Silvio Zangarini, classe 1981, è un fotografo professionista, un artista italiano che vive a Groningen (Paesi Bassi). Ha conseguito una laurea in Filosofia Estetica presso l’ateneo di Torino. Ci siamo conosciuti diversi mesi fa in libreria, alla presentazione del mio ultimo romanzo, e adesso ci incontriamo di nuovo per una chiacchierata al campus dell’università di scienze applicate dove insegno comunicazione e giornalismo.
È mattina inoltrata, proprio l’ora del caffè. Troviamo un bar che ci promette un Segrafredo estratto con una Cimbali e proviamo a fidarci. Noi due, entrambi italiani, entrambi residenti in una città del nord Europa. Faccio una battuta sulla lamentela più comune tra gli italiani all’estero: nessuno al di fuori della nostra penisola riesce a preparare un espresso decente.
«Io mi sento Europeo» dice Silvio Zangarini, quasi a voler allontanare da sé ogni sospetto di celato campanilismo che la mia battuta potrebbe generare. Da Torino, dopo la laurea, si è spostato prima in Danimarca e poi in Olanda. Viaggia molto per lavoro: « La scorsa settimana – mi dice – ero in Spagna e Portogallo, a completare finalmente un progetto al quale lavoro da tempo, intitolato Stunning Stairways ».
Gli faccio notare che stair e stare, rispettivamente scala e sguardo, in inglese sono omofoni. Giocando con le parole, come piace fare a me, gli dico che la traduzione italiana del suo progetto potrebbe suonare qualcosa come le vie dello sguardo stupendo.
«Lo sguardo osserva e modifica» mi dice, riallacciandosi subito alla mia battuta. «Lo sguardo muta e fa mutare l’oggetto osservato. È il mio modo di entrare in dialogo con un determinato luogo, o con l’architetto che lo ha progettato. Si tratta di un dialogo che arricchisce il luogo, in questo caso le scale all’interno di un edificio, con nuovi elementi che emergono dalla sua ricostruzione fotografica».
Silvio non avrebbe potuto trovare un espressione più calzante: ricostruzione. La sua poetica è tesa a ricostruisce la realtà, a renderla nuova, diversa. La sua fotografia reinterpreta ciò che lo spettatore potrebbe osservare dal vivo. Per esempio – osservo – le linee rette vengono piegate, imponendo loro la dolcezza delle curve.
«Si tratta di una deformazione curvilinea dettata dalla proiezione di una sfera su un piano. Quello per me rappresenta il passaggio dalla razionalità della linea retta alla fantasia della linea curva». E infatti Silvio mi confessa che il suo lavoro di artista è tutto permeato di piacevolezza e di tendenze che valorizzano il fantasioso; non c’è nulla di frustrante, eccetto forse il senso per il limite, a volte imposto dall’inquadratura, che però viene scavalcato da una sapiente ricostruzione di montaggio in post produzione. L’immagine finale si espande e travalica i confini che le sarebbero stati assegnati se Silvio si fosse limitato, di fatto, a cogliere solo quello che è possibile guardare dal mirino della sua reflex. E invece no, lui amplia, espande, costruisce.
Ecco che torna di nuovo vivido il concetto di ricostruzione. Impossibile non pensare alle correnti estetiche del passato, alle teorie filosofiche vicine al Decostruzionismo e alla vertigine scaturita dall’infinità di interpretazioni soggettive di un testo estetico.
«Reinterpretare significa ricostruire» ribadisce Zangarini. «Dapprima c’è l’azione, l’ispirazione, la sperimentazione; solo successivamente arriva la comprensione, la rivelazione, l’epifania. A volte torno sulle mie fotografie e scopro elementi che non avevo considerato prima». Insomma, la fotografia diventa un mezzo di comprensione, illuminazione e persino di autoanalisi, che invita a – o rende possibile – cogliere il noumeno di kantiana memoria. Dietro a ogni fotografia, dunque, ci deve essere un concetto, un concetto che forse non si è ancora capito, ma che è certamente nascosto tra le pieghe della realtà fotografata, suscettibile di una ricerca ermeneutica, anche da parte del fotografo stesso.
Mi sbilancio e cito Blow-up di Antonioni, che ha per protagonista un fotografo il quale inconsapevolmente e accidentalmente scatta un’istantanea a un assassino nell’atto di compiere il delitto. Il mio interlocutore annuisce soddisfatto, come a mostrarsi d’accordo.
«Si tratta di inconscio tecnologico» continua Zangarini, consapevole dei prestiti teoretici dai quali attinge a piene mani, dando sempre credito ai rispettivi ideatori ma non rinunciando a piegare tali spunti filosofici per assecondare le proprie esigenze artistiche. «La macchina fotografica fa tutto, ha una potenza e una capacità di portarti da qualche parte che tu, fotografo, non vedi ancora ma che comprenderai dopo». E così Franco Vaccari viene rievocato per l’idea di una tecnologia dotata di moti indipendenti assimilabili all’idea di inconscio (tema trattato da Zangarini nella sua tesi di laurea), Kant viene tirato in ballo per la dicotomia tra fenomeno e noumeno, Heidegger per il rapporto tra fenomenologia ed ermeneutica e, come vedremo più avanti, persino Pirandello viene chiamato in causa per il problema della rappresentazione dell’identità.
«Il progetto sulle scale è più metafisico rispetto ad altri lavori, perché concerne la percezione dello spazio ma anche la ricostruzione di più movimenti. Quello che vede lo spettatore, infatti, non è altro che un insieme di immagini diverse, scattate da angolazioni diverse, spostando fisicamente la macchina fotografica, e che poi io ho messo insieme. Qualcuno mi ha fatto notare come questo processo somigli alla memoria: quando osserviamo un oggetto, un paesaggio, un monumento, lo facciamo guardando in più direzioni, registrando mentalmente una serie di immagini, in principio distinte, che poi colleghiamo tra loro. Il ricordo è una ricostruzione mentale di movimenti e immagini, e in questo somiglia al modo in cui ho concepito le Stunning Stairways».
Molto suggestiva, infine, è la riflessione circa il significato metaforico di queste scale. Esse, mostrandosi in forma elicoidale, e snodandosi nell’interiorità di meravigliosi palazzi europei, conservano le unicità artistico-architettoniche dei rispettivi edifici che le ospitano e al contempo, grazie alla loro somiglianza con la doppia elica di Watson&Ckick, rimano visivamente con la famigerata struttura del DNA che tutti abbiamo imparato a riconoscere durante le lezioni di biologia.
«Mi piace pensare a queste spirali – conclude Zangarini – come l’intimo codice culturale di ciascun luogo che ho fotografato e, nel loro insieme, come un catalogo genetico della cultura architettonica europea».
Le Stunning Stairways sono il progetto più recente e forse più ambizioso, perché ha richiesto molto tempo, energie e risorse. Tuttavia, Silvio Zangarini ha lavorato anche ad altri progetti molto interessanti, a cominciare da quello dei Deserti di pietra, un viaggio per le principali piazze italiane fotografate di notte, quando in giro non c’è anima viva. Da piazza del Duomo di Milano a piazza Navona, da piazza della Signoria al Campo di Siena, e poi Genova e Torino, Venezia e Napoli, la Puglia e la Sicilia, giù fino a Catania.
La tecnica è quella della fotografia panoramica, che ancora una volta piega le proiezioni architettoniche rette trasformandole in morbide curvilinee. L’esposizione finale è affidata a una sorta di composizione, di foto separate che ritraggono degli spazi contigui e che contiguamente vengono poi disposti sulla parete per essere ammirati.
Gli chiedo allora perché solo piazze italiane.
«La piazza – spiega Zangarini – così come la intendiamo noi italiani, è qualcosa di puramente mediterraneo. È il cuore pulsante della vita cittadina, dove l’incontro tra persone segna quel senso di progresso civico che abbiamo ricevuto in eredità dal forum romano. Le piazze nordeuropee sono più pragmatiche, più inclini al commercio, all’esposizione e allo scambio di mercanzie piuttosto che allo scambio di idee».
Il fatto che Silvio abbia voluto fotografare queste piazze di notte, completamente deserte, è una scelta motivata da una specifica volontà: quella di denunciarne la recente tendenza allo svuotamento. È un fenomeno che osserva da anni, e lo dice senza nascondere una certa amarezza. La funzione di incontro e socializzazione che un tempo ricopriva la piazza, specialmente nella società italiana ma non solo, va progressivamente scomparendo, e si tratta di un processo che la tecnologia sta contribuendo ad accelerare.
«Le piazze vuote sono il luogo dell’inconscio per eccellenza» dice Silvio. «Le ho fotografate come se fossero la quinta teatrale che fa da sfondo agli incontri che non ci sono più. Siamo alla crisi della società, alle piazze ridotte a nonluogo, invase da masse di turisti e disseminate di marchi tipici della globalizzazione, come McDonalds, che le rendono tutte simili e omologate».
A fare da contraltare a questa serie sullo svuotamento delle piazze c’è un progetto intitolato Perfect Crimes. Se le piazze vuote o – per dirla con Marc Augé – ridotte a nonluogo sono il simbolo di un diverso socializzare spinto dalla possibilità di incontrarsi in luoghi virtuali, con Perfect Crimes la distrazione tecnologica raggiunge il proprio apice: televisori e computer assorbono completamente l’attenzione delle persone ritratte, mentre un velo di plastica (essenzialmente uguale a quelli usati in certe fiction televisive alla Dexter, per non disperdere nell’ambiente le tracce del delitto) avvolgono la realtà fisica, i mobili, gli oggetti veri e reali.
«Gli schermi dei computer, dei televisori e dei telefonini sono i simulacri di ciò che ormai cattura davvero l’attenzione della gente» spiega Silvio, puntando il dito e l’obiettivo alla frammentazione delle relazioni sociali e alla perdita di contatto con la realtà, ormai relegata al di sotto di un velo di plastica come nella scena del crimine.
In questa serie l’arredamento e gli elementi interni dell’architettura sono presenti ma non dominanti. Compaiono invece, per la prima volta, persone e personaggi, ritratti nel loro quotidiano e schizofrenico distacco dalla realtà. Obietto che la plastica è trasparente e lascia ancora intravedere quella realtà sommersa, per cui c`è ancora speranza che a qualcuno, attratto dalle ombre sottostanti, venga voglia di togliere questo velo, di “svelare” nuovamente l’essenza più autentica delle cose. In questo, leggerei senz’altro la tendenza di fondo all’ottimismo.
Anche se in Perfect Crimes le persone compaiono pur restando assorbite dai marchingegni che generano distrazione, per trovare dei veri e propri ritratti dobbiamo passare agli Eutopia Portraits, altro progetto fotografico di Zangarini, che affida alla tridimensionalità l’intento di rivelare la psicologia e le sfaccettature caratteriali del soggetto ritratto.
«Ho voluto creare più dinamismo grazie a dei bassorilievi geometrici che spezzino le linee dei volti ritratti per ricomporle in modo da lasciare allo spettatore la possibilità di osservarle da molteplici punti di vista» mi dice Silvio. In questo modo l’individualità è frammentata e multiforme, o meglio ancora “multipla” e complessa, come potrebbe essere per un personaggio di Pirandello, che è singolo e moltitudine al tempo stesso.
Quando la nostra chiacchierata termina, è trascorsa più di un’ora. Il tempo è passato così in fretta che ci è sembrato davvero appena il tempo di un caffè. Succede, a volte, che una conversazione ti rapisca e ti avvolga, come il vortice che abbraccia queste misteriose e spettacolari fotografie, lasciando che i pensieri si avviluppino al pari dei corrimani, le decorazioni abbelliscano le riflessioni e i lampi ti investano con un guizzo di luce, una luce simile quella che taglia obliquamente certi androni e pianerottoli, inspiegabilmente, senza capire da dove arrivi e perché renda l’atmosfera così speciale.
Giuseppe Raudino
SITO UFFICIALE DI SILVIO ZANGARINI con numerose altre foto dei suoi diversi progetti.