Lo scherzo e lo scandalo dello stare al mondo nella cornice di una distopia luminosa e terribile. Con “L’Istrice”, Luca Cristiano offre ai lettori un romanzo che si sfoglia come si mangiano proverbialmente le ciliegie: una pagina dopo l’altra, dove nulla è a caso e tout se tient. Letteratura insomma, di quella buona.
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“Ci sono pazzi che sentono la Terra vorticare continuamente,
ogni secondo della loro vita.
Non hanno ragione loro?
Per caso la Terra si è mai fermata?”
Le rappresentazioni distopiche del reale, non nate ieri, vivono un momento di particolare popolarità. Et pour cause. Un contributo essenziale alla vitalità del genere nelle sue varie forme, audiovisive e letterarie, viene fornito in primo luogo dalla realtà stessa che, ultimamente, si è superata nel superare la fantasia.
Sta di fatto che una bella pioggia di detriti di cemento dal cielo mancava, ma soprattutto mancava un antidoto efficace contro la gragnuola di insensatezza da cui siamo, nostro malgrado, bombardati, e a vari livelli, da varie direzioni. Luca Cristiano ha provveduto dal suo terreno di gioco prediletto, quello della scrittura e della letteratura. Ci passa la medicina benefica esponendoci al suo ottimo veleno − annata 2020 − portando a compimento una storia che ha cominciato a annerire le sue pagine diversi anni fa.
Si tratta davvero di una storia compiuta in tutti i sensi: dall’inizio alla fine la trama si snoda, svolgendosi e riavvolgendosi, ora guidando il lettore, ora disorientandolo, ma senza mai abbandonarlo e quindi senza mai deluderlo. Da nessuna parte si trova quella presunzione dell’autore che sbocconcella pezzetti di un abbozzo di trama, di un’impressione di racconto, e li butta qui e là sottintendo, nel migliore dei casi, “fate un po’ voi, toglietevi la fame come potete”, come se lui avesse altro da fare e raccontare fosse una cosa tutto sommato vecchia e sopravvalutata, un po’ vile, di bassa manovalanza. Costruire un racconto è difficile e costruire un racconto serrato, tematicamente mai ovvio, attraversato da linee che convergono su diversi fuochi tematici che si completano e si chiariscono a vicenda è raro. Luca Cristiano ci riesce.
I punti di riferimento – quasi le linee di confine del “luogo cattivo” in cui il lettore si muove e ritesse nella sua fantasia le fila del romanzo – sono chiari e continuamente richiamati, messi in rete: la pioggia di qualcosa simile al cemento, che flagella e uccide, per poi sgretolarsi al suolo ed evaporare nell’aria; l’istrice investito da un’auto ed ostinato a non morire; la monetina che vortica su stessa prendendo la forma illusoria di una sfera luccicante, fino a che l’energia impressa al suo moto cessa e tutto si ferma; una misteriosa malattia che trasforma gli umani in freaks tutti-occhi, chiusi nel panopticon della loro carne sofferente, muta, inerte ma ipervedente, dentro un’altra prigione-laboratorio dove si compiono esperimenti segreti…ma l’esperimento finisce con lo sfuggire di mano.
Questi elementi narrativi sono la segnaletica di un tracciato di significati che conduce il lettore, stordendolo piacevolmente attraverso i meandri di una sapiente struttura narrativa, a una meta di consapevolezza: dell’indicibile, dell’intollerabile, del crudele che esiste e che interessa guardare per arrivare in fondo alla questione della storia di ciascuno di noi e ingollare la nostra materia pensante (altrimenti detta ‘anima’) fino alla sentina.
Nel gioco infinito della letteratura con gli aculei di questo romanzo ci si diverte parecchio. L’autore coinvolge il lettore nel piacere dell’interpretazione e dell’auto riconoscimento di sé nell’altro che scrive, che racconta. Leggendo “L’Istrice” sorridiamo complici con la voce narrante, che fa e pensa le stesse cose indicibili che pensiamo e facciamo anche noi ma che non confessiamo neppure a noi stessi. E ridiamo di fronte allo scoppio imprevisto delle bolle di sapone delle contraddizioni, dei personaggi, nostre, del narratore, della narrazione. Cosi, nel dispositivo retorico dell’antifrasi, dell’ossimoro, l’autore traduce l’essenza stessa della realtà, illusione, inganno, burla, talvolta uno scherzo venuto davvero male, che non ha diritto di stare al mondo. E se ce l’ha, si esce di scena, liberando l’istrice e noi stessi da quello che non possiamo più tollerare.
E magari, in questo guizzo liberatorio, giocando a emanciparci con l’arma carica di questo romanzo dalla toxic positivity, vuoto a perdere in un mondo sempre più bisognoso di verità e di senso, riusciamo anche a ipotizzare qualche soluzione o anche solo, leopardianamente, a imitare la ginestra, immagine di fragile e tenace resistenza alla distruzione e all’assurdo che toccano a tutto ciò che vive. Grande utopia a portata di umanità.
Ecco, “L’Istrice” ci vuole esporre, ci vuole esposti alla distopia per tirarcene fuori. Ci fa vedere il nostro dolore indecente, le viscere sparse sul selciato e ci accarezza come “un demone animalista” accarezza l’istrice malconcio all’inizio del romanzo. Da esterna, paesaggio disastrato e catastrofico da cui ci proteggiamo, come dalla pioggia di cemento sotto una tettoia, il romanzo ce la mostra progressivamente come paesaggio interiore, coinquilina di casa dei personaggi, squatter di casa nostra. La distopia ci abita. Impossibile negarla. L’istrice agonizzante sull’asfalto non si può ignorare e non si può non averne pietà, che è poi avere pietà di noi stessi.
Il coro, anzi il network, dei personaggi comunicanti, ci rivela questa possibilità di salvezza e di dignità nella conoscenza del vero (“arido”, si sa) e nella solidarietà umana. Sono voci narranti e, soprattutto, sono testimoni oculari (e oculati, in tutti i sensi del termine) dello stare al mondo o, con termine più alto, dell’esistere; tutte e tutti figure che trovano il loro completamento e avveramento una nell’altra e, sul piano intertestuale, nella rete di rimandi a cui stanno splendidamente sospesi, alludendo e rimandando a altri personaggi letterari, ad archetipi culturali, a simboli. E il più marginale, imbarazzante, strampalato, finisce corifeo e guida questo contemporaneo coro tragico alla catastrofe, cioè, letteralmente, al rivolgimento finale: è Roggo in cui si sente (io sento, arbitrariamente, libera lettrice) il rouge, rosso del rogo, della pira funebre che estingue e purifica. L’antica catarsi tragica di una attualissima distopia.
Si scrive sempre per gli altri, oltre e ben più che per sé stessi, con buona pace di chi sostiene il contrario. “Che senso ha morire piangendo se nessuno saprà che hai pianto”, per dirla altrimenti con le parole di un personaggio del romanzo. Luca Cristiano offre una bella storia, scritta bene, tutto fuorché ovvia, d’accatto, consolatoria. Leggerla è un piacere e una scoperta. Come è un piacere e una scoperta alleggerirlo del fardello del senso che ha messo in scena dandogli voce, sollevando questioni essenziali senza avere tutte le risposte, ma avendo una storia da raccontare, le parole e lo stile per farla vivere davanti ai nostri occhi.
E in mezzo ai suoi personaggi “oculari” è lui alla fine il mitico Argo panóptes, “tutto occhi/che tutto vede”, è sua la faccia del narratore onnisciente? Il romanzo pone anche queste succulente questioni (per chi, come me, ha il palato sensibile). Questioni aperte, un altro terreno di gioco per i lettori, gli interpreti.
Che poi, dopo tutto, chi e cosa è questo autore onnisciente, questo emulo di Dio che si beve l’anima dei personaggi brindando al senso ultimo, all’ultima parola della storia, di cui godrebbe in solitudine? “Che se la chiedano all’inferno”, suggerisce una voce. Buona lettura.
di Francesca Irene Sensini
Il libro:
L’Istrice di Luca Cristiano
Prospero Editore
Data di pubblicazione giugno 2020
pp. 124 – Cartaceo 12€
Sinossi:
Un uomo viene colpito in testa da un pezzetto di cemento. Un animale investito si dibatte sull’asfalto cercando di morire. Strane escrescenze spuntano sulla pelle della gente. Qualcosa di indicibile balugina dietro i vetri, mentre una monetina non smette di ruotare su sé stessa fino a sembrare un piccolo pianeta.
L’Autore:
Luca Cristiano è nato il 16/05/1980 a Potenza e vive a Pisa. Scrive su diverse riviste accademiche e militanti. Per l’editore Effigie ha curato con Enrico Macioci Dentro al nero: tredici sguardi su It di Stephen King. Nel 2016 ha pubblicato per Transeuropa la monografia Crema di vetro: misura e dismisura nei romanzi di Antonio Moresco.
Per Prospero Editore ha scritto la raccolta di poesie Brucia la cenere (2017), il volume di racconti La danza delle vergini e delle vedove (2018) e il romanzo L’istrice (2020).
Prospero Editore è una casa editrice fondata nel 2013 a Novate Milanese (MI) e prende il nome dal duca di Milano protagonista della Tempesta di Shakespeare. Mago e intellettuale che non si separava mai dai propri libri, Prospero aveva creato degli spiriti e dotato di parole i loro pensieri. Ed è in questo senso che la nostra redazione interpreta il lavoro sui testi: una collaborazione con le scrittrici e gli scrittori volta a esprimere al meglio ciò che pensano, all’insegna del motto omnia stilus solvit (« lo stile/lo stilo è una risposta a tutto »).
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