventi per attenuare queste condanne di Pasternak e Bucharin (giustiziato nello stesso anno con l’accusa d’avere da dirigente del partito cospirato contro lo Stato).

Anna Achmatova, dopo che il primo marito Nikolaj Stepanovič Gumilëv era stato fucilato nel 1921 con l’accusa d’aver sobillato la rivolta dei marinai di Kronstadt, nel 1938 subiva a Leningrado uno degli arresti del figlio Lev Nikolaevič Gumilëv per sospetti di attività sovversiva, per cui trascorreva 14 anni nei campi di lavoro prima di essere riabilitato a tal punto da intitolargli l’Università di Astana. Inoltre la sua amica pure poetessa Lidija Korneevna Čukovskaja nel 1938 apprendeva la scomparsa del marito Matvej Petrovič Bronštejn, fisico, dopo la condanna dell’anno precedente a dieci di anni di lavori forzati « senza diritto di corrispondenza”.

Dal suo castello di Stomersee, prima della confisca di questo nel 1940 da parte dei russi, Alexandra von Wolff, psicoanalista, scriveva al marito a Palermo Giuseppe Tomasi di Lampedusa d’aver diagnosticato come paziente un agente del governo sovietico che trovava “ammirevole di votare milioni di persone alla morte per arrivare a cambiare la psicologia del popolo”. I russi, i tedeschi e poi ancora i russi con l’occupazione della Lettonia ispiravano allora ne “Il Gattopardo” la frase del Principe di Salina: “chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”?

Mentre, allora, il contagio delle barbarie si aggravava ovunque arrivavano i cannoni, facevano in tempo a fuggire da queste:
Freud, trasferito da Vienna (poco dopo l’Anschuss) a Londra nel 1938, più dalle convinzioni dei suoi entourages che da quelle sue, un pò perché la psicanalisi restava al di sopra della vista dei primi orrori del 1938, un pò perché a 82 anni d’età sapeva d’essere vicino alla sua fine, avvenuta l’anno successivo.

Toscanini, che nel 1938 rifiutava di dirigere il festival di Salisburgo occupata dai tedeschi (dalle sue lettere alla violinista Mainardi Colleoni: “i delinquenti che governano i popoli sono al di sotto di ogni possibile bassa immaginazione”; “Mussolini”, da quando aveva voltato le spalle a Dollfuss, è “ancora al di sotto di quello che l’ho giudicato”). Nel 1933 aveva lasciato la Direzione del Festival di Bayreuth dopo l’arrivo al potere di Hitler nonostante, dalla sua lettera al Führer, il suo “profondo piacere nel consacrare … qualcosa a un genio come Wagner” che ama “infinitamente”. Nel 1936 aveva diretto gratuitamente la nuova orchestra in Palestina creata dal violinista ebreo Huberman e scritto ancora a Mainardi Colleoni: nella “terra dei miracoli … tra qualche tempo gli Ebrei dovranno ringraziare Hitler di averli obbligati a lasciare la Germania”. Nel 1938 infine, prima di trasferirsi negli USA fino al 1946, al nuovo festival di Lucerna da lui diretto aveva rifiutato di stringere la mano a Maria José di Savoia.

Moravia: dopo l’uccisione nel 1937 a Parigi dei fratelli Rosselli (figli della sorella di suo padre) e il manifesto della razza nel 1938, non era maggiormente perseguitato di prima sia per la fama sia perché le sue relazioni con gli ambienti di Malaparte e Ciano e altri del regime (dopo quella con l’editore Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, che gli aveva pubblicato “Gli indifferenti”, tra l’altro apprezzato da Margherita Sarfatti come critica della decadenza borghese) non erano inferiori a quelle con Pannunzio, Soldati, Chiaromonte (esule a Parigi), Prezzolini (Direttore della Casa d’Italia a New York) e altri nomi meno o non identificabili con i fascisti. Aveva tuttavia scritto a Mussolini: “Io ebreo non sonoÈ vero che mio padre” (Pincherle, ebreo veneziano) “è israelita; ma mia madre” (che aveva fatto cambiare il cognome dei figli) “è di sangue puro e di religione cattolica, si chiama infatti Teresa De Marsanich ed è la sorella del vostro sottosegretario alle comunicazioni”. Poi si rifugiava a Capri insieme a Elsa Morante, e ancora nel 1939 ad Atene per scrivervi “La mascherata”.

In conclusione, anche le descrizioni finali di Marina Valensise della notizia dell’Anschluss appresa dal poeta inglese W.H. Auden insieme all’amico scrittore inglese Christopher Isherwood ad Hankou, in piena guerra sino-giapponese (“era come vedere il mondo alla rovescia”), e di quella della Conferenza di Monaco appresa alla Victoria Station di Londra di ritorno da Bruxelles (titolo dei giornali: “la drammatica mossa di pace di Monaco”) valgono come monito non meno dei rispettivi quadri di Kokoschka esposti fino al 12 febbraio scorso al “Musée d’Art Moderne” a Parigi: nei quali, rispettivamente, Alice ossia l’Austria trovandosi nuda nel Paese delle meraviglie non poteva che difendere con la mano la propria intimità davanti agli uomini che si coprivano gli occhi durante l’invasione; e Mussolini ormai appariva come una marionetta davanti a Hitler isterico, al tavolo delle trattative sul quale l’uovo rosso già rappresentava l’arrivo dell’incendio a Praga riportato sullo sfondo.

Monito che, tenendo conto di tutti gli intellettuali presi in considerazione da Marina Valensise, fa da lezione a quelli che oggi predicano il pacifismo ignorando il 1938.

Lodovico Luciolli

L’AUTRICE : Marina Valensise – Laureata in Letteratura francese presso l’Università La Sapienza di Roma nel 1980, ha conseguito a Parigi il Diplôme de Doctorat presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. È stata borsista della Fondazione Luigi Einaudi, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Maître de conférence all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, ha insegnato all’Università di Reggio Calabria ed è stata “visiting scholar” all’Università di Chicago. Nel 1992-94 ha lavorato con il Ministro per i Beni Culturali Alberto Ronchey. Nel 2012-16 è stata Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi (QUI un’intervista Altritaliani). Ha pubblicato, tra l’altro: nel 2007: “Sarkozy, la lezione francese” (ed. Mondadori), nel 2016: “La cultura è come la marmellata, promuovere il patrimonio italiano con le imprese” (ed. Marsilio). Ha vinto nel 2013 il “premio Mondello” con il libro “Il sole sorge a sud” (ed. Marsilio). Scrive di arte, cultura e libri su vari giornali e riviste tra cui «Il Foglio», «Il Messaggero», «Sette» e Panorama».

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Lodovico Luciolli
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2 Commentaires

  1. Grazie Lodo!
    È una carrellata meravigliosa di storia, arte e politica che tocca i tasti più profondi della riflessione sulla natura dell’essere umano e delle sue azioni più o meno edificanti di un futuro di pace o di violenza. Tutti gli autori interpellati hanno saputo incidere sulle coscienze mentre tutti i politici nominati hanno saputo esprimere la parte più deleteria e delirante dell’essere umano quando è rapito dalla sindrome di onnipotenza.
    Grazie l’ho letto d’un fiato ma lo rileggerò ancora più volte perché hai saputo comporre un puzzle del secolo breve attraverso il riassunto del profilo di personaggi che evidentemente Marina Valensise aveva esplorato cercando un appiglio per non cadere di nuovo in questo Baratro che si sta aprendo sempre più minaccioso sotto i nostri piedi.
    Prof. Romeo Ciminello

  2. Dopo una riflessione così ampia a partire dalle pagine di Valensise mi sarei aspettato una conclusione che riaffermasse l’importanza della pace. Vi si legge invece un inno alla guerra contro i cattivi del mondo, o quelli che a noi sembrano i cattivi. Curioso.

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