Mio cugino ha detto che sono un comunista con il Rolex. Si sbaglia. Sul comunismo sarebbe un discorso lungo e tutto un complesso di cose, ma sul Rolex è più semplice; non ce l’ho, non mi piace ed è carissimo. Vedi come ci si sbaglia, nella vita? Non lo vedo da tanti anni, mio cugino. Però abbiamo qualche scambio su Internet. Veniamo dallo stesso mondo. Periferie. Strade di negri. Al mondo ci sono due categorie di negri: i negri neri e i negri bianchi. Ecco, noi eravamo quelli bianchi. (Quelli neri, povere stelle, al tempo dalle parti nostre non c’erano proprio). Voi direte, mamma mia le periferie! L’inferno, il degrado, l’abbandono, l’alienazione, l’odio! Ma figuriamoci. Non è vero. È bellissima, la periferia. La mia poi, bella lo era sul serio. C’erano il mare e le colline con il basilico. E subito sopra, i monti, perché la Liguria lì è strettissima: due passi e se non stai all’occhio ti ritrovi in Piemonte. Sali sulla collina, cogli il basilico, poi trovi i pini e i pinoli. Sali ancora un po’ e ci sono (almeno, una volta c’erano) i pastori sardi (ma sardi proprio. Chissà perché venivano lì), e quindi il pecorino. Basilico, pinoli, pecorino (l’olio e l’aglio, dici? Ce li hai già, guarda bene e vedrai): ed è subito pesto.
Noi, negri bianchi di quelle periferie, non eravamo (è bene dirlo) né ricchi né poveri. Ricchi? Non c’avevamo una lira. Poveri poveri però nemmeno, dai: abitavamo in una casetta tutta per noi (logico, direte voi. Logico un corno. Fino agli anni Cinquanta e passa, le coppie dei ceti popolari spesso abitavano con i genitori anche dopo il matrimonio. Sai che divertimento). Avevamo gli elettrodomestici. In voi suscitano repulsione e la voglia di citare Pasolini in qualche anatema sulla civiltà dei consumi, lo so. E invece sono importanti. Nel passaggio tra anni Cinquanta e Sessanta, frigorifero e televisione cambiarono, e in meglio, le condizioni di vita di tutti, ma soprattutto delle donne italiane.
Erano le donne a fare da mangiare e a occuparsi di vecchi e bambini (due categorie, absit iniuria verbis, massimamente rompicoglioni): sai che sollievo poter conservare i cibi e piazzare i suddetti vecchi e bambini, almeno per un’oretta, davanti a quell’aggeggio infernale? Automobile. Cinquecento, Seicento, Centoventisette. E oltre a casa elettrodomestici e automobile, i figli (tra cui io) all’Università. Per i sociologi americani, sono le cose che ti fanno appartenere alla classe media. Periferia operaia, quella di ponente, di una città operaia, Genova. Andavo a scuola a piedi. Il pomeriggio, a giocare a pallone per strada. La scuola, le case, le chiese. Il calcio, la politica. Queste cose qua. Andavamo a scuola e la scuola era importante. Anche i libri lo erano. Ce n’erano pochi, nelle nostre case.
Una volta sono rimasto a casa da solo per un paio di giorni, i miei erano andati via, (evento rarissimo) e mi avevano lasciato qualche soldo per comprarmi da mangiare. Scelsi la strada di un eroico quasi-digiuno e mi sputtanai i soldi in libri. Eh eh. Credo Pavese. Forse la Luna e i falò, edizione Oscar Mondadori, e l’Antologia di Spoon River edizione Einaudi (più cara, mannaggia), con traduzione di Fernanda Pivano (che da ragazza piaceva molto a Pavese ma non gliel’aveva mai data. Voi direte: che c’entra? Niente. Mi è venuto in mente). Un eroe. Altro che alienazione. Io e mio cugino veniamo da quel mondo lì. Lui c’è rimasto, io no. Chi lo sa se è andata bene a lui a o a me. Ad occhio e croce, a nessuno dei due. Adesso, il sabato, a Parigi, vedo questi ragazzi che vengono dalla banlieue. (Che sarebbe periferia, ma in francese). Come io a volte al sabato andavo in centro a Genova. Loro sono negri neri. Hanno le magliette delle squadre di calcio. (Io nei miei armadi ne ho una ventina, però mica le metto). Girano e rigirano senza sapere dove andare, cercano le vetrine (“appostati dietro le vetrine, gli oggetti ci sceglievano, selezionandoci in base al reddito”, scrive Gaber).
Persi in un loro vuoto (tra il berretto con la visiera e il telefonino). Io ho avuto la fortuna di studiare. E un po’ ho viaggiato. Cominciando timidamente. Parlavo inglese, “excuse me”, e mi veniva da ridere come se stessi facendo una marachella. Poi, tra il lavoro, la vita e quello che volete, sempre di più. Mio cugino no. È rimasto sempre lì. Ha fatto una specie di istituto tecnico e poi chiuso, studiare non gli piaceva. Comunista convintissimo, e cattolico (Dio la Madonna Gesù la comunione). Mentre lui venerava l’immaginetta di Berlinguer (San Berlinguer prega per noi peccatori), io mi consideravo un socialista senza partito, un libertario senza libertà, un radicale senza radici. Comunista no, non più e forse mai (perché ai miei occhi era chiaro come il comunismo fosse stato un lungo inganno, una cosa importante certo ma a suo modo disastrosa), di sinistra invece sì. Perché io e mio cugino eravamo diversi, certo, ma venivamo dallo stesso mondo, stessa faccia stessa razza, quella delle periferie dei negri bianchi.
Dietro di noi c’erano tinelli e tovaglie di plastica, odiate pattine (“la mamma ha dato la cera, mettiti le pattine!”), i palazzi con i ronzii dei televisori, le compagnie di amici con gli scherzi e le cazzate tra di noi, le radioline con Tutto il calcio minuto per minuto, la domenica allo stadio (lui genoano, io sampdoriano). Stesse cose. Stessa parte del mondo. Quella di chi non aveva alle spalle né soldi né quadri né tappeti né appartamenti né studi e niente di niente . Proletari, insomma. Diversi in tutto ma della stessa razza. Ci siamo perduti per più di trent’anni, ci ritroviamo su Internet. Dove lui mette messaggi sui negri neri che ci invadono. Sulle magliette rosse per i “poveri” migranti (con tanto di virgolette, e ci siamo capiti) chiedendo “quando una maglietta per i 5 milioni di poveri italiani e i terremotati?”. Sui “comunisti col Rolex” che sono “bravi col c… degli altri”. Sui vaccini: “se una persona si fa 5 vaccini, il rischio di Alzheimer è del 600% a causa dell’alluminio”, firmato “un prestigioso scienziato”. Sui soldi dei terremotati che sono spariti. Sulle scie chimiche. Messaggi contro gli omosessuali, gli immigrati, i politici, che hanno tutto mentre per la povera gente non c’è niente. Pubblica cose che dicono (cito): “sono nato bianco, il che fa di me un razzista; non voto a sinistra, il che fa di me un fascista; sono eterosessuale, il che fa di me un omofobo; sono cristiano, il che fa di me un cane infedele; tengo alla mia identità, il che fa di me uno xenofobo; vorrei vedere i delinquenti in galera, il che fa di me un populista”. E ancora: “i milioni rubati dalle ONG e dalle organizzazioni di accoglienza potrebbero salvare milioni di vite nei loro paesi, ma questo non si deve dire, questa tragedia deve essere nascosta, perché non c’è guadagno e non si lucra”.
Di me dice che io non posso capire. Che non so come stanno le cose. Che sono un comunista col Rolex. Anche se non sono comunista e non ho il Rolex, lo sono lo stesso. Veniamo dalle stesse strade, dagli stessi tinelli. Fino a un attimo fa (un attimo, davvero, un niente) io e lui eravamo dalla stessa parte del mondo. Poi è successo qualcosa. Un inspiegabile malinteso, una distrazione, non so. Mi sono voltato e l’ho ritrovato così. Ha votato M5S ma adesso è chiaro che si ritrova di più nella Lega di Salvini. I negri (ricordo) sono di due tipi, i negri neri e i negri bianchi: e oggi c’è questa cosa per cui i negri bianchi pensano che il loro nemico siano i negri neri.
Maurizio Puppo