Continua la nostra discussione su resistenza e intellettuali italiani, con un altro intervento su Elio Vittorini. Con “Uomini e no”, lo scrittore vuole mettersi alle spalle il passato per guardare al presente. L’intellettuale si fa interprete del tempo. La sua concezione della verità è come di “qualcosa che muta”. Un contributo di Claudio Antonelli.
“Uomini e no” di Elio Vittorini è il romanzo dell’impegno e dell’azione. In esso la struttura storico-realistica e quella intellettuale e simbolica rimangono, però, artificiosamente disgiunte, rivelando il divario esistente nell’animo dell’autore tra le esigenze dell’impegno politico e le necessità imposte dall’ispirazione. Le forzature, le reiterazioni e le oscurità emergono in maniera tanto più marcata quanto più sonora è la celebrazione delle forze del bene, incarnate dalla resistenza, che lottano contro il nazifascismo, male assoluto. Non sono però mancate le lodi di un critico militante come Barberi Squarotti (abbondantemente provvisto di “coscienza ideologica” ma scarsamente dotato di coscienza nazionale, come un suo incredibile intervento contro l’italianità di Trieste ampiamente dimostra) il quale ha esaltato i meriti politico-letterari di questo romanzo definendolo “testo esemplare come dichiarazione di poetica e di coscienza ideologica”.
[[Giorgio Barberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, p. 223]]
Il distacco di Vittorini da questo romanzo, così legato all’attualità non solo nella scelta dei temi ma anche nei toni politici quasi spasmodici, avverrà in maniera tanto più rapida quanto più forte era stato il tentativo dell’autore di apparire in sintonia con quel periodo convulso della storia italiana. Il 9 giugno 1950, scrivendo ai cinque membri della commissione (molto vicina al PCI) che hanno proposto “Uomini e no” per il Premio Internazionale della Pace, Vittorini manifesta l’avvenuto distacco da questo suo libro che dice di considerare “il meno valido e il più funzionale”.
[[La lettera non venne mai spedita, ma non si può dire per questo che il giudizio espresso da Vittorini fosse poco sentito. Vedi Elio Vittorini, Gli anni del Politecnico, p. 322]]
Già sei mesi prima, nella prefazione alla prima edizione del « Garofano Rosso », scritta alla fine del 1949, aveva equiparato « Uomini e no » al « Garofano Rosso » [opera del « primo Vittorini »: il Vittorini simpatizzante fascista NdR] perché entrambi scritti senza piacere. Rivelatore poi l’aggettivo “funzionale” usato da Vittorini, intellettuale molto “organico” anche se con l’aura del ribelle.
L’adesione al momento politico, in « Uomini e no », ha la stessa intensità di quella del « Garofano rosso ». La sola differenza è nel segno antitetico dei due momenti storici. Circa l’“impegno premeditato” e la mancanza di piacere nello scrivere i due romanzi, lo scrittore siracusano ci dice:
“Uomini e No, difatti, non mi sono vietato di scriverlo, pur scrivendolo nella stessa condizione d’impegno premeditato in cui scrissi il Garofano, e pur accorgendomi che lo scriverlo era per me quasi la stessa solfa, cioè lo stesso non piacere, lo stesso patteggiare anche con cose estranee alla mia esperienza, lo stesso tipo di sforzo.”
[[Elio Vittorini, Le opere narrative, vol. 1, p. 443]]
Non ci dice se alla base della scelta dei temi e del messaggio politico vi fosse stato un calcolo di natura non letteraria. Ma la menzione dell’“impegno premeditato” e il riconoscere di aver patteggiato “anche con cose estranee” alla sua esperienza costituiscono un’allusione molto significativa all’influenza che il clima politico ebbe su di lui. L’abiura, qualche anno dopo, dei frutti di questo condizionamento appare chiara, e mostra che le scelte politiche compiute dal Vittorini tempista e opportunista, ovvero sempre in armonia con un certo stato d’animo collettivo, trovarono interferenza e contrasto nel profondo della sua l’anima.
Circa il carattere particolare della Resistenza descritta da Vittorini in « Uomini e no », si può citare il giudizio di Donald Heiney, che in America in « Modern Italian Literature » commenta:
In “Uomini e no” (‘Men and Not-Men’), 1945, there is no mention of the Allied landings in the south, no hint that anyone except the partisans is fighting the Germans, no suggestion that the English and Americans are on the same side as the protagonist N-2 and his companions.”
[[Donald Hainey, America in Modern Italian Literature (New Brunswick, New Jersey: Rutgers University Press, 1964) p. 151]]
Anche in questa maniera di ignorare gli Americani c’è l’adesione funzionale cioè calcolata alla concezione ortodossa della Resistenza.
Nella “Prefazione alla prima edizione del Garofano Rosso”, volendo spiegare le cause dell’entusiasmo di tanti giovani per il fascismo, Vittorini sottolinea l’attrattiva che la violenza squadristica esercitava su molti animi. Per i giovani tale violenza costituiva l’“aspetto vivo” del fascismo. In seguito, altri aspetti vivi, compreso quello della violenza – antifascista questa volta – lo spingeranno a scrivere, in un racconto, le righe che seguono:
[[Elio Vittorini, “Il ragazzo del ’25”, in Elio Vittorini, Le opere narrative, vol. 2, pp. 829-35]]
“‘Vediamo,’ disse il marinaio. ‘Se un fascista passasse giù in fondo, lontano duecento metri da quassù, tu potresti quasi prenderlo per un animale, non è vero?’ […] ‘Hai ragione,’ borbottò di sotto il berretto. ‘Sono tutti cani rognosi, sono carogne nere.’ […] ‘Venduti al mercato. Porci.’ […] ‘Tu hai qui l’occasione di togliere di mezzo un fascista. Guardali tutti e quattro. Sono quattro lepri… Sono quattro figli di stronza. Ora dovranno attraversare quell’erba ed esitano a farlo. […] Ma devono attraversare. Cominciano. Tra cinque minuti saranno al centro e, se tu sei in gamba, non avranno scampo. Ti senti di farlo? Io scelgo il primo e gli ultimi due. Lascio a te il secondo. Ti va? È un ragazzo come te…’ ‘Sono quattro figli di stronza,’ disse Natale. ‘Sicuro’ disse il marinaio. ‘E stanno pensando al Duce. Stanno pensando alla Vittoria dell’Asse.’ […] Il marinaio spianò il mitragliatore. […] I colpi cominciarono. […] Natale vuotò il caricatore. E ancora il marinaio sparava. ‘Porca bestia’ gridava. ‘Oh, porca bestia!’ Alla fine si voltò verso il ragazzo. ‘Ne hai fatti fuori anche uno dei miei,’ gli disse. ‘Sono stato in gamba?’ il ragazzo chiese. ‘Mica male’ rispose il marinaio. Egli si voltò, e aveva la faccia sudata. Si mise ad asciugarsela. ‘Com’è che ti chiami?’ il ragazzo Natale gli chiese.”
In precedenza, gli eroi partigiani di questo racconto vittoriniano che, si badi bene, mira a celebrare la Resistenza e non ad infamarla, sono giunti alla conclusione logica e scontata che i fascisti non sono esseri umani: « Un fascista non è come me. Io non vorrei mai essere un fascista”, dice Natale. E di rimando il marinaio: “‘Hai ragione,’ borbottò di sotto il berretto. ‘Sono tutti cani rognosi, sono carogne nere.’ ‘Sono figli di bigotta,’ disse il ragazzo. ‘Figli di bigotta? Millepiedi sono. Dei venduti.’‘Venduti al mercato. Porci.’ »
Non si contano le occasioni in cui Vittorini ribadisce la necessità per lo scrittore di girare le spalle al passato, aderire al presente, essere in sintonia con le idee contemporanee. Una sua frase soprattutto racchiude, in una maniera che non potrebbe essere più chiara, questa sua passione per il presente. “La letteratura è già così poca cosa – dichiara in un’intervista del 1965 – A che può servirci se non sa rivelarci, attraverso le sue stesse forme, di che specie di mondo siamo contemporanei?”
[[Vedi Raffaella Rodondi, Il presente vince sempre, p. 11]]
È proprio vero che il racconto inneggiante alla Resistenza, in cui un personaggio vittoriniano dice: “Un fascista non è come me. Io non vorrei mai essere un fascista”, è una testimonianza perfetta del momento storico, ferocemente antifascista, in cui il racconto fu scritto. Esattamente come il « Garofano rosso », anni prima, era stato il romanzo corale della gioventù di quei tempi fascisti.
Anche la lettera che Vittorini indirizza a Corrado Pavolini il 3 aprile 1930, in epoca quindi fascista, pur non possedendo i requisiti della letteratura, possiede il prezioso dono di rivelare fedelmente « di che specie di mondo » Elio fosse contemporaneo. Nella missiva, infatti, troviamo un attacco non ai porci fascisti, ma ad un esemplare d’annata di « porco antifascista »: Giovanni Titta [Battista] Rosa. Titta Rosa è un “porco antifascista”, scrive Vittorini a Corrado Pavolini. Vittorini con questa lettera reagisce all’articolo pesantemente critico (pubblicato nella terza pagina del Corriere Padano del primo aprile 1930) col quale Titta Rosa ha lanciato contro i solariani diverse accuse, tra cui quella di “internazionalismo letterario”.
Dal che si vede che anche il termine ingiurioso “porco” è legato allo spirito dei tempi: prima erano gli antifascisti ad essere giudicati porci, meritevoli di essere denunciati, come fa Vittorini con Titta Rosa scrivendo al gerarca Pavolini. In seguito saranno i fascisti a meritare di essere eliminati perché considerati dei semplici porci o tutt’al più dei « non-uomini », in « Uomini e no », dai combattenti per la Resistenza, cari al nuovo Vittorini.
Noi sappiamo che, per lui, l’intellettuale, il creatore, l’artista, l’autore, degno di tal nome, deve farsi portavoce, appunto, dello spirito dei tempi. Peccato solo che i tempi cambino così rapidamente e talvolta così radicalmente. Di qui forse il gran vantaggio dell’opera incompiuta, celebrata da Vittorini…
La critica militante, così attenta ad auscultare i motivi politici veri e presunti dell’antifascismo virtuale di Vittorini durante il ventennio, ha seguito pedissequamente la falsariga tracciata da lui nella ricostruzione del proprio passato. Le conseguenze di questo camminare all’indietro, cioè di questo ricreare il passato ricercandone le tracce nelle testimonianze posteriori dell’interessato, appaiono scontate. Non saranno certo gli spunti d’anticonformismo e di antifascismo presentatici con la saggezza e il conformismo di poi a permetterci di ricostruire accuratamente gli itinerari vittoriniani di quel periodo. Invece, solamente partendo dal periodo storico e cercando in Vittorini la risonanza di esso, si potrà scoprire l’entità della sua dissidenza. Secondo questo ultimo metodo, che è il solo valido, anche le mancate reazioni potrebbero fornirci utili elementi di giudizio.
Nessuna eco, ad esempio, è avvertibile negli scritti di Vittorini di un avvenimento estremamente significativo del ventennio: le misure razziali. Eppure la politica dell’antisemitismo servì a molti a vedere chiaro circa la natura più profonda del regime fascista. Mentre fu in prima linea nella campagna del voi contro il lei, promossa dal regime fascista.
La vera, profonda e definitiva crisi del fascismo, secondo Renzo De Felice, ed è difficile non essere d’accordo con lui, inizia con l’entrata in guerra dell’Italia.
[[Vedi Renzo De Felice, Mussolini il duce, vol. 2, Lo stato totalitario, p. 4]]
Per Zunino “i sismografi del sistema fascista incominciarono ad emettere inquietanti ticchettii […] solo nell’autunno del 1940 con il disastro greco e con l’attacco su Taranto, quell’atto che, per i suoi effetti, può essere giudicato come una sorta di Pearl Harbour in sedicesimo.”
[[Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo, p. 389]]
Piero Operti nella Lettera aperta a Benedetto Croce interpreta così le altalene di quel periodo: “Nell’ulteriore corso del conflitto la fede dell’italiano medio oscillò puntualmente tra filofascismo (o filonazismo) e antifascismo col pendolo delle vicende belliche, e nel novembre del ‘42 si fermò sull’antifascismo col fermarsi del pendolo.”
[[Piero Operti, Lettera aperta a Benedetto Croce, Quinta edizione con la risposta di Croce
(Torino: S. Lattes & C. Editori,1946) p. 30]]
Il trasformismo di cui fecero prova molti nel periodo di transizione tra il fascismo e l’antifascismo si ricollega direttamente al trasformismo dell’inizio del fascismo, quando con armi e bagagli quasi tutti salirono sul carro del vincitore. Interpretazione questa certamente ingiusta per i pochissimi idealisti in buona fede, ma giustissima per la massa sterminata degli altri. Giorgio Bocca scrive: “La crescita trasformistica del fascismo è imponente: dai 20.000 iscritti del 1920 ai 251.00 del ‘21 ai 320.000 del ‘22 alla fiumana incontenibile dopo la marcia su Roma.[…] Il trasformismo dal nero al rosso non sarà meno impressionante nel 1945.”
[[Giorgio Bocca, Mussolini socialfascista, p. 81]]
Solo la forza disperata di questo istinto di conservazione può spiegare l’accanimento di Vittorini – lui che era stato arcifascista con Malaparte, lui che aveva esaltato il Duce e l’Impero (Pier Giorgio Zunino lo annovera tra “le immancabili penne adulatrici”)
[[Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo, p. 209]]
e si era inventato un passato quasi da squadrista ne “Il mio ottobre fascista” – nel porre i suoi ex camerati tra i “non-uomini”, ed incentrare tutto un racconto: “Il ragazzo del ‘25” (lui che diceva di non amare la violenza) sull’uccisione a sangue freddo dei fascisti, chiamandoli « cani rognosi », « carogne nere », « figli di stronza »…
Ma c’è anche da chiedersi se Vittorini quando si implica, aderisce, esprime un credo, vi metta veramente l’animus, ossia partecipi alla cosa nel proprio foro interiore, in maniera profonda. È legittimo avere un dubbio sul carattere « vero e autentico » delle parole esprimenti di volta in volta il suo sentire, data la concezione particolare ch’egli ha della verità come di qualcosa che muta, e data inoltre la sua grande capacità di mimesi e il suo costante aderire con l’epidermide all’“hic et nunc”. Ciò attenuerebbe il carattere vergognoso della disumanizzazione che fa, in « Uomini e no », e ne “Il ragazzo del ‘25”, dei suoi ex camerati divenuti “porche bestie”. Ma, nello stesso tempo, se si riconoscesse a Vittorini l’attenuante di aver detto le cose che ha detto, senza veramente averle volute dire, lo si qualificherebbe come un essere vergognosamente superficiale, calcolatore ed opportunista.
Sulle idee e sulle attività a carattere politico di Vittorini, soprattutto durante il periodo bellico a partire dal momento in cui le masse in Italia passarono dall’idea della vittoria dell’Asse alla probabilità e quindi alla certezza della sconfitta, vi è nell’insieme molta nebulosità. Un fatto comunque è certo: il 26 luglio del 1943, Vittorini è arrestato a Milano per aver partecipato ad un comizio in piazzale Oberdan. Ciò avviene, quindi, il giorno dopo la caduta del fascismo. Particolare, questo, significativo perché concernente qualcuno che ha voluto sempre vivere in sintonia col presente. E quel giorno a Milano il presente voleva dire l’inizio ufficiale dell’Italia antifascista, con il governo Badoglio. L’inizio, inoltre, di una dura guerra civile e dell’impennata delle fortune del Partito comunista.
Con altrettanto tempismo, il 26 aprile 1945, ossia il giorno dopo la Liberazione, Vittorini consegna a Bompiani il manoscritto di « Uomini e no », il suo romanzo della Resistenza. In merito a questo libro ha però l’accortezza di fare una precisazione che in realtà non precisa molto, e che forse indica semplicemente il suo desiderio di lasciarsi una porta aperta alle spalle; come anche forse esprime il tentativo di alleggerire la portata politica dei suoi interventi politici anteriori, fascisti: “Non perché sono, come tutti sanno, un militante comunista si deve credere che questo sia un libro comunista. Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale.”
[[Citato da Anselmo Madeddu, Vittorini da Robinson a Gulliver, p. 100]]
Claudio Antonelli
*****
Dossier “Resistenza: storia, rappresentazione, immagine » – Sommario:
- Letteratura e Liberazione. Dopo il 25 aprile: i romanzi del ritorno, di Gian Carlo Zanon
- La Resistenza in Arte. Ora e sempre Resistenza. Fibre “resistenziali” nell’arte contemporanea italiana, di Anna Maria Panzera.
- Letteratura e Resistenza – Beppe Fenoglio e la romanzofobia comunista, di Susanne Portmann
- Letteratura e Resistenza – Elio Vittorini. Uomini e no: Resistenza e Ribellione di un uomo libero, di Marina Mancini
- Resistenza. Storia, rappresentazione, immagine, di Gian Carlo Zanon