Dal dopoguerra ad oggi, il progresso linguistico del lessico delinquenziale italiano, prima però che boss e killer falcidiassero vigliaccamente il nostro ricco vocabolario criminoso, non è stato solo quantitativo ma qualitativo. Il glossario criminale, infatti, è diventato più sfaccettato compiendo dei salti di qualità che ricordano quei pastori nostrani che sono passati dall’abigeato (furto di bestiame) ai “sequestri di persona”, o quei contrabbandieri che sulle coste, di notte, non scaricavano più “bionde americane” ma poveri clandestini africani.
Prendiamo bustarella, vocabolo quasi d’altri tempi e con una connotazione casereccia. Dal dopoguerra ad oggi, in un’Italia finalmente liberata dal fascismo (che col prefetto Mori mise fuori gioco, per vent’anni, mafie, ‘ndranghete e camorre), la corruzione si è diffusa assumendo le più svariate forme tra cui il riciclaggio. Da qui la necessità di far ricorso a termini nuovi, indispensabili per indicare il particolare modus operandi delittuoso adottato nella fattispecie, e molto utili ai redattori di cronaca nera per variare la monotonia dello stile dei loro articoli.
Oltre alla bustarella noi italiani abbiamo avuto, anzi subìto, il pizzo, la protezione, la mazzetta, la tangente… Le organizzazioni malavitose campane, pugliesi, calabresi e siciliane, presenti in tutto il Paese, esigevano ed esigono non la bustarella, ma il pizzo, parola di origine siciliana. “La ‘Ndrangheta imponeva pizzo, assunzioni e forniture” (Corriere della S.).
Un certo processo di unificazione linguistica ha fatto un ulteriore passo avanti nella penisola grazie alla mazzetta, estesasi a tutto il territorio nazionale e passata dal significato quasi innocuo di “mancia” a quello di “tangente”. Sempre che si ammetta che mazzetta viene dal napoletano mazzetta = mancia, e non dall’italiano mazzetta = “pacchetto di banconote dello stesso taglio”. I giornali hanno accolto con sollecitudine questa variante utilizzandola proficuamente al posto delle solite bustarelle e tangenti, anche perché mazzetta sottolinea il ruolo attivo svolto da chi l’ha sborsata: “Incursione dei carabinieri alla ricerca di mazzette elargite alla Guardia di Finanza” (C. della S.).
Non si sa con esattezza quando scippo, scippare e scippatore si siano diffusi dal Vesuvio al resto dell’Italia, ma questo arricchimento antropologico e linguistico è relativamente recente, più o meno coevo all’esodo dei magliari, che dopo aver marciato su Roma hanno proseguito per le altre città della penisola finendo anche all’estero. È un fenomeno comunque del dopoguerra. E se Napoli ha dato camorristi, guappi, scippatori, malafemmine e magliari, la città del Vesuvio ha invece dovuto subire i ricchi e spregiudicati palazzinari, partiti questi da Roma assieme ai tombaroli e ai magnaccia. Questi ultimi si sono però trovati a dover fare i conti a Napoli con gli agguerriti ricottari (in italiano: papponi, lenoni, protettori, sfruttatori, mantenuti) dei quartieri spagnoli, abili nel maneggiare il coltello a scatto chiamato molletta. Il termine ricottaro, con cui si designa il mantenuto, deriverebbe dal fatto che sfruttare le prostitute è un lavoro facile, senza fatica, parassitario, come lo sarebbe il fare le ricotte, le quali sono lo scarto della lavorazione del latte. Secondo altri, ricottaro deriva dalla corruzione fonetica delle parole napoletane coveta, raccoveta, recoveta, ossia la raccolta, la colletta che i camorristi, tra cui non mancavano i lenoni, effettuavano tra il popolo in aiuto degli affiliati finiti in galera.
Anche se latitante non è un termine napoletano, la canzone neomelodica partenopea gli ha reso i dovuti onori musicali, tanto che si è tentati di napoletanizzare questo termine facendolo precedere dall’articolo ‘o: “‘o latitante”, degno eroe di una sceneggiata. Dall’impareggiabile Napoli ci è giunta ultimamente la stesa, ossia la pratica criminale dei giovanissimi camorristi – chiamati “la paranza” – che per affermare l’egemonia del loro clan su un angolo cittadino non ancora gestito pienamente dalla camorra ufficiale, vi effettuano una veloce incursione sparando all’impazzata in tutte le direzioni. “Fare la stesa” suona come “fare la spesa”, ma a fare le spese del caotico mondo criminale napoletano è la povera gente costretta a subire gli atti brutali di questi “cani sciolti” della camorra.
L’apporto della Sicilia, in materia di crimine, alla ricchezza linguistica nazionale non può essere sottaciuto. Oltre alla mafia, l’isola del sale e del sole ha dato il pizzo, l’intrallazzo (‘ntrallazzu), l’omertà (alcuni dicono che derivi invece dal dialetto napoletano umirtà = umiltà), la lupara, i picciotti, i “pezzi da novanta”… Ma ha fornito anche, grazie a Sciascia, gli ominicchi che si sono trovati al loro fianco i quaquaraquà napoletani, gli uni e gli altri numerosi sia tra i balordi della mala sia nelle sale del potere politico.
La vendetta, rivendicata dai siciliani ma ancora di più dai sardi e dai corsi, è nata probabilmente in una di queste isole mediterranee ridondanti di onore; un onore da “delitto d’onore” per un tradimento compiuto sotto le lenzuola, e da sgarro per un tradimento dei doveri di obbedienza e di omertà, e causa di interminabili vendette e faide. La faida avrebbe nientedimeno origini germaniche, ma le popolazioni delle isole mediterranee l’hanno fatta propria. Un raro esempio di “virtù” germaniche trapiantate con successo, nei tempi andati, in Italia. Ma la faida ha perso molto del suo vigore originario a causa anche della denatalità.
Nell’“onorata società” dei camorristi, lo sfregio sul viso fatto col rasoio era un gesto rituale di comando compiuto dall’“uomo di rispetto” su chi aveva tradito la sua fiducia. Questo tipo di sfregio non va confuso con quello inferto sul viso della donna di cui il camorrista era innamorato, ma dalla quale era stato respinto forse perché la “guagliona” era stata promessa ad un altro. Lo sfregio era spesso, paradossalmente, un motivo di orgoglio per la stessa donna che lo subiva, perché considerato da lei prova d’amore e spesso anche anello di fidanzamento e insieme fede matrimoniale.
Nella ‘Ndrangheta – distinta in società maggiore e società minore – gli affiliati sono designati secondo il grado gerarchico. Io citerò gli ‘ndranghetisti in ordine sparso, e spero di non commettere uno sgarro mancando, senza volere, di rispetto a qualcuno di questi uomini straboccanti onore malavitoso: picciotto d’onore (primo livello della società minore), santista, sgarrista o camorrista di sgarro, quartino, trequartino, padrino (o quintino), mastro di giornata, puntaiolo, capobastone, contrasto, contrasto onorato, giovane d’onore.
I germogli, i rampolli, le gemmazioni di mafia, camorra e ‘ndrangheta hanno alterna fortuna. Una buona notizia per i glottologi, filologi, linguisti: una delle ultime gemmazioni, La Santa o Società maggiore, organizzazione criminosa nata negli anni settanta in seno alla ‘Ndrangheta calabrese, sembra aver attecchito. Chi vi fa parte è chiamato santista. L’organizzazione, insomma, per il momento tiene. Non c’è che dire: nella terra di San Francesco e del brigante Musolino il cielo sembra proteggere anche i devoti “santisti”.
Claudio Antonelli
Link interno:
PARTE I dello studio di C. Antonelli sui vocaboli e termini della malavita:
Il vocabolario della criminalità. In difesa dell’onore della lingua italiana.
Link esterno utile, tra l’altro per gli insegnanti:
Il dizionario della mafia. Progetto di educazione alla legalità del Liceo Crespi.