Politica e arte: Corrado Cagli all’”Expo” di Parigi nel 1937

Paolo Simoncelli, ex Professore di Storia Moderna ed ex Direttore della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” a Roma, tra le sue numerose opere di ricostruzioni minuziose in antitesi alle falsità grandi e piccole della Storia ha pubblicato quella intitolata «Cagli, De Libero e “La Cometa”» (ed. “Nuova cultura”, 2020) che, oltre ai rapporti tra il pittore e il poeta da quando era stata creata nel 1935 in Via della Tribuna di Tor de’ Specchi a Roma questa galleria d’arte, contiene dettagliate descrizioni della partecipazione italiana all’”expo” di Parigi del 1937.

Le oscillazioni delle opere e della vita di Corrado Cagli e degli altri artisti de “La Cometa” (tra cui Carrà, De Chirico, Guttuso, Mafai, Messina, Pirandello, Pincherle, Savinio, Severini, Soffici, Tosi) nei rapporti con il regime (dalle indifferenze alla sintonie o alle dissidenze) appaiono, anche nelle contraddizioni, parallele a quelle dei rapporti tra questo e la Francia.

Come alla fine del 1934, quando arrivava l’invito della Francia all’Italia per l’”Expo” del 1937, questi rapporti apparivano solidi per i comuni timori per Hitler, accresciuti dal riarmo della Germania, dall’assassinio di Dollfuss a Vienna e dunque dalla comune volontà di contrastarne l’espansionismo a partire dall’Austria (a tal punto che nel 1935 negli incontri di Mussolini con il Ministro degli Esteri Laval a Roma e a Stresa insieme al Primo Ministro britannico Ramsay MacDonald l’opposizione all’espansionismo dell’Italia in Africa era attenuata dal comune interesse antitedesco) così, all’inizio del 1935, i rapporti di Cagli con il regime erano rappresentati dai suoi pannelli in cui ne esaltava (tra l’altro) le costruzioni e i lavori (tra cui la bonifica delle paludi pontine) esposti nell’atrio d’ingresso del Palazzo delle Esposizioni a Roma per la Quadriennale inaugurata da Mussolini. Il suo successo lì e poco dopo con la sua mostra personale a “La Cometa” era stato tale da essere poi invitato a partecipare alla mostra dell’”Art italien du XIX et XX Siècles” al “Jeu de Paume” inaugurata in presenza di Ciano.

Allora, dunque, perfino Giuseppe Pensabene (l‘architetto critico d’arte compromesso con il regime fino al punto da difenderne poi le leggi razziali) scriveva su “Il Quadrivio” che nella “scuola romana” Cagli, Capogrossi, Cavalli, Pirandello, Ziveri e altri erano dei “giovani di punta sui quali molte speranze” erano “fondate per l’avvenire della pittura italiana”, per merito tra l’altro della contessa (Mimì) Pecci Blunt “sponsorizzatrice” de “La Cometa” e degli incontri nei suoi salotti tra gli artisti e i gerarchi.

La quale era a Parigi quando, a metà del 1935, sia sui rapporti di Cagli con il regime che su quelli dell’Italia con la Francia e l’Inghilterra apparivano i primi colpi di vento: Renato Ricci, Presidente dell’”Opera Nazionale Balilla”, aveva giudicato poco dignitoso il murale di Cagli “La corsa dei barberi” (cavalli liberi in Via del Corso durante il carnevale) nella sede di quest’istituzione all’Aventino (oggi Accademia Nazionale di Danza dov’è stato restaurato), mentre la Francia si opponeva meno al “posto al sole” dell’Italia nella guerra d’Etiopia iniziata in autunno che alle trattative di disarmo dirette con la Germania fatte dall’Inghilterra e conclusesi con il loro accordo navale.

Durante e dopo la guerra d’Etiopia (e anche a proposito delle sanzioni fino al luglio del 1936 della Società delle Nazioni a Ginevra) la Francia continuava a essere più favorevole dell’Inghilterra nel riconoscimento dell’Italia anche con le colonie in funzione antitedesca, ma intanto i sentimenti (e la stampa) in Italia avevano cominciato a ribaltarsi proprio contro l’atteggiamento da Ginevra a Londra per il suo “posto al sole” (anche il patto Laval-Hoare, Ministro degli Esteri britannico, del dicembre 1935 di riconoscimento delle conquiste italiane come tentativo di tornare al “fronte di Stresa”, denunciato dalla stampa francese come tradimento agli Abissini, era fallito e aveva costretto ambedue i firmatari a dimettersi).

Paolo Simoncelli

All’autarchia economica iniziata in Italia con le sanzioni s’affiancava quindi quella della propaganda artistica: Pensabene sul “Quadrivio” cominciava ad attaccare “l’ambiente intellettuale” dipendente dalle “ideologie straniere”, che annoverava pittori “che non sembra(va)no avere altra guida per la loro attività se non i mercanti ebrei di Parigi”. E successivamente in progressione: l’arte “europeistica” era uno strumento d’infiltrazione dell’arte ebraica, anche tramite Pecci Blunt con il marito ebreo.

Nonostante i successivi Primi Ministri Albert Sarraut e Léon Blum fossero per le rispettive ideologie meno favorevoli di Laval all’Italia, e nonostante l’assenza (fino all’arrivo di François-Poncet nel 1938) d’un Ambasciatore di Francia a Roma in quanto non accreditato presso il Re “Imperatore d’Etiopia”, nel 1936 continuavano i lavori della commissione Piccio (dal nome dell’ex Addetto Aeronautico a Parigi che la guidava) per l’allestimento del padiglione italiano all’”Expo” (sul LungoSenna oggi Quai Chirac angolo Av. de la Bourdonnais), della quale facevano parte (tra gli altri) Antonio Maraini (responsabile per Starace delle “Belle Arti” e della Biennale di Venezia), Giulio Barella (responsabile della Triennale di Milano) e Marcello Piacentini, le cui architetture erano già di fama nelle ristrutturazioni urbanistiche di allora. I quali, ottenuti da Mussolini (dopo la revoca delle sanzioni) anche più fondi indicizzati all’inflazione, tracciavano lo schema secondo cui già all’ingresso del padiglione le statue e i murali dovevano raffigurare le realizzazioni del regime e dell’Italia: dalle bonifiche e architetture, dai lavori pubblici, dall’educazione e dall’arte fino alle vittorie dei Romani e del Risorgimento nel passato: come quella de “la battaglia di Solferino e San Martino” del 1859 vinta insieme ai francesi contro gli austriaci esposta da Cagli alla Triennale di Milano.

La quale, se appariva opportuna proprio per l’alleanza di allora con i francesi, lo era proprio quando, ancora una volta, parallelamente al deterioramento in vista dei rapporti tra la Francia e il regime s’accresceva quello tra gli artisti de “La cometa” e questo: infatti, mentre la guerra di Spagna divideva ancora di più la Francia dall’Italia, la nomina di Ciano a Capo del Ministero degli Esteri allontanava da questo il Sottosegretario Fulvio Suvich (da allora Ambasciatore a Washington fino al 1938) che dopo il Segretario Generale Contarini (fino al 1926) era stato lì tra i maggiori garanti dei rapporti con le democrazie occidentali; e mentre Carlo Levi, tornato dal confino dopo l’amnistia per la proclamazione dell’Impero, riceveva la lettera di Cagli in cui gli comunicava l’impossibilità d’una sua mostra a “La Cometa” perché Mimì Pecci Blunt, assente da Roma, non poteva garantire da parte di Dino Alfieri, Sottosegretario al Ministero della Stampa e Propaganda, l’impedimento degli attacchi dei giornali “Quadrivio” e “Tevere” anche in chiave antisemitica contro di loro, nello stesso parallelismo resistevano i paradossi per il periodo successivo.

Infatti, nel 1937 Alfieri, divenuto Ministro, garantiva a Pecci Blunt non solo l’esposizione di Levi a “La cometa”, ma anche la possibilità delle iniziative di questa all’estero (tra l’altro scusandosi di non essere potuto venire a una conferenza di Paul Valéry nel salotto della Contessa). E ancora nell’autunno del 1936 all’inaugurazione dei lavori per l’Expo il Commissario di questa Edmond Labbé ricordava che Mussolini aveva dato “toutes instructions pour que les plus larges crédits et les plus grand soins soient apportés à faire des Pavillons italiens le plus saisissant résumé qui soit des quatorze années constructives du Régime”. “Nous aurons en somme sous les yeux en 1937 la réalisation gigantesque de la formule de M. Benito Mussolini: racheter la terre, et par la terre les hommes, et par les hommes la race”…

Ma il confronto tra i lavori del padiglione dell’Italia diretti da Piacentini e quelli del padiglione della Germania (quasi di fronte) con tutta la sua imponenza diretti da Albert Speer sembrava quasi far parte delle ispirazioni per l’”Asse Roma-Berlino”, ivi firmato dai Ministri degli Esteri Ciano e von Neurath. E questo sembrava quasi contribuire alla reazione con quanto scritto tra i manifesti preparati per la visita del Presidente del Consiglio Blum al cantiere nel successivo febbraio 1937: “l’apertura dell’Esposizione al 1° maggio è una battaglia del Fronte Popolare contro il Fascismo” (e alle urla: “aeroplani per la Spagna”).

Corrado Cagli

Se questa battaglia non c’era stata a causa del rinvio dell’inaugurazione al 25 maggio, c’era tuttavia stato (a causa anche della situazione in Spagna) un deterioramento tale da limitare la presenza della autorità italiane alla cerimonia ai soli Ambasciatore Cerruti e Console Generale Maccotta, e da ridurre gli articoli dei giornali italiani. Tra questi: “La Stampa” che descriveva nel padiglione italiano “la grande Vittoria alata in bronzo dello scultore Martini e le pitture su legno ricorrenti sotto la galleria delle colonne ed esprimenti le varie realizzazioni del Genio italiano [opera di Cagli]”, “evocanti lo slancio poderoso dell’Italia fascista”; e altri giornali ove ancora “nell’Atrio d’Onore” tra la “decorazione delle pareti che esprimono le diverse realizzazioni dell’Italia fascista e le tappe principali della nostra civiltà [opere di Cagli]” si trova “la vittoria alata di Martini che ricorda il volo transoceanico di Balbo”. Su “Sud Magazine” Henri Héraut aveva scritto: “Les arcades de cette cour d’honneur sont ornées de peinture à la détrempe représentant les personnages les plus illustres de l’histoire italienne, depuis Romolus jusq’au Duce commandant ses troupes à cheval! Ce très vivant défilé d’une charmante liberté de peinceau, est dû à l’artiste de grand talent qu’est Corrado Cagli”.

Nell’ottobre successivo Ciano, indipendentemente dall’imponente visita ufficiale di Mussolini in Germania del mese precedente, e indipendentemente dai sentimenti attribuitigli per Cagli (compresi quelli attribuitigli sull’offuscazione di sue opere), accettava il prolungamento di sei mesi dell’Expo con la presenza italiana, tra l’altro soddisfacendo così pure i redattori di “Sud Magazine”, bimensile fondato nel 1928 e durato fino al 1939 in difesa dell’amicizia culturale francoitaliana indipendentemente dai singoli sentimenti politici (era tenuto in considerazione anche da Ciano e Bottai).

Sempre nel 1937, Cagli esponeva le sue opere anche alla “Galerie des Quatre Chemins” e qui di nuovo nel 1939, nel suo esilio a Parigi in seguito alle leggi razziali. Intanto a New York Pecci Blunt e De Libero organizzavano alla “Comet Art Gallery” la mostra con opere (tra gli altri) di Carrà, Cagli, Campigli, De Chirico, Morandi e Savinio, ancora giudicata sul “Tevere” (diretto da Telesio Interlandi che disprezzava perfino Bottai e Piacentini) espressione di artisti ”ebrei, ebraizzanti, e seguaci dell’arte internazionale”, per cui Pecci Blunt chiedeva ad Alfieri d’intervenire per difendere l’arte nazionale anche dall’influenza francese sul mercato internazionale!

Parigi, Expo 1937. Padiglione italiano.

 

Se Ciano era stato favorevole sia al prolungamento della presenza italiana all’Expo di Parigi che a quella dell’”Arte italiana dal 1800 a oggi” a Berlino alla fine del 1937 perché egli e l’Italia erano ancora “in bilico”, Cagli da allora non lo era più sia perché non era presente a Berlino a sia perché il titolo del suo intonaco in preparazione per la Biennale di Venezia del 1938, “Orfeo incanta le belve”, appariva già premonitore degli inganni che da quell’anno precedevano i drammi. E anche questi, ancora una volta, con i paradossi: dopo che Cagli nel 1939 s’era trasferito da Parigi a New York (dove anche i Pecci Blunt s’erano trasferiti per le leggi razziali), e dopo essere stato arruolato nel 1941 nell’esercito deli USA, era stato lì internato come “enemy alien”, prendendo la cittadinanza americana (nel 1943) dopo anziché prima l’arruolamento. E, altro paradosso, nel 1942, le sue opere erano esposte alla mostra di arte italiana a Varsavia diventata una macelleria tedesca.

Ma le quantità di opere sue esposte dappertutto negli USA durante la guerra, di quelle fatte nel 1944 mentre era nell’esercito di liberazione degli USA in Normandia, Belgio e Germania (compresa la raffigurazione dell’orrore di Buchenwald), e di quelle fino al 1947 prima del rientro definitivo da New York a Roma sono tali da soprassedere su quelle precedenti: anche dopo la contestazione con il ricordo di queste fatta in quest’anno alla sua mostra alla Galleria La Palma in Piazza Augusto Imperatore. E anche i suoi innumerevoli lavori, esposti in tutta Italia, fino alla sua scomparsa nel 1976 dimostrano che la storia delle forme artistiche rimane in relazione con i diversi fatti della vita.

Lodovico Luciolli

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