In occasione delle celebrazioni della Resistenza che culmineranno il 25 aprile, abbiamo offerto una libera tribuna a chi voglia intervenire sul tema resistenza, intellettuali e cultura italiana. Ci auguriamo diversi punti di vista su un tema controverso e discusso ma fondamentale per capire l’evoluzione della cultura nel Bel paese a partire dalla seconda metà del novecento e i rapporti che si sono creati con il potere e la politica. Scriveteci e partecipate.
Negli anni che seguirono la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista, storici, romanzieri, poeti e pittori, molti dei quali avevano vissuto in prima persona l’esperienza partigiana, sentirono l’esigenza di narrare, utilizzando ognuno il proprio linguaggio artistico, la Resistenza. La loro libertà di espressione cozzò immediatamente sia contro i «detrattori della Resistenza» sia contro, come scrisse Italo Calvino, i «sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata». Gli artisti e gli intellettuali che avvertirono questa urgenza espressiva, diventarono, spesso senza rendersene conto, dei “sorvegliati speciali”.
«Avevo già scritto 22 capitoli dei 30 previsti dall’impianto del romanzo e sarei stato in grado di consegnarle il manoscritto “tra non molti giorni”, (…) D’improvviso ho cambiato idea e linea. Mi saltò in mente una nuova storia, individuale, un intreccio romantico, non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra. Mi appassionò immediatamente e ancora mi appassiona».
Questi poche righe estratte da una lettera che Beppe Fenoglio scrisse all’editore Livio Garzanti l’8 marzo del 1960, rendono bene l’immagine dello scrittore alla ricerca inesausta di una propria cifra poetica che possa rappresentare la Resistenza. E questo nonostante siano trascorsi ben quindici anni dalla guerra civile che insanguinò l’Italia dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1943, e oltre.
L’esigenza di far riemergere la memoria della Resistenza attraverso il filtro della poetica è indubbiamente “una questione privata”. Altra cosa è scrivere per affermare un’ideologia o peggio per ragioni scientemente propagandistiche. La soggettivazione artistica della realtà pone immediatamente gli artisti del secondo dopoguerra di fronte alla cultura che in quel periodo storico, semplificando, si dibatte tra due correnti che si contendono l’egemonia culturale. Sempre semplificando, nell’Italia del dopoguerra l’egemonia culturale, era contesa tra cattolici e comunisti: Peppone e Don Camillo.
La vulgata cattolica, istruita da Pio XII, in pochi mesi aveva trasformato i resistenti da eroi a banditi. Questa gravissima distorsione storica dell’immagine dei partigiani, e quindi dell’immagine della Resistenza, ha inizio con l’attribuzione delle responsabilità morali dell’attacco – uno degli innumerevoli portati a segno dai GAP romani – di Via Rasella e del conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine. Il giorno dopo il massacro, avvenuto solo 21 ore dopo l’attacco dei GAP, come ricorda Alessandro Sportelli nel suo saggio storico L’ordine è stato eseguito, l’Osservatore Romano, organo ufficiale del Vaticano, riportando il comunicato tedesco, aggiungeva un comunicato che iniziava così: «Di fronte a simili fatti ogni animo onesto rimane profondamente addolorato in nome dell’umanità, e dei sentimenti cristiani. Trentadue vittime da una parte; trecentoventi (gli assassinati nelle Fosse Ardeatine, N.d.R.) persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’estero dall’altra (…) Al di fuori, al di sopra della contesa (…) invochiamo dagli irresponsabili il rispetto della vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai; il rispetto per l’innocenza, che ne resta fatalmente vittima; dai responsabili la coscienza di questa loro responsabilità, verso se stessi, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà.»
Il messaggio è chiaro: gli irresponsabili sono i partigiani; le vittime i soldati tedeschi; i 355 civili assassinati alle Fosse sono stati sacrificati a causa dei «colpevoli sfuggiti all’estero». Le palesi menzogne, sempre riconfermate, contenute in questo comunicato che addossa tutta responsabilità ai GAP, “colpevoli”, “irresponsabili”, di aver “sacrificato 335 persone”, saranno la matrice con la quale verrà confezionata la demonizzazione della Resistenza da parte della Chiesa cattolica e dal suo braccio secolare: la Democrazia cristiana. Scrive Paolo Spriano nel suo libro 1946-1956 – Le passioni di un decennio: «Già i benpensanti, con il 1946-47, parlavano dei partigiani come dei delinquenti».
Sull’altro fronte una certa apologetica togliattiana e comunista, in barba alle altre forze che avevano combattuto contro i nazifascisti, si era impadronita totalmente della Resistenza, santificandola, creando il martirologio, e naturalmente pretendendo non solo dagli intellettuali iscritti al Pci ma anche – come scrive Mirella Serri nel suo libro I profeti disarmati – dai “compagni di strada” pronti a marciare a fianco dei militanti con falce e martello pur di acquisire le stellette di “uomini di qualità”, un’agiografia che la glorificasse seguendo gli stilemi del realismo sovietico.
Ovviamente queste sono generalizzazioni dovute a ragioni di spazio. In realtà la storia dello scontro per la leadership culturale è molto complessa e se non se ne vedono più le fiamme è solo perché rimangono nascoste in forma di brace sotto la spessa coltre di cenere del “pensiero debole” infiltratasi nella cultura di sinistra.
Nei primi dieci-quindici anni, lo scontro diretto tra la segreteria del Pci e gli intellettuali, anche di provata fede comunista come Calvino, che volevano rappresentare la Resistenza emancipandosi da ideologie e dogmatismi del partito per seguire le leggi della propria identità umana ed artistica, fu complessa, lunga e straziante. Nel 1960, in una testimonianza autobiografica riportata nel libro di Spriano citato, Calvino scriveva: «A secondo della situazione psicologica in cui mi trovavo la linea unitaria e legalitaria del partito, i discorsi di Togliatti che mi accadeva di leggere in fogli ciclostilati mi parevano ora la sola parola di calma saggezza nel generale estremismo, ora qualcosa di incomprensibile e lontano, fuori della realtà di sangue e furore in cui ci trovavamo immersi».
La “guerra fredda”, destinata a durare fino alla caduta del muro di Berlino, aveva creato due blocchi contrapposti e, per quanto riguarda i risvolti umani, le battaglie che si svolgevano sul piano culturale erano devastanti. Il nemico esterno diveniva un pretesto per combattere i “nemici interni”, cioè coloro che si rifiutavano di allinearsi. L’America col maccartismo e l’unione sovietica con le purghe staliniane attaccavano gli intellettuali che volevano mantenere una propria autonomia di giudizio da esprimere nelle loro opere. I casi di Pasternak, a cui venne impedito di pubblicare il Il dottor Živago, e di Charlie Chaplin espulso dagli Stati Uniti, sono emblematici.
Nei paesi dell’Europa occidentale, che volenti o nolenti appartenevano al Patto atlantico, la battaglia per la supremazia culturale tra i propugnatori del pensiero cristiano-liberista e i marxisti assumeva forme meno cruente dal punto di vista fisico ma altrettanto sanguinarie dal punto di vista ideologico-culturale. Tra le due fazioni non c’era una terra di mezzo, e il corpo a corpo era ineludibile, si doveva scegliere se stare da una parte o dall’altra della barricata.
Come ricorda Paolo Spriano, nel discorso natalizio del 1946 Pio XII, che pur di contrastare il comunismo come il suo predecessore aveva sostenuto il nazifascismo,
(Papa Pio XI nel 1937 con la enciclica Divini Redemptoris aveva bollato il Comunismo come il male peggiore) esclama in Piazza San Pietro: «O con Cristo o contro Cristo».
«Pio XII – scrive Spriano, negli anni del dopoguerra – vive un anticomunismo dalle forme quasi ossessive».
Dall’altra parte il Pci, dopo la svolta di Salerno che di fatto legittimava i Patti lateranensi tra Mussolini e Stato vaticano del 1929, lascia agli intellettuali di trincea, come quelli che operano nel Politecnico, il compito di fare una cultura di vera opposizione anticlericale contro coloro che vengono definiti senza mezze misure clerical-fascisti.
Gli echi della “guerra fredda” irrigidivano i rapporti e creavano due fronti contrapposti escludendo ogni possibilità di vie culturali alternative. La lotta per accaparrarsi le menti pensanti da imprigionare nella propria gabbia culturale, fu estenuate. Coloro che non si schieravano, pochi lo fecero, venivano spazzati via e diventavano “invisibili”.
Questo fu il clima soffocante in cui dovettero operare gli intellettuali italiani che avevano scelto di narrare la Resistenza attraverso la propria poetica fatta di immagini visive e parlanti: da una parte c’era la cultura cattolica schierata col capitalismo, che emetteva le sue censure attraverso il Santo Uffizio attraverso i sui strumenti, primo tra i quali l’Index librorum prohibitorum, dall’altra il Pci che esigeva dagli intellettuali forme artistiche ideali, che ricordavano molto le forme perfette, eterne, immutabili ed incorruttibili che Platone, inventore del totalitarismo, aveva collocato negli inaccessibili intermundia.
Il romanzo della Resistenza : memoria e pedagogia
«Cominciava appena allora il tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare “l’eroe positivo” , di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria.» così scriveva Italo Calvino nella prefazione del 1964 al suo romanzo I sentieri dei nidi di ragno. Ed erano passati ormai otto anni dalla “diaspora del ‘56” che vide molti intellettuali affrancarsi dal Pci e sette anni da quando Calvino usciva definitivamente dal suo partito.
Così sintetizzava Calvino, in un intervista data a Eugenio Scalfari nel 1980, l’atmosfera politico-culturale di quel periodo e il suo personale malessere: «Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine esatto (…) con una parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin (…) quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo mi sentivo profondamente a disagio, estraneo ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, mi domandavo: ma qui, in Italia cos’altro potrei essere se non comunista».
Infatti al contrario di altri intellettuali di sinistra come Vittorini, che già nel ’47, infastidito, si divincolava dal Pci che voleva solo intellettuali che suonassero “il piffero” seguendo pedissequamente gli spartiti dell’apparato comunista e ordinavano alla cultura di divenire «un’ancella della politica», Calvino era rimasto ancora per molti anni fedelmente al “suo posto”.
Nella bellissima e ormai famosa “prefazione del ‘64 al romanzo I sentieri dei nidi di ragno”, Calvino fa una profonda riflessione sull’esperienza partigiana e sulla sua conseguente espressione letteraria, giungendo ad una conclusione che è anche una delle chiavi, se non “la chiave”, che apre la possibilità di una serie di interpretazioni sul senso della Resistenza.
In quella prefazione Calvino paga pegno, ed afferma che l’unico scrittore capace di giungere al cuore della Resistenza fu Beppe Fenoglio col suo Una questione privata. Proprio quel Fenoglio che era stato tenuto ai margini della cultura che contava … anche da intellettuali di valore come Vittorini e lo stesso Calvino. Quando nel ‘54 la Einaudi pubblicò il racconto di Fenoglio La malora, Vittorini, allora direttore della collana “I Gettoni”, aggiunse una perfida quarta di copertina con cui di fatto sviliva l’arte dello scrittore piemontese, accostandolo ai «provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena: con gli « spaccati » e le « fette » che ci davano della vita». Accostamento che secondo Vittorini confermava il «…timore che abbiamo proprio sul più dotato di questi giovani dal piglio moderno e dalla lingua facile».
Calvino, dopo anni di “silenzio” sulla grandezza letteraria dello scrittore piemontese, nel ‘64, giudicava in questo modo la poetica di Fenoglio: «Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno “inseriti” a conservare questa forza. E fu il più isolato di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, (…) Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal “Sentiero dei nidi di ragno” a “Una questione privata”».
Con quel romanzo “cavalleresco” sulla Resistenza Fenoglio era riuscito ad entrare «nel fitto» della guerra civile che aveva insanguinato per quasi due anni l’Italia. Lo aveva fatto raccontando una «follia amorosa» riuscendo scrive Calvino, a ricreare la vera storia della Resistenza «proprio così com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. (…) Ed è un libro assurdo, misterioso in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro (…)».
Beppe Fenoglio, partigiano badogliano, acomunista, intensamente e “inconsapevolmente” di sinistra, etichettato da alcuni intellettuali comunisti come fascista, aveva creato il romanzo perfetto della Resistenza. Lo aveva fatto da par suo, seguendo il filo della propria passione, fidandosi della propria passione. «Mi appassionò immediatamente e ancora mi appassiona».
Il romanzo di Fenoglio, che venne pubblicato postumo nell’aprile dl 1963, due mesi dopo la sua morte, segna la distanza abissale tra l’estetica memorialistica, auspicata dal Migliore, e la creazione letteraria capace di evocare gli elementi etici fondativi della Resistenza: in primo luogo un tipo di rapporto uomo donna come quello narrato nel romanzo di Fenoglio.
«Le donne non ci vogliono più bene/ perché portiamo la camicia nera», cantavano i repubblichini di Salò negli ultimi mesi della guerra civile. Questo disprezzo delle donne italiane nei riguardi dei fascisti saloini non è un elemento di poco conto. E non era solo la violenza fisica a cui le donne venivano spesso sottoposte che faceva nascere dentro di loro questo rifiuto viscerale verso i nazifascisti. Vent’anni e più di cultura catto-fascista aveva devastato l’identità femminile riducendo le donne a mere fattrici di figli per la patria. Lo spiraglio creatosi nelle poche settimane intercorse tra la caduta e l’arresto di Mussolini e l’8 settembre, era stato sufficiente per creare nelle donne speranze di riscatto identitario, immediatamente minacciato da un nazifascismo ancora peggiore del precedente. Mentre gli uomini dovevano forzatamente scegliere tra divenire o probabili vittime o sicuri carnefici, oppure intraprendere la lotta partigiana, le donne scelsero liberamente di schierarsi contro chi le voleva di nuovo annichilire.
L’immagine di Fulvia, la protagonista del romanzo di Fenoglio, ma soprattutto il rapporto tra lei e Milton, il protagonista maschile, è quanto più di distante ci possa essere dalla cultura del ventennio, ma anche dai cliché della restaurazione culturale del dopoguerra.
Per quanto riguarda i comunisti, la rivoluzione del rapporto uomo donna descritta da Aleksandra Kollontaj nel suo pamphlet Largo all’Eros alato! , e le idee di Gramsci sull’emancipazione femminile, giacevano impolverate nella soffitta della Rivoluzione d’ottobre. Consistenti tracce del maschilismo conservatore incistato nel Pci, si possono trovare anche nel bellissimo saggio storico romanzato Mistero Napoletano, vita e passioni di una comunista negli anni della guerra fredda, di Ermanno Rea.
Certamente Una questione privata di Fenoglio, era molto distante da ciò che il Pci voleva per rappresentare la Resistenza a proprio uso e consumo. Basta pensare come Togliatti giudicasse chi trasponeva la Resistenza utilizzando la finzione romanzesca. Il Migliore nell’ottobre del ‘45 scrisse una lettera a Vittorini elogiando Uomini e no che era incappato nelle reprimende del giornalista Onofri che sulle pagine de L’Unità avevano definito il romanzo «il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti e le incongruenze della società in cui è vissuto, una società di privilegiati (…)». Qualche anno dopo però, in un articolo firmato con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, Togliatti scriverà che quel libro era «bello ma discutibile, per quella mania di non saper presentare se non attraverso un torbido travestimento di letteratura gli eroi di quella battaglia, che furono uomini chiari e semplici». E Enne2, il protagonista del romanzo di Vittorini non è certo un uomo “semplice e chiaro”, né un personaggio senza identità e senza un pensiero proprio come lo voleva veder raffigurato la propaganda rappresentata utilizzando il realismo socialista, mascherato da “neorealismo”.
Eroi o martiri, icone o idoli, ideologia o fantasia
Nel 1950 Cesare Pavese scrive a Valentino Gerratana, il filosofo che con la sua edizione critica ai Quaderni di Antonio Gramsci provocò i primi dubbi sulle “interpretazioni” gramsciane di Togliatti. Dubbi che oggi molti ricercatori italiani in parte hanno chiarito: primo fra tutti Mauro Canali che pochi mesi fa, all’uscita del suo nuovo libro Il tradimento, si è dovuto scontrare con i sacerdoti della Fondazione Istituto Gramsci, ovvero con quei “marxisti-ratzingheriani” che ancor oggi conservano i testi autografi di Gramsci nella “loro” imprendibile Sancta sanctorum. Nella lettera a Gerratana, Pavese cerca, a fatica, di definire teoricamente la poetica della Resistenza: «Bisogna che questi testi muovano intorno vite e storia e figure e fantasia perché mi vengano in mano e, connessi con tutto il resto, mi servano».
Nella dinamica artistica, il racconto, il romanzo, la poesia, il dipinto, la scultura, sono le forme percepibili di quanto emerge alla superficie da un vissuto intimo. Non prima però che i ricordi, attraversati dalle sensazioni vissute sincreticamente, si abbeverino, come racconta un antico mito, prima alla fonte di Lete e poi in quella di Mnemosine. É quella modalità dell’anima che salva da una possibile “embolia artistica” che porterebbe all’annullamento di quella “fantasia” di cui parla Pavese nella sua lettera, ma anche Pirandello nel 1925 quando fa pubblicare su Comoedia un testo dal titolo Come e perché ho scritto i «Sei personaggi»: «È da tanti anni a servizio della mia arte (ma come fosse da ieri) una servetta sveltissima e non per tanto nuova sempre del mestiere. Si chiama Fantasia».
Lo scontro sull’immagine culturale da dare alla Resistenza portava anche con sé una lotta antica tra chi ha da sempre inteso la rappresentazione come una “ripresentazione” , ovvero una mera copia-ricordo di un fatto accaduto, e chi invece ha sempre pensato che l’arte, nelle sue varie forme rappresentative, debba evocare, sincreticamente, immagini e contenuti e stati d’animo delle esperienze vissute.
Se c’è stata la Resistenza c’è stato anche un modo di raccontarla. C’è chi l’ha fatto attraverso il ricordo oggettivo dei fatti che però sterilizza e appiattisce la storia; c’è chi l’ha fatto utilizzando una narrazione mitico-ideologica, per l’incapacità di trovare dentro di sé immagini e parole in grado di esprimere il senso di quella lotta; e c’è chi invece ha attinto a ciò che la memoria aveva ricreato impastando gli echi di immagini, di parole e di sensazioni, per coniare nuovi pensieri verbali e quindi espressioni letterarie di gran pregio artistico.
Trasformare i ricordi in cronaca tutto sommato è facile, soprattutto se sorretti da stampelle ideologiche; trovare agglutinamenti di parole capaci di dare un senso a ciò che era accaduto accanto e dentro di sé, nel periodo della guerra civile italiana, fu molto più difficile. Far “sentire” al lettore, come fece Fenoglio, il “sentire” del partigiano Milton di Una questione privata, quando questi ama, odia, quando uccide, quando viene braccato, quando il suo mondo interiore e privato viene talmente invaso dall’ossessione di perdere Fulvia da fargli dimenticare ogni pericolo ed ogni tacito patto con i compagni partigiani, è un’impresa titanica.
In alcuni autori, Vittorini, Fenoglio, Cassola, Pavese, c’è la ricerca estrema, mai neutrale, di un linguaggio capace di dare un senso al tragico recente passato ma anche al loro presente zeppo di contraddizioni. Essi cercano, ognuno a proprio modo, con maggiore o minor energia, un linguaggio che non menta, un forma verbale capace di scavare a fondo nella realtà umana di chi ha vissuto, o è morto, in quei ventidue, ventitré disperati mesi. Gli autori citati, cercano un linguaggio letterario che ridia senso alla loro esperienza passata. Senso che si sta frammentando, che sta divenendo inafferrabile come quello di chi è sopravvissuto e sente il peso di una colpa insopportabile. Un peso insopportabile come quello provato dal protagonista de La casa sulla collina di Pavese. Gli scrittori cercano un linguaggio radicato nella propria esperienza esistenziale che non tradisca la storia e la depuri dall’ideologia. Anche se, come accadde a Fenoglio, ciò significava schierarsi contro gli schieramenti, e venire isolato, e vedere scrittori mediocri vincere premi letterari viziati da editori proni ai padroni della cultura.
Nel dopoguerra scrivere della Resistenza senza fare la riverenza al comunismo e al socialismo era quasi impossibile. Gli “intellettuali engagé” volevano con forza che la storia partigiana divenisse parte dell’epica comunista come la Grande marcia cinese, o la Rivoluzione di ottobre glorificata dai primo piani di Sergej Ėjzenštejn. Il Vittorini di Uomini e no, ma soprattutto Fenoglio, scelsero altre strade perché non volevano che anche il racconto della Resistenza divenisse un vuoto involucro ideologico. Ma per far questo dovettero inventare un nuovo linguaggio, ed usare parole che avessero l’identico peso specifico in esse racchiuso. I numerosissimi inserti di lingua inglese innestati nei paragrafi de Il partigiano Johnny e la prosa “umile” de La ragazza di Bube di Carlo Cassola, hanno, secondo me, questa funzione.
Ciò che volevano le forze reazionarie era la demonizzazione della resistenza partigiana. Demonizzazione funzionale alla restaurazione clericale e borghese che doveva avvenire attraverso la distorsione della verità storica.
Ciò che voleva il Pci del dopoguerra, era creare una visione della Resistenza conformistica, retorica, funzionale alla propria propaganda politica. La forma artistica era il realismo e tutto ciò che era fuori da tale forma era reazionario, anticomunista, borghese, decadente, fascista ecc… Di questa presa di posizione ideologica ne subiranno le conseguenze anche molti pittori che, avendo scelto l’arte astratta, furono espulsi dal partito. Il controllo censorio da parte degli intellettuali dl Pci, Togliatti in testa, sulle forme rappresentative da usare o non usare per narrare non solo la Resistenza ma anche la realtà sociale del dopoguerra non lasciava spazio all’individualismo: articoli, film, romanzi, pittura, persino le parole, passavano sotto le forche caudine dei teorici del partito che spesso venivano da una esperienza da commissario politico nei gruppi partigiani. La Ragazza di Bube di Carlo Cassola, premiato nel ‘60 con il premio Strega, in cui viene narrato il dramma vissuto nel dopoguerra da un ragazzo partigiano, prima indottrinato e poi tradito dal Partito comunista, fu messo “all’indice” dagli intellettuali marxisti.
Le direttive erano chiare: meglio parlare dei partigiani usando la parola “patrioti”, da un’immagine di ordine. Non si deve mai parlare di “guerra civile” perché danneggia l’integrazione politica degli ex fascisti legittimata da Togliatti che, in competizione con la Dc, scelse la strada dell’amnistia che con un colpo di spugna cancellò i crimini dei carnefici, lasciando migliaia di giovani partigiani e centinaia di migliaia di civili inermi “insepolti”, perché non vendicati.
E certamente non si doveva sapere nulla sulla genesi della Resistenza, cioè del carattere impolitico e ribellista della prima ora di quei giovani uomini e giovani donne che, dall’8 settembre ‘43 in poi, rifiutarono impulsivamente la restaurazione del fascismo e l’occupazione nazista. Una ribellione informe ma certa, senza la quale la Resistenza non avrebbe potuto esistere.
Nei primi 30anni dalla fine del nazifascismo solo in alcuni romanzi, erano state impresse tracce certe del rifiuto spontaneo come primo movente della Resistenza; tra questi il già citato Una questione privata e Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio e La casa sulla collina di Cesare Pavese. Quelle voci attraversano la Resistenza rendendogli lo spessore e la sostanza di cui era stata spogliata dalla storiografia oleografica, pronta per esser spazzata via dal primo sussulto fascistoide perché quelle leggende di cartapesta mostravano il fianco al negazionismo reazionario.
Tra le righe di questi romanzi è nascosta la storia di migliaia di giovani uomini e donne che scelsero la lotta Partigiana, perché per essi mantenere l’umano dentro di sé fu una “scelta obbligata”.
Ma le deboli tracce inscritte nei romanzi venivano ogni volta coperte dallo strame della propaganda: «Come il martirologio del Risorgimento, così il martirologio della Resistenza ha generato in gran copia narrazioni leggendarie. Racconti edificanti degli ultimi gesti, immancabilmente eroici, di chi si sapeva condannato a morire per la patria». Scrive Sergio Luzzato nel suo libro Partigia, una storia della Resistenza. E ogni volta si deve stare attenti e “sentire” se, anche in queste “verità”, non vi sia nascosto il bacillo mortale del negazionismo.
Come ho tentato di raccontare, negli anni che seguirono la liberazione dal giogo nazifascista, la lotta per l’egemonia culturale tra comunisti e cattolici se da una parte aveva accenti cruenti e dogmatici paragonabili a quelli della lotta di religione tra riformatori e contro-riformatori dopo il concilio di Trento, dall’altra languiva in quella che Calvino descrisse nella sua “favoletta” La gran bonaccia delle Antille, che tanto fece arrabbiare Il Migliore. In mezzo un’altra “guerra dei trent’anni” combattuta, come racconta Mirella Serri nel suo libro Sorvegliati speciali, soprattutto sul piano culturale. La narrazione della Resistenza si svolse anche in questo clima, un clima in cui il giudizio personale doveva giocoforza essere irreggimentato in nome delle ideologie dominanti.
Leggendo i romanzi di Pavese, Vittorini, Fenoglio, Cassola, che sfuggirono in parte o totalmente a queste gabbie ideologiche, si sente il suono di un affanno esistenziale che cerca la via per la catarsi. L’esperienza della guerra civile non li aveva certo lasciati illesi ed essi attraverso la creazione poetica ritessevano la memoria dipanando gli accadimenti di cui erano stati testimoni nel telaio della fantasia. È per questo che il “romanzo perfetto” della Resistenza non può essere che Una questione privata: non ci fu una Resistenza ma tante, tantissime, ed ognuna fu privata, intima.
Cate, Berta, Fulvia, Mara, le protagoniste dei romanzi che hanno dato voce e senso e immagine alla lotta contro il nazifascismo, rappresentano la Resistenza stessa: loro hanno lottato al fianco degli uomini, ed è per loro che gli uomini hanno lottato e sono morti; sono loro immagine e volto della ribellione al disumano, immagine e volto senza il quale la Resistenza torna ad essere l’ennesima histoire bataille con vinti e vincitori. Difficile dare un senso profondo alla lotta partigiana senza quell’immagine di donna, direi impossibile. Un’immagine di donna mille volte tradita dalle ideologie e negata nella sua essenza umana dalla religione patriarcale, ma che resta, come la ragazza di Bube, accanto al proprio uomo, che è ciò che di meglio la storia le può dare.
Gian Carlo Zanon
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Gli altri articoli del nostro dossier “Resistenza: storia, rappresentazione, immagine » – Sommario:
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- La Resistenza in Arte. Ora e sempre Resistenza. Fibre “resistenziali” nell’arte contemporanea italiana, di Anna Maria Panzera.
- Letteratura e Resistenza – Beppe Fenoglio e la romanzofobia comunista, di Susanne Portmann
- Letteratura e Resistenza – Elio Vittorini. Uomini e no: Resistenza e Ribellione di un uomo libero, di Marina Mancini
- Letteratura e Resistenza – “Uomini e no” di Elio Vittorini: Ovvero l’adesione al momento politico, di Claudio Antonelli