Quello che proprio non pensavo mai di fare nella vita, era scrivere su un piccolo paese pugliese, quale è San Cesario di Lecce. Pochi chilometri lo separano dal capoluogo salentino, ben più splendente di ricchezze architettoniche, risonante delle grida che i putti di tufo lanciano, dalle facciate di chiese e palazzi, alle rondini che letteralmente affollano le piazze insieme ai passanti.
Non c’è che dire: San Cesario è più dimesso della vicina regina del Barocco, nonostante il suo bel Palazzo ducale e quei piccoli gioielli che sono le chiese cinquecentesche di S. Elia e di S. Rocco, o la chiesa di S. Giovanni Evangelista, con i suoi affreschi bizantineggianti.
A ben vedere, poi, anche questo satellite di Lecce ha una sua storia di tutto rispetto: le origini risalgono addirittura ai tempi di Roma repubblicana e il suo nome è legato ovviamente a Cesare Augusto. In quel tempo remoto, soggiogate le antiche popolazioni locali, Lecce era un castrum romano e, come di norma, attirava neo-residenti civili che costruivano ville e servizi, fino ad allestire veri e propri villaggi. Ed ecco Cesareo, toponimo di scarsa fantasia ma chiare intenzioni.
Poi, fortuna volle che in epoca cristiana non ci fosse bisogno di cambiare troppo il nome del dedicatario: era lì, bello e pronto, uno dei tanti martiri nella cui storia far confluire tutto il passato e si chiamava Cesario.
In epoca medievale, il borgo di San Cesario divenne feudo della potente famiglia Orsini-Del Balzo e in seguito degli Acaya (di cui abbiamo già avuto occasione di parlare su queste pagine. Vedi QUI), dei Condò, dei Bonsecolo, degli spagnoli napoletani Vaaz D’Andrada e infine dei Marulli, che ne detennero il potere fino all’abolizione della feudalità nel 1806.
Ma la storia di cui voglio parlarvi si sposta molto in avanti nel tempo e s’intreccia con la mia. Il che non è una buona premessa, capisco. Sono arrivata a San Cesario nel 1976 e non ne ero per niente contenta: tanta voglia di fuggire, da subito. Eppure, mica la vita mi aveva regalato fino a quel tempo chissà quale esperienza di apertura e cosmopolitismo! Anzi, il perimetro del luogo abitato fino a quel momento, Bari, tutto sommato non era molto più grande delle mura di casa, dilatate solo dalla mia immaginazione infantile. A San Cesario, invece, essendo ormai in età per muovere qualche passo in autonomia, camminavo per le stradine del paese, frequentavo qualche coetaneo. Di fatto, immergendomi sempre di più nella mia timidezza.
C’è una poesia di un autore che amo (ve ne parlerò più in là, mi auguro), Vittorio Bodini, che così recita: Tu non conosci il Sud, le case di calce/da cui uscivamo al sole come numeri/dalla faccia d’un dado.
Ecco, così in certi pomeriggi canicolari io vedevo uscire le donne dalle case nel sole abbacinante, le braccia allungate per trattenermi un momento e chiedermi conferma di chi fossi (ma già ne sapevano molto più di me!). Così vedevo quando Uomini con camicie silenziose fanno un nodo al fazzoletto / per ricordarsi del cuore (ancora Bodini!) e non credevo l’avrebbero mai trovato: mal sopportavo i loro occhi che scrutavano il mio cammino con l’impudenza di chi comincia a tessere un pettegolezzo.
Avevo ancora molto da scoprire e accadde osservando un vecchio solitario: massa di capelli candidi sotto un cappellaccio nero e gambe infaticabili che spingevano i pedali di una bicicletta sgangherata. Su e giù per le vie del paese e lungo i cinque chilometri che separano il paese dal centro città a Lecce. Testa sempre bassa. Di tutti i numeri sulle facce del dado, quello era il numero uno, solo, solitario. O accompagnato al massimo dai commenti boriosi e supponenti dei compaesani, dagli scherzi impietosi delle bande di ragazzini.
Il vecchio si chiamava Ezechiele Leandro e aveva un volto da profeta (nemo profeta in patria!). E la sua casa era l’unica, ai miei occhi, che non fosse – di fatto o percettivamente – di calce bruciante. La sua casa, in via Cerundolo, era un mondo a parte, che attirava e respingeva allo stesso tempo. Chi era quell’epigono dell’Art brut, quel sacerdote dell’Objet trouvé, quel dislocato esponente del New dada? Tutti termini che ho imparato molto dopo… a quel tempo bastava chiedersi: chi è quel matto?
Sulle pareti esterne dell’edificio anonimo che era la sua abitazione, si snodavano formelle dipinte a colori diversi, una basilica d’Assisi rivoltata e ridipinta da un barbaro, dove frammenti di piastrelle, di vetro, di conchiglie, di sassi, erano riuniti in mosaici dal sapore arcaico e primitivo, ospitavano figure di omuncoli e mostri sospesi in storie surreali, in processioni rituali, in atti osceni. Il giardino ospitava una foresta di sculture: figure incrostate di materiali diversi, eserciti di pietra disseppelliti da chissà quale epoca remota di violenza e di guerra, dolmen modellati dalla mano di un selvaggio abituato a orizzonti più sconfinati. Insieme, regnava un’immobile atmosfera da deposito di rottami, che confondeva. Ezechiele stesso viveva come un mendicante.
Ero stupita e affascinata (non m’interessavo dello studio dell’arte, a quel tempo). Io non sapevo chi fosse ma nessuno sembrava saperlo allora e questa ignoranza paesana veniva riempita solo dallo sberleffo e da un rigetto senza appello.
Ho amato quell’uomo senza avere mai il coraggio di avvicinarlo troppo. Qualche sguardo da lontano, come si fa al Sud. Lui era con ogni evidenza un “forestiero”, forse ancora più profondamente di me: un vero outsider, un artista autodidatta e mai consacrato come tale nella sua terra, se non a distanza di molti anni dalla morte e con fin troppo compiacimento (e il modo ancor m’offende, avrebbe detto Dante, uno dei suoi autori preferiti). La sua mancanza di formazione avrebbe creato, intorno a lui e suo malgrado, il topos del talento inascoltato.
Ma Leandro, trattato da mentecatto, non era privo di intelligenza; mancante di una solida cultura artistica, era ricco della sua immaginazione e sapeva rispondere ai suoi compaesani. Li riconosceva per quello che erano davvero, quando gli sfregiavano le statue e la casa: degli invidiosi, impotenti, perché quanto distruggevano lui avrebbe rifatto per cento.
Meglio che con le parole, Leandro reagiva con realizzazioni imponenti che ancora luccicano (in tutto o in parte) sotto quel bellissimo cielo: il Santuario della Pazienza (che oggi necessiterebbe di urgenti interventi di restauro), la Divina Commedia, il Giudizio universale, La musica, sono sculture/architetture fatte per accumulazioni successive di materiali eterogenei (dalla creta ai copertoni, e poi legno, ferro, cocci, ossa e tutto quanto si poteva trovare), concrezioni che danno vita a personaggi affollati, o schierati di fronte a non si sa cosa, facce pietrose e fiabesche di musici coi loro veri strumenti, pupazzi, folletti, monaci, maschi e femmine dell’universo umano che Leandro chiamava “ridotto”, ossia di scarto. Era lui che recuperava quello scarto (quanto fosse materiale e quanto fosse culturale, affettivo, mentale, lui certo lo sapeva) e lo ricreava in opera d’arte, con profonda consapevolezza e oserei dire scelta stilistica, in maniera incessante, quasi maniacale. Aveva così “restituito” tutto il paese e forse fatto ai suoi concittadini il dono più odiato: metterli di fronte a se stessi.
Oggi la sua casa è diventata un museo ma non per questo sfugge all’incuria. A Ezechiele è dedicata una pagina wikipedia, numerosi articoli, immagini, video di e su lui circolano nel web, una retrospettiva a Palazzo ducale gli è stata dedicata nel 2014. Basterà a restituirgli quanto gli dobbiamo?
San Cesario per me: una malferma ma infaticabile ruota di bicicletta, inseguendo la quale ho scoperto l’arte. Altro che Duchamp.
Anna Maria Panzera
(pubblicato nel 2014 e aggiornato)
Link: http://www.artribune.com/arti-visive/2018/07/santuario-della-pazienza-ezechiele-leandro/