In quel meraviglioso libro che è “La lingua salvata” di Elias Canetti, c’è un lontano ricordo d’infanzia. In quella città sul Danubio in cui “in un solo giorno si potevano sentire sette od otto lingue”, un vicino di casa si avvicina al piccolo Elias e gli dice: mostrami la lingua che te la taglio. Il bambino apre la bocca. Il vicino sorride, non procede al supplizio.
Quando, più di venti anni fa, sono venuto a vivere a Parigi, ho avuto, per un po’ di tempo, paura di perdere la mia lingua, di allontanarmene. Difficile parlarne con qualcuno. I pragmatici-efficientisti sorridevano: parli già bene il francese, non sarà certo un ostacolo! (Ma non era quello il punto: sostituire una lingua a un’altra, significa forse guadagnare un mondo, ma anche perderne un altro. Il proprio). I casi più acuti di cretinismo modernista sentenziavano: ma l’italiano è una lingua provinciale, a cosa ti serve? Semmai è l’inglese, la lingua globale. Qualcuno invece sorrideva e non parlava: segno di silente comprensione. Lawrence d’Arabia diceva: chi parla più lingue, perde la sua anima.
Un giorno quel temuto colpo di forbice si materializzò in un barattolo. Lo guardavo, e nella mia mente quella verdura sott’aceto corrispondeva a una parola: cornichons. Ma in italiano? Come cavolo si dice? Secondi di panico. Poi la parola riemerse. Cetrioli, o cetriolini. Che felicità, riafferrare il cetriolo! (Astenersi spiritosoni e perditempo). C’era un senso, in quella storia apparentemente insensata: il taglio della lingua di cui parla Canetti è, come è ovvio, una castrazione. Il cetriolo è assimilabile a un (modesto) simbolo fallico. Il lapsus e il successivo recupero (lingua perduta, lingua salvata) non potevano quindi materializzarsi che davanti a una cosa di quel genere.
Quelle due lingue sorelle, francese e italiano, per un breve tempo rivali, in competizione sullo stesso spazio, hanno poi imparato a convivere. Per me il francese è divenuto un confortevole rifugio, anche grazie alla sua caratteristica onirica di mormorio in cui alle labbra, per parlare, è richiesto di socchiudersi così poco. La lingua italiana ha invece acquisito una maggiore acutezza, come se una distanza dal loro uso quotidiano desse alle parole un nitore particolare, in cui ogni cosa è illuminata dalle vocali e dal fluttuare degli accenti, da quell’alternanza tra parole piane, sdrucciole, e tronche che suscita nei francesi, quando ascoltano l’italiano, l’impressione del canto. In quel senso anche io, come Elias Canetti bambino, sono sfuggito alle forbici a cui avevo spalancato la bocca. Ma in questi vent’anni ho avuto l’impressione che il linguaggio, sia in Italia sia in Francia (immagino anche altrove) si sia fortemente impoverito. Il vocabolario Zanichelli contrassegna, con un piccolo fiore, tremila parole che stanno scomparendo per mancanza d’uso. Parole desuete (ecco, appunto, uno di quei termini).
Se dite a qualcuno di non adombrarsi, è probabile che non capisca e si incupisca. Se rimproverate qualcuno per la sua spocchia, probabilmente non servirà aiutarsi con i sinonimi albagia, alterigia, altezzosità, boria; passerete per un presuntuoso. Ho usato con qualcuno (in Italia) la parola contumelie. Mi ha guardato come se avessi pronunciato un’ingiuria. Inutile chiedere ai vostri interlocutori se sono avvezzi; a certe parole non sono più abituati. E se usate il termine icastico vi diranno di parlare in modo più incisivo ed efficace. Senza parlare dell’incredibile, insopportabile provincialismo italiano che porta a usare parole inglesi, per darsi delle arie, e spesso a sproposito, al posto dei termini italiani.
Quanto al francese, la caduta della ricchezza lessicale è almeno altrettanto vertiginosa. Molte conversazioni sono fatte quasi esclusivamente di “en fait” e “du coup”. Espressioni che hanno quasi perduto il loro significato originale (“in realtà”, e “di conseguenza”) per diventare tic linguistici. Secondo il giornale Le Figaro, “du coup” ha sostituito nella lingua orale “puisque», «étant donné que», «en raison de», «dans la mesure où», «en revanche», «cependant», «néanmoins», «d’autre part», «bien que», «en admettant que», «à condition que», «dans le but de», «afin de», «en vue de”, e l’elenco potrebbe continuare. Per non parlare della terrificante trinità “truc-bidule-machin” (cosa-aggeggio-marchingegno), adesso forse leggermente in declino (per grazia del Signore), che per anni ha sostituito la maggior parte dei termini (come fu in Italia con la parola “coso”, a volte usata anche per le persone: “ho parlato con coso”…).
La lingua (ogni lingua) è un mondo. E quando le parole si riducono, e il nostro parlare diventa ripetizione di poche frasi fatte, è il mondo a ridursi a poca cosa o niente. Umberto Galimberti dice che i ragazzi italiani oggi conoscono e usano circa 300 parole. Un ragazzo delle scuole medie negli anni Settanta, secondo il linguista Tullio de Mauro, ne conosceva circa 1600. La mia lingua forse si è salvata, come quella (quelle) di Elias Canetti. Ma forse le nostre lingue, nel frattempo, si sono perdute: siamo rimasti (letteralmente) senza parole.
Maurizio Puppo
Madame Obert di parole ne conosce tante, ne insegna tante e sa aprirti tanti mondi.
Delle « Lezioni americane » di Calvino ho un meraviglioso ricordo, quello della « nuance », della sfumatura del primo termine analizzato.
La leggerezza contrario di pesantezza.
Fino ad allora per me unicamente sinonimo di frivolezza.
….impariamo a librarci. ( che, per chi avesse un vocabolario di 300 parole vorrei precisare, non significa prendersi un libro….pur se magari sarebbe un ottima « traduzione »
Grazie per questo testo stimolante! Da francese che ha imparato l’italiano (anche se i miei nonni erano italiani, ma non parlavano mai italiano perché bisognava « s’intégrer »), sono orgogliosa di conoscere tutte le parole « désuètes » che ha usato M. Puppo!! Segno che i miei insegnanti sono stati bravi!! Calvino sviluppava quest’idea della lingua impoverita nel capitolo Esattezza delle Lezioni americane e parlava di « peste del linguaggio ».