Fosse ancora tra di noi, oggi, 29 Giugno 2020, di anni ne avrebbe 91. Ma morì che nel aveva 77, nel 2006, per un cancro ai polmoni. Fiorentina, già a quattordici anni dimostrò di avere coraggio da vendere quando, abbracciata la lotta partigiana, portava le bombe a mano nascondendole tra la lattuga che teneva in un cesto…
Lei è Oriana Fallaci, giornalista e scrittrice che seppe trasformare poi quel coraggio nella sua cifra professionale più alta, inserendolo tra le qualità che meglio l’hanno caratterizzata. Di lei e della sua carriera si sa tutto e di come sia riuscita a scrivere pagine indimenticabili di un giornalismo purtroppo scomparso. Scrivere in maniera comoda non era da lei che amava essere in prima linea. Inviata di guerra, ha trascorso varie fasi della sua vita andando sui fronti più rischiosi (il Vietnam su tutti), rischiando la vita più volte come nel « massacro di Tiateloco » a Città del Messico dove vennero uccisi centinaia di giovani e lei finì per essere mitragliata dalla polizia.
Scrittura di frontiera, ma anche personale quella della Fallaci che molto ha raccontato di se stessa e della sua travagliata vicenda legata in particolare a due libri che l’hanno resa famosa in tutto il mondo: « Lettera ad un bambino mai nato » (storia dell’attesa del suo bambino ed il conseguente aborto) e « Un uomo » (storia di Alexandros Panagulis poeta e rivoluzionario greco con cui ebbe una importante relazione sentimentale). Ha intervistato i più potenti capi del mondo, ma pure attori considerati lunatici e geniali (Orson Welles), sempre però con l’intento di offrire ai lettori una lettura che fosse anche un’indagine psicologica. Fedele al suo personale ateismo, ha potuto ugualmente intrecciare relazioni con alti prelati. Dell’allora cardinale Ratzinger (futuro papa Benedetto XVI) ricorda la sua posizione che fu quella di non convincerla mai sulla validità dell’annuncio evangelico.
Ma di un’intervista in particolare vi voglio parlare, forse perché, tra le tante, ha ancora il pregio di riportarci ad un tempo dove esistevano rivoluzioni e nuovi profeti. Fatta il 26 settembre del 1979, è una di quelle che la resero famosa in tutto il mondo, dove la lente d’ingrandimento dell’opinione pubblica, anche internazionale, le attribuì riconoscimenti importanti. Un’intervista che riporta subito l’immagine di un paese, l’Iran, dove l’ayatollah Khomeini, capo indiscusso della « rivoluzione islamica » era onnipresente. Lei fu la prima donna occidentale ad ottenere un’intervista con un capo islamico; dovette sottostare ad una serie di minute e obbligate osservanze prima di potersi presentare davanti a lui. Ultimo ostacolo fu il chador, da indossare obbligatoriamente. La Fallaci commentò nell’intervista: « Lo usano tutte e sembrano sciami di pipistrelli umiliati« . L’intervista, fin dalle prime parole, evidenzia la contraddizione di un popolo che, passato dalla dittatura dello Scià (Reza Palevi) a quella di un ayatollah (Khomeini) definitosi profeta di Maometto, vive sempre dentro ad un inganno. Il colloquio, fin dalle sue fasi iniziali, è tutto teso a dimostrare la forza della rivoluzione, ma assume anche la caratteristica di una lotta fra gatto (Khomeini) e topo (Fallaci). La giornalista, da par suo, aveva preparato tutta una serie di domande e si accorge subito che queste sono state eluse o travisate e le risposte dell’ayatollah la indispettiscono. Lei, si sa, è donna tenace e non demorde. Tira fuori il coraggio che stava lì sotto al chador, s’infuria, vuole che le domande siano riformulate. Pensa di essere presa in giro. Allora si rivolge lei stessa a Khomeini prima in francese, poi in inglese. Khomeini, per nulla impressionato dalle veementi parole della giornalista, fa allontanare uno degli interpreti.
Tutto il tempo dell’intervista sembra uno scontro tra Oriente e Occidente. La Fallaci insisté molto sul concetto di libertà negata al popolo iraniano. Khomeini invece fa appello all’unica arma che possiede: il Corano, la legge di Maometto, sufficiente a dare tutta la libertà di cui il suo popolo ha bisogno. Il colloquio prosegue su toni che vorrebbero essere concilianti, ma si trasformano in atti di accusa che la giornalista rivolge con sempre maggiore insistenza. Lui ha sempre gli occhi abbassati sul tappeto dove lei è seduta, ma non la degnerà di uno sguardo. Lei ormai sente che la sicurezza di Khomeini sta per sfaldarsi e lo incalza ancora. Per lei la rivoluzione islamica è una forma di moderno fascismo. Lui fa finta di non capire e risponde in modo evasivo. Poi lei ritorna sui diritti maltrattati delle donne e sul quel chador, vestito che immobilizza la donna nei suoi movimenti quotidiani. Secca la risposta di Khomeini: « Questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene« , scrive la Fallaci. «Poi rise. Una risata chioccia. Da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero a uno a uno i bruti con la barba, sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che mi avevano ferito in tutti quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un modo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via Crucis di Maria Vergine che cerca con Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretta a firmare un matrimonio in scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. « Grazie signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. L’accontento su due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo« . E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero».
Chi vorrà rileggersi l’intera intervista lo potrà fare trovandola QUI. Ne riceverà un’impressione enorme.
Massimo Rosin
(Nel logo, Fallaci in Iran with Abolhassan Banisadr, the Islamic Republic’s first prime minister, in 1979)