Tra pochi giorni sarebbe iniziato Il Giro d’Italia, la kermesse ciclistica più amata dagli italiani che, a causa del Covid 19, è stata rinviata, per la prima volta nella sua lunga storia, in autunno. In attesa, pubblichiamo, per ricordarne lo spirito poetico che tante illustri penne ha ispirato, uno scritto di Raffaello De Masi, detto Lello, recentemente scomparso, che, in queste pagine, ci dipinge un pezzo della provincia italiana, precisamente l’Irpinia in Campania, nel sud Italia.
Tutta l’attesa e la partecipazione festosa ed emozionata di persone e personaggi che per una volta erano sotto le luci della ribalta del grande evento. Si, perché è così, al giro di Italia sono di certo protagonisti Coppi, Bartali, Moser, Saronni, Pantani, ma diciamoci la verità, la prima protagonista è proprio lei, la provincia italiana che è un po’ il cuore della nostra cultura. Buona lettura.
Passa d’un fiato, un racconto di Lello De Masi
“Andiamo alla nazionale, giù ad Arcella, e.. quale pranzo? Meglio prima, perché a mangiare un boccone c’è sempre tempo e non si può sbagliare per mezz’ora un appuntamento così. La corsa arriverà presto. Il tracciato è breve e con l’altura di Montevergine non si scherza”, commentò Daniele sfilando dall’ascella destra, nel mazzo dei giornali, il Corriere dello Sport e aprendolo proprio alla pagina con i profili della gara con altimetrie, tempi e percorrenze.” Non si scherza, oggi. Non si può sbagliare. La giornata è bella e senza umidità. Sarà guerra da subito e, se il giornale dice che passeranno a quest’ora, così sarà certamente”, continuò il titolare del bar Picone del centro della piazza che sovrasta la valle. “I treni, gli autobus, e le corse non aspettano”, concluse, “meglio che aspettiamo noi. E Pantani, o lo vedete adesso o mai.”
Daniele, da dietro al bancone, arringava gli avventori tra un cornetto e un caffè, con un’agitazione e ampi gesti delle braccia, mai visti; come Torriani a mezzo busto, smanicato e nell’aria, agitato sul tettuccio dell’ammiraglia, inossidabile direttore d’orchestra e della corsa.
Era il Giro, un avvenimento che si aspettava ogni anno, anzi, ogni sei o sette anni, quando aveva la fortuna di passare per la nazionale, lì, e ci si poteva mettere a sedere sulla proda, o, i più fortunati, su un paracarro. Il Giro, una parola magica, che evocava ricordi da bambino, quando passare lì era un appuntamento regolare, annuale, prima che interessi di campanile lottassero in una guerra tra poveri, tra paese e paese, per avere il privilegio del passaggio. Non come una volta, diceva sempre Gabriele, quando ogni anno il Giro passava per Atripalda (in provincia di Avellino), le scuole chiudevano prima, tutti a casa, ragazzi, tanto, è quasi la fine dell’anno scolastico, quello che è fatto è fatto, chi è dentro si godrà una estate spensierata, ma in fondo anche i bocciati, dopo qualche giorno di penitenza…
Ecco, il Giro passava per via Roma, verso le due, assolata nel pomeriggio già caldo di fine maggio, con i negozi tutti ancora chiusi, tranne il bar Mauro, con le sue due porte, ad accogliere i passanti in attesa con un caffè o un bicchiere di Spuma Rosa, spillato direttamente dalla bottiglia con l’etichetta arancione.
Mauro ogni tanto, con il suo lungo grembiule bianco tutto macchiato e che odorava di cioccolato e cannella, si affacciava a guardare, per l’occasione aveva concesso uno sconto sulle consumazioni, in diretta concorrenza con il bar Italia e il bar Sport, che avevano il vantaggio di un ampio spazio davanti, e che, per l’occasione, avevano arricchito di ombrelloni e sedie, tirati fuori dallo sgabuzzino e utili per la festa del patrono.
Arrivava prima qualche macchina, da sopra, a lunghi intervalli, e mi sono sempre chiesto chi rincorressero, così di fretta, perché non restassero lì, vicino al gruppo o ai primi in testa. Perché tanta premura? Poi le macchine e le moto, sempre di più, e si capiva che stava per giungere il gruppo, dal vociare delle persone che si erano messi in curva, per vedere quelli che arrivavano e che si allontanavano. Noi, al balcone, si mangiava fave e, quando andava bene, si beveva un aranciata, la San Pellegrino, con la stella rossa e la bottiglietta a pera, zigrinata, con i tappi che poi conservavamo per il nostro “Giro d’Italia”, quello da strada, un vecchio gioco, che nessuno ricorda più. Si tracciava un percorso col gesso sul marciapiede, con varie tappe e traguardi, e occorreva seguirlo con i tips, con piccoli lanci , i tappi di bottiglietta ripiegati, lanciati con un colpo di pollice.
Ed ecco lì, in fondo, dalla curva della piazza, le auto dei capitani di squadra, con le biciclette rovesciate sui serragli, a testa in giù come cani disposti a giocare. E subito dopo I primi, incitati a gran voce dagli spettatori. Qualcuno svuotava loro addosso una bottiglietta d’acqua, qualcuno li afferrava per il sellino per spingerli, e ragazzi vocianti gareggiavano con loro per qualche secondo, di corsa. E poi il gruppo, sgranato per la strettezza della strada, un lampo di baleni e colori, anche se poi ognuno giurava di averci visto i grandi, Coppi, Magni, De Filippis e poi via via quelli che li avevano seguiti negli anni. Con i soliti noti, Sabino, Vittorio, Pinuccio “o zenghere”, con i secchi d’acqua da rovesciare addosso ai più provati, nell’illusione di dare loro conforto. Via, in un lampo, quasi si vergognassero di passare per questo povero, sconosciuto paese di provincia, dei dell’Olimpo avvezzi alla fatica e alla gara, pronti a ricordare a lungo i piccoli fasti, e a dimenticare presto i grandi fallimenti.
Poi, di colpo, il silenzio, la strada diventa improvvisamente di nuovo vuota, nel sole di prima estate. È durato qualche minuto, non di più. Solo qualche ragazzino ritardatario per strada, che scruta a terra cercando qualche cioccolatino o qualche minuscolo tubetto di dentifricio lanciato da una macchina mascherata a carnevale con le sigle di questo o quel prodotto. E, sopra ogni cosa, questo silenzio, interrotto da qualche moto o macchina in ritardo, forse di fine tappa, chissà perché sempre a distanza di qualche minuto, quasi a raccogliere qualche corridore collabente. Mauro ritorna sul marciapiede, con il suo camice tutto macchiato, profumato di cannella e vaniglia, e guarda. Scuote la testa, e dopo un momento non c’è più. La piccola folla, svanita; tornano in scena il sole, limpido, di metà maggio e un cielo blu inchiostro.
Per la strada, “è rimasto solo un bambino, che ad occhi aperti sogna ancora che..…”, come canta Lucio Battisti.
Lello De Masi