Sanremo or not Sanremo?

Febbraio. La pillola di Puppo.

Sanremo or not Sanremo? Nel 1983 (40 anni fa), ragazzino, per la prima volta scelsi di dire sì. Decisi di seguire quel festival della canzone italiana che, fino ad allora, avevo sempre considerato ringard, come dicono i francesi; cioè pacchiano, antiquato, scadente. Non alla TV, però; alla radio. Complice l’incanto dello strumento radiofonico, fu una scoperta bellissima. Certo, in quel festival c’erano (come sempre è stato e sempre sarà) tante canzoni orrende. Ma anche qualcos’altro.

Ad esempio, c’era un tipo strano, fuori di testa, che con voce da ubriaco cantava una cosa così: “voglio una vita spericolata, voglio una vita come quelle dei film”. Era Vasco Rossi. Non mi sono mai appassionato al suo repertorio, ma quella canzone (premiata dal penultimo posto) era formidabile. E portava in sé i segni del tempo. (Così come Nel blu dipinto di blu di Modugno, che tutti conoscono come Volare, nel 1958 aveva raccontato un’epoca, aprendo la stagione del Miracolo economico). Vasco, con Vita spericolata, incarnava quel ribellismo che, nella transizione agli anni Ottanta, e attraverso la strada maledetta dell’eroina (comparsa attorno al 1977), aveva perduto ogni sua carica utopica, politica. Vasco era la riedizione italiana, trent’anni dopo, del James Dean di Rebel without a cause (in Italia Gioventù bruciata, in Francia La fureur de vivre). Come Dean aveva incarnato, negli anni Cinquanta, l’antagonista non ancora politicizzato (il ribelle senza una causa, appunto), così Vasco, con i suoi occhi liquidi e persi, era il ribelle non più politicizzato. Quello che aveva perduto la sua causa lungo le strade che non portano più a niente.

Oltre a Vasco, c’erano i Matia Bazar con la loro formidabile cantante, Antonella Ruggiero, una voce prodigiosa e infinita; e una canzone-simbolo della loro new wave estetica, Vacanze romane. Qualcosa di mai sentito nella storia della musica italiana, al tempo stesso classico e clamorosamente moderno.

Ma la più grande sorpresa, per me, fu una canzone meravigliosa, fortemente poetica e del tutto inaspettata, in ascolto qui: 1950, di Amedeo Minghi. Minghi era l’anti-cantautore per eccellenza. Musicista sofisticato, a differenza di certi cantautori, che rivendicavano ideologicamente la loro approssimativa preparazione musicale.  Un´aria da commesso viaggiatore che incontra l´amante in un motel fuori città. Tutto in lui era sorriso imbarazzato, fiori finti, odore di lozione per la barba comprata al supermercato, coppia clandestina che pranza al ristorante dove si mangia bene, spendendo non molto, e timorosa di farsi beccare in flagrante. Minghi incarnava un´adorabile Italia di provincia, sorpresa dalla modernità e dall´opaco, polveroso, traslucido benessere degli anni Ottanta. Impossibile non amarlo, e non amare la protagonista della canzone, Serenella:  Serenella ti porto al mare, ti porto via.

Nessuna di queste canzoni vinse il Festival, ma il Festival vinse me. E così da allora lo seguii, sempre con un ansioso desiderio in me:  trovare (dietro il melassoso rimare sanremese di parole tronche, mio amor, e quelle arie simil-pucciniane destinate a scomparire subito) il gioiello, il guizzo inaspettato, il fiore da cogliere nel fango.

Negli anni successivi rividi Minghi in coppia con una brava e bellissima cantante, Mietta, in una geniale rivisitazione del farfallone amoroso mozartiano: il trottolino amoroso (du-du-da-da) della canzone “Vattene amore”. (Mio barbaro invasore). Quella canzone fu disprezzata da molti, perché considerata contraria agli stereotipi “impegnati” dell´industria culturale (quelli delle canzoni “profonde”). E invece era un gioco geniale di un grande poeta, Pasquale Panella. Che avrei ritrovato, ancora qualche anno dopo, in un passaggio indimenticabile di una (modesta) canzone di Gianni Morandi: vedo ad occhi chiusi / dove fare dolci abusi / e dei soprusi a te. François Truffaut faceva dire a Fanny Ardant, nel film La Femme d’à côté, che le canzoni “plus elles sont bêtes, plus elles sont vraies”. Più sono stupide, più sono vere. È proprio così.

Le canzoni raccontano la nostra vita, anche (se non soprattutto) quando sembrano sciocche. Perché proprio nella loro semplicità apparente colgono qualcosa che è in noi, nell’aria. Della “cattiva” musica (virgolette d’obbligo) Marcel Proust diceva: “elle s’est peu à peu remplie du rêve et des larmes des hommes. (…) Sa place, nulle dans l’histoire de l’art, est immense dans l’histoire sentimentale des sociétés”.

Ho voluto bene a Sanremo, alle sue canzoni a volte belle e a volte (molto più spesso) no. Sanremo ha segnato la mia vita, anche se da anni ormai non lo seguo più. Ma credo che chi sbandiera il suo disinteresse, chi ostenta una presunta superiorità gridando “boicottiamo Sanremo” o altre sciocchezze del genere, sbagli. E sia, come diceva una poesia di Cardarelli, un fanciullo che si duole di essere cresciuto. Fate come volete. Io, per intanto, e per sempre, vedo ad occhi chiusi dove fare dolci abusi e bei soprusi a te: e la radio trasmetterà questa canzone che ho pensato per te (Serenella, ti porto al mare ti porto via). C’è tutto quello per cui vale la pena di vivere, in queste parole che mi ha portato quella dolce sciocchezza che è Sanremo: tenere gli occhi chiusi, ascoltare la radio, e soprattutto trovare una Serenella da portare al mare, portare via.

Maurizio Puppo

SITO UFFICIALE DEL FESTIVAL DI SAN REMO – Dal 7 al 11 febbraio 2023

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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