Memorie d’autunno e di vendemmia: il Vulture ammantato di rosso-marrone.

Sospinti dall’odore delle cantine e dal vento che accarezza gli ulivi: lo sguardo si apre alle pendici del Vulture, il massiccio alato a nord della Basilicata. Lo sfondo seduce, è come scivolare fra valli fiorite / dove all’ulivo si abbraccia la vite, cantava con voce calda Fabrizio De André.

Riemergono quegli antichi profumi che esalano dai tini. La vendemmia si consuma come un rito antico, l’odore che risale è come incenso che perdura secolare nelle chiese. Profumi e colori che la vendemmia ripropone in un questa terra antica. Il Vulture è terra “liquida” per le sue linfe: l’aglianico e l’olio, le acque minerali. Questa terra ha le sue muse.
Come una liturgia, la vendemmia qui affonda in radici profonde, dentro il vissuto di uomini coriacei, secoli di buon vino e di allegrie, nei quartieri di pietra sempre in guerra con la povertà.

È nei mesi degli ultimi frutti che le terre del Vulture vivono la festa più ardita, ancestrale. Dall’alto della sua cima, dai sette dorsali che sembrano un avvoltoio (era vultur per i latini), la montagna osserva quegli uomini antichi che come formiche interpretano la disciplina della terra, ne proseguono le sequenze tra filiere di viti in distese scoscese, e poi ancora fra gli ulivi contorti.

Tra i filari di San Savino a Rionero “…quando è buona annata, si miete anche tra i sassi.” Così scriveva in un suo racconto lo scrittore Vincenzo Buccino. “…Questa volta l’annata è buona, e che buona? È grassa, esuberante. L’uva è mostosa, più turgida della pingue terra di San Savino. Il mosto è più viscoso dell’olio delle olive della Fiumara e delle Querce”.

Affiora la memoria di un profeta del vino: Michele, che tutti in quei tempi lontani chiamavano “Pastina”. Conoscitore del rosso rubino, bastavano pochi sorsi e riusciva a declamare le rime dei poeti, lui che lavorava l’orto e non aveva mai fatto le scuole: Pascoli e De Amicis, Dante e Boccaccio. Li ricordava tutti quei versi. Nelle feste indossava lo “scullino”, come veniva chiamato il papillon dei poveri. Riusciva ad allietare la festa della vendemmia, il magistero degli ultimi raccolti. Un cantore, un oracolo buono, questo era “Pastina” nel rituale della vendemmia. Un profeta di cantine: quella di RocFalò e di Zazzarino, tempio etilico di odori sempiterni.

Monte Vulture, raccolta delle castagne

Il colore delle castagne sa di autunno, come il suono sordo delle noci schiacciate in un palmo di mano che Zì Nuccio rompeva con destrezza.

Mi ricorderò di quest’autunno è il primo verso della prima poesia senza titolo che compare in Vidi le muse, opera di Leonardo Sinisgalli; è ispirata ad un breve soggiorno che il poeta lucano fece nella sua Montemurro, quando già da tempo si era trasferito stabilmente a Milano.

Altrove quel rito antico è ormai un concerto di tecnologie moderne, per vini sempre più pregiati. Poco spazio per le “feste bacchiche” di un tempo, quando l’uva si pigiava coi piedi, che “solo quando diventavano rossi si poteva smettere.” Ce lo raccontava zio Francesco di Monticchio (da poco scomparso), che ricorda di come si spandeva penetrante l’odore inebriante di mosto. Quell’aspro odore che riavvicina nei secoli il culto dei Satiri che si incoronavano di pampini e ballavano fra filari di viti.

Appena dopo la vendemmia ha luogo il rito della raccolta delle olive sugli alberi contorti, con le « frustate acide » dei rami quando sono prese negli occhi. I frantoi o i “trappeti”, si affollano di contadini infreddoliti di ritorno dagli oliveti, con i loro sacchi gonfi di frutto, l’ultimo raccolto dell’anno, prima del lungo letargo, è l’inverno che incombe.

Colori, sapori e musica antica: questo è l’autunno, celebrato da cantori e poeti: “Stagione di nebbie e morbida abbondanza, Tu, / intima amica del sole al suo culmine / che con lui cospiri per far grevi d’uva / le viti appese alle gronde di paglia dei tetti…” decantava il poeta romantico inglese John Keats. Cui fa eco Pastìna: “Quando morrò, ve ne prego, collegate con una lunga canna il vigneto sopra il cimitero con la terra dove andrò a riposare, perché possa anche lassù godere del frutto pregiato, di aglianico e di moscato…” Anelava così prima dell’ultimo respiro Michele, uomo di un tempo lontano, immerso nella magia dei profumi che solo l’autunno sa esaltare.

E Robert Frost, cantava: Trattieni il sole con nebbie gentili; incanta la campagna d’ametista. / Ma piano, piano! / Per amore dell’uva, se non altro / i cui pampini bruciano nel gelo, / i cui grappoli andrebbero distrutti./ Per amore dell’uva lungo il muro.

Ecco il Vulture, ammantato di rosso-marrone. Lo contempliamo con memoria perché siamo – suggerisce Walt Whitman – “sensibili alle foglie”.

di Armando Lostaglio

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Armando Lostaglio
ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica - Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l'imbrunire (2012); Il genio contro - Guy Debord e il cinema nell'avangardia (2013); La strada meno battura - a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.

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