L’homme blanc ou la régression identitaire (Liana Levi). Intervista a Ezio Mauro, autore del libro.

Festival Libro Parigi 2023Parigi, Festival del libro. Nel febbraio 2018, in piena campagna elettorale per le elezioni politiche italiane, un uomo di 28 anni si alza, prende una pistola e sale in macchina. Dice a una barista: “ciao, vado a fare una strage”. Si chiama Luca Traini, si è ribattezzato “Lupo”. Vive vicino a Macerata, nelle Marche, dove pochi giorni prima una ragazza di 18 anni, Pamela Mastropietro, è stata uccisa e (letteralmente) fatta a pezzi. Per la sua morte è stato arrestato Innocent Oseghale, nigeriano. Traini vuole vendicare Pamela. Il colpevole è l’uomo nero, a dargli la caccia ci pensa lui, l’uomo bianco. Spara. Ferisce sei immigrati africani, che con la morte della ragazza non c’entrano nulla. Va a deporre la scatola di proiettili (vuota) e una candela con l’immagine di Mussolini nel posto in cui sono stati trovati i resti di Pamela. Parte da qui, da un’Italia profonda, livida, spettrale, il libro L’uomo bianco di Ezio Mauro (storico direttore della Stampa e di Repubblica), pubblicato in Italia da Feltrinelli e uscito ora in Francia, con titolo L’homme blanc (sottotitolo: ou la régression identitaire), per le Editions Liana Levi.
Il libro alterna il registro della cronaca a quello del saggio. La cronaca racconta la caccia del lupo e altri esplosioni di violenza razzista. Il saggio indaga la “regressione identitaria” (di cui la storia di Traini è un rivelatore certamente estremo) degli “uomini bianchi”, che si sentono messi in un angolo, sconfitti. “Assediati” dagli immigrati, dimenticati dalla politica, ignorati dai mezzi di comunicazione, disprezzati dalle istituzioni e dalle classi medio-alte. È la categoria americana dei “forgotten men”. Serbatoio di consenso per i nazionalismi e le pulsioni anti-democratiche, autoritarie.

Al Festival du livre di Parigi, ne abbiamo parlato con l’autore Ezio Mauro. Un ringraziamento alla casa editrice Liana Levi e in particolare ad Amandine Labansat, responsable presse et communication.

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Il titolo del libro, “l’uomo bianco”, emerge da un verbale della polizia.

Un signore entra in un cantiere, dove degli immigrati stanno cercando di prendere delle lastre di ferro per il tetto della loro baracca. Un cantiere in disuso, che non appartiene a nessuno. Non rubano niente. Questo signore si piazza in una posizione sopraelevata con il fucile, lo punta. Spara al corpo, alla testa, di un immigrato che si chiama Soumayla, e lo uccide. E poi continua a sparare agli altri. Uno dei sopravvissuti, nel raccontare questo fatto alla polizia, dice: era un uomo bianco. Qualcuno può andare per strada a sparare a un uomo di colore (Traini diceva “vado a sparare ai negri”) non per ciò che hanno fatto ma per ciò che sono. Basta il colore della pelle. Nel momento in cui tu rendi una persona bersaglio del tuo odio e gli spari soltanto perché è nero, anche tu ti trasformi. Trasformi lui in un bersaglio ideologico, e tu precipiti in questa identità altrettanto ideologica di uomo bianco. L’indigeno italiano. Una figura che non c’era, che sembra venire fuori dai romanzi di Harper Lee. Noi non eravamo abituati ai conflitti delle società multiculturali. In questo siamo in ritardo rispetto alla Francia, che fa i conti con questi problemi da decenni.

Nell’epoca del multiculturalismo, e della cosidetta “globalizzazione”, riemerge un’identità basata sul gruppo etnico. Sul colore della pelle.

L’uomo bianco è quello che siamo ma che allo stesso tempo non ci siamo mai accontentati di essere. Siamo partiti da questa caratteristica naturale e abbiamo aggiunto nella nostra identità centinaia di altre cose. A me non capita di presentarmi a te e dire: piacere, sono Ezio Mauro, bianco. Se non ci conosciamo, ti dico sono italiano, vivo a Roma, sono un giornalista. Mille sovrastrutture definiscono la nostra identità. Quando invece ti definisci come “uomo bianco”, vuol dire che ti spogli di queste sovrastrutture culturali, politiche, sociali. Rimani regredito soltanto all’identità primordiale del colore della pelle e del sangue.

Ezio Mauro

“L’uomo bianco” del libro è il forgotten man, come dicono gli americani. 

Io ho fatto un salto sulla sedia il giorno della vittoria elettorale di Trump. Non ha ringraziato il partito, l’establishment, Wall Street, ma si è rivolto proprio ai cosidetti forgotten men. Se sono rimasto colpito io, figurati loro. “L’uomo dimenticato” lamenta soprattutto un misconoscimento: pensa che nessuno si faccia carico di lui. I fenomeni che lo avviluppano (la mondializzazione, le crisi economiche, la crisi sanitaria, le “invasioni”, come le chiama lui, degli immigrati) lo sopravanzano. Sono troppo grandi. Quest’uomo pensa che la politica non lo tuteli più, e d’improvviso invece arriva un politico che si rivolge direttamente a lui e gli dice, come Gesù al ladrone alla sua destra: tu domani sarai con me in paradiso. In quel momento è come se Trump dicesse: tu domani entri con me alla Casa Bianca.

Il corto circuito tra un miliardario e un popolo “dimenticato” celebra la scomparsa della politica come luogo di mediazione del conflitto.

La politica, che dovrebbe essere l’organismo sociale deputato a intercettare i bisogni sociali di queste persone, dà delle risposte che, anche se giuste, non bastano più: avere pazienza, fiducia nella democrazia. Invece il cosidetto populista prende il risentimento del forgotten man nella forma incandescente. La politica è stata inventata per decantare le emozioni, emancipare il cittadino delle paure. Il populismo invece è interessato a intercettare le paure così come sono. Non vuole dare la possibilità di emanciparsene, ma usarle come misura di esplosione del sistema. E incoraggia l’uomo dimenticato a dare un calcio al tavolo.

L’uomo dimenticato, per odio verso le “élites”,  finisce per identificarsi non nella sua classe sociale, ma nella sua identità etnica e in un miliardario come Trump.

C’è in Trump una caratteristica di anomalia rispetto all’establishment, che paradossalmente lo fa apparire come estraneo all’élite. Il suo modo di vivere, il suo sessismo, le mani addosso alle donne, le frasi contro il sistema, tutto questo fa sì che il forgotten man sviluppi quasi una dipendenza etologica. Come le oche, che seguono il cammino dietro la padrona che dà da mangiare. Perché la sua irregolarità garantisce che nessuno gli metterà mai il guinzaglio.

Il sovversivismo delle classi dirigenti di cui scriveva Gramsci.

Berlusconi ha anticipato alcuni di questi fenomeni. Ad esempio non accettare mai la sconfitta. Se un uomo che è stato al governo dice che le elezioni sono truccate, mina il processo democratico, quando invece dovrebbe tutelarlo. Il leader populista deve essere per definizione innocente. Invulnerabile. Se perde, è per colpa di qualche elemento esterno, malvagio. In modo che lui rimanga intatto al centro del carisma perfetto.

Scrivi che, paradossalmente, a essere accusata di non difendere le tradizioni dei suoi popoli è proprio la tradizione fondante della democrazia europea: liberté (istituzioni, stato di diritto), égalité  (diritti, stato sociale), fraternité (solidarismo, cristianesimo).

È il problema che abbiamo davanti nei prossimi anni. Una consunzione della promessa democratica. I leader autoritari ne approfittano. Putin, nel messaggio al Financial Times nel 2018, dice che la democrazia non deve essere per forza liberale, che esiste cioè una democrazia illiberale, che nega lo stato di diritto. Ma il messaggio è più sottile; Putin in quel momento sta dicendo agli elettori, e anche al forgotten man, che la democrazia è un prodotto del Novecento, che non riesce a varcare le colonne d’Ercole del secolo. Perché funziona solo negli anni del benessere, della redistribuzione di ricchezza. Negli anni della crisi, il discorso diventa un altro: liberare il potere dagli orpelli dello stato di diritto, dei controlli di legittimità, delle minoranze. Io sono investito dal voto. Tu, popolo, sei il sovrano e trasmetti la sovranità a me. La democrazia fatica, se misurata in termini di efficienza ed efficacia. Molta gente sfiduciata non va a votare ed è come se dicesse: che io voti o non voti, per la mia vita materiale non cambia niente. Dovremmo chiederci perché la democrazia non è riuscita a diventare tradizione e difesa dell’Occidente, tradizione di libertà. E capire perché non è affascinante, perché è vista come una cultura a sangue freddo. Questa è l’insidia. Bisognerebbe rovesciare lo schema e spiegare al cittadino prima di tutto che, anche se i candidati non ti soddisfano, c’è sempre la possibilità di distinguere tra l’uno e l’altro, ed è in questa capacità di distinzione che sta il tuo diritto di cittadinanza. Però capisco che è un processo complicato. Mussolini nel marzo del 1922 fa questa affermazione testuale : il secolo democratico, il secolo del numero, della quantità e della maggioranza, è finito. Può darsi che nel Novecento il capitalismo non potesse fare a meno della democrazia, e che oggi invece possa farne a meno. Lo stato di tutti diventa lo stato di pochi.

festival livre Paris
Ezio Mauro (al centro) al Festival del libro di Parigi. A sinistra il prof. Carlo Ossola.

Il nostro secondo dopoguerra, scrivi, si è fondato su un patto tra capitalismo, stato sociale e istituzioni democratiche, che sembra essersi esaurito.

Questo concetto del patto vale per tutto l’Occidente e in particolare per l’Europa, dove ora però si sta corrodendo. Uno dei risultati della comunicazione populista e xenofoba è una inedita gelosia del welfare. Privatizzazione dei diritti, un concetto di libertà che rovescia lo spirito stesso della parola. Io sono libero non più perché posso dispiegare liberamente le mie facoltà, ma in quanto liberato di ogni vincolo sociale nei confronti tuoi e di tutti gli altri. Non è più libertà, ma quella che io chiamo egolibertà. Il ricco per la prima volta nella storia della civiltà può fare a meno del povero. Il ricco vive negli spazi transnazionali dei flussi di informazione, dei flussi finanziari; il povero nei sottoscala degli stati nazionali. Abitano nelle stesse città ma in due dimensioni completamente diverse. E allora il ricco può dire, come Caino: “non sono il custode di mio fratello”.

Per Spinoza, l’uomo razionale troverà più libertà nello stato che nella solitudine. L’uomo bianco del tuo libro invece sembra cercare una sua libertà nella totale solitudine.

Molti considerano nemico non solo lo stato democratico, ma anche la stessa dimensione sociale. Naturalmente questo nasce da una mistificazione. La politica è nata per emancipare le persone dalla paura. Anche fenomeni come l’immigrazione sarebbero governabili con gli strumenti tradizionali, senza bisogno di vivere in uno stato artificiale di emergenza continua. Ma se un pezzo di popolazione è caduta in queste condizioni, è perché le diseguaglianze sono diventate esclusioni. Quando le diseguaglianze diventano esclusioni, la democrazia è con le spalle al muro. Perché per statuto, o funziona per tutti o c’è qualcosa che non va.

Sinistra, diceva Nenni, è portare avanti chi è nato indietro

E anche riconoscere il merito, che non va lasciato alla destra. La formula di liberare le persone dal bisogno e riconoscere, consentire il merito penso si possa riassumere nel tentativo di costruire un’alleanza tra l’emancipazione e l’innovazione. Convincere i protagonisti dell’innovazione che devono occuparsi dell’emancipazione, tenere assieme le due cose.

L’uomo bianco del tuo libro, Luca Traini, in carcere fa amicizia con degli immigrati, risponde con toni pacati a lettere di ammiratori. Come se avesse trovato un’identità.

Nei verbali dice: scopriranno che proprio io sono il protagonista di questo fatto. Si sente finalmente rivalutato. Pensa di compiere un sacrificio sociale a nome di tutti. Sa che sta compiendo un sacrilegio, un atto empio, e pensa di farlo quasi su mandato universale. Crede di essere lo strumento di rottura, di riscossa. E questo lo pacifica, lo esalta. Anche se è drammatico dirlo, il carcere è una sorta di sistemazione in una vita che non aveva un perno, amicizie.

Nel libro richiami un celebre quadro di Edward Hopper per descrivere la solitudine disperata delle periferie in cui vagano i “forgotten men”.

Quelli che racconto nel libro sono casi limite, estremi. È molto difficile scendere l’ultimo gradino, quello che ti fa prendere la pistola e sparare. Perché devi superare dei tabù. Il tabù dell’uomo contro uomo, del non uccidere. Del Cristianesimo. Della democrazia, della convivenza civile. Ma esistono molti che non sono sull’ultimo gradino, ma seduti sugli sgabelli del bar di Hopper. Persone che si sentono in credito nei confronti del sistema. Pensano di meritare di più, pensano magari che il vicino di casa è stato premiato da un ascensore sociale che loro non hanno preso. Queste persone sentono di avere in tasca una cambiale che sanno di non poter esigere. Questa è la loro drammatica frustrazione.

La desertificazione del territorio è accentuata dalla progressiva scomparsa dei corpi intermedi.

Questo tipo di ribellione cerca proprio la disintermediazione. Crede al mito di farsi strada da soli. Saltare le barriere artificiali. La democrazia diretta, la piattaforma Rousseau dei 5 Stelle. Queste stupidaggini.

Traini nel suo raid spara anche a una sede del Partito Democratico.

Il PD è visto come il partito della globalizzazione e delle porte aperte, il partito che porta confusione e minaccia. E anche il partito delle élites, il partito del sapere, nel momento in cui il sapere è rifiutato perché considerato un’espressione castale. Se il sapere lo riserviamo solo per noi, diventa un bitcoin di riserva, che non arriva a toccare le condizioni di vita degli emarginati. Che quindi rifiutano. L’ignoranza diventa una garanzia di innocenza, in quanto segnala estraneità al sistema. E questo porta poi alla scelta “no vax”. Il rifiuto della protezione sanitaria dei “no vax” è innanzitutto rifiuto della scienza. Diffidenza. Un indicatore della distanza tra il centro del sistema e la loro vita. Sono talmente distanti che il diffidare è il primo elemento da cui si sentono protetti.

Il disprezzo dei ceti dimenticati verso le istituzioni e la cosiddetta “casta” sembra ricambiato. In Francia, nelle manifestazioni contro la riforma delle pensioni, Macron è stato chiamato “méprisant de la République”.

Il disprezzo corre nelle due direzioni. L’élite si deve certamente porre il problema della sua disconnessione da un pezzo del corpo sociale. Non è vista solo come un ceto privilegiato, dominante, ma anche come un ceto usurpatore. Problema drammatico per la ricomposizione della società. E c’è una classe (che non sa più di essere classe, perché vive solo nel risentimento e nella ribellione) che disprezza la democrazia. Cosa diversa  dal criticarla, che è invece esercizio utile. Guarda sulla guerra in Ucraina. C’è tutta una fetta della popolazione che simpatizza per la Russia di Putin quasi senza saperlo. Se chiedi se stanno dalla parte di Putin, la risposta di solito è no: non tanto per convinzione, ma perché c’è un interdetto, un tabù. Però poi queste persone non stanno dalla parte della democrazia. Io credo che le ragioni per cui gli ucraini muoiono siano non solo la difesa della loro patria, delle loro case e del futuro dei loro figli, ma anche la difesa dei nostri valori. Qualunque sinistra che si ricostituirà dopo questa fase dovrà avere alla base quei valori fondamentali. Molti non credono nella necessità della democrazia. E questo vale anche per quelle che io considero pseudo-sinistre, per esempio i 5 Stelle; forze che hanno degli elementi popolari che vanno intercettati,  ma anche elementi di mistificazione e di avvelenamento dei pozzi.

La prima edizione del libro è del 2018, l’anno della legislatura che porta i 5 Stelle al governo. E che poi sfocia nel governo più istituzionale mai visto, quello Draghi.

Il che mostra che il nostro processo istituzionale, parlamentare non funziona. Perché in tutto questo il cittadino non viene interpellato.  E il PD viene visto come una forza di galleggiamento, per definizione governativa, che sente la responsabilità di portare sulle sue spalle l’architrave del sistema: o garantisce il sostegno oppure si va ad elezioni. E la sinistra non sceglie mai la prova elettorale, come se ne avesse paura. Questo spiega la sua consunzione.

Meloni alla guida del governo da “underdog”, con pose da popolana. Schlein alla guida del PD con un profilo cosmopolita. La politica italiana sembra inseguire gli stereotipi dell’immaginario collettivo.

Mi viene in mente una frase di Bobbio sul Partito Comunista : si interrogano sul loro futuro e non capiscono che dipende dal loro destino. Il punto fondamentale è sempre capire chi e cosa sei. Il PD deve ancora e sempre mettere al suo centro il tema del lavoro. Non può sostituirlo con i diritti civili. Un elemento fondamentale, ma che deve aggiungersi a un’architrave che è la questione del lavoro. Che comporta automaticamente la questione della cittadinanza. IL PD deve essere il partito della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Quanto a Meloni e Schlein, il fatto che sia stata la destra estrema a portare una donna, e anche giovane, a palazzo Chigi, indica il ritardo della sinistra. Se sei la forza dell’emancipazione, della liberazione dell’energia politica e culturale delle donne, come fai ad accettare di non essere stato tu a porti il problema? E ci arrivi dopo con la Schlein. L’elemento femminile è stato una componente dell’appeal che lei ha avuto sull’opinione pubblica, perché visto  come un elemento di discontinuità. Però ha contato ancora di più l’aspetto dell’assalto al quartier generale. Perché nel PD oggi chi parte sparando sul quartier generale ha un 15% di dote in una busta chiusa.

Tu scrivi che le democrazie si sentono assediate ma che, nonostante tutto, non siamo in una situazione paragonabile a quella degli anni Venti del Novecento.

La democrazia non subisce più un attacco frontale. Anche qui c’è un interdetto della storia. Non siamo davanti a un assalto al Reichstag, un assalto diretto alla democrazia. C’è invece un tentativo di salvare la superficie e la forma, e di attaccare la sostanza. Ad esempio, Meloni è di sicura lealtà atlantica, ma non di sicura fedeltà ai valori occidentali. Nella Meloni c’è un non detto. Non metto in discussione che lei sia sincera nella lealtà alla NATO, ma non mi basta. Vorrei sapere se condivide i valori della cultura occidentale. Ad esempio, lei stava con gli stati di Visegrad nella polemica con l’Unione Europea sullo stato di diritto. Io voglio sapere se lei concepisce un’Italia pienamente integrata nel sistema di ideali dell’Occidente oppure se naviga verso qualcos’altro. Dietro c’è una questione fondamentale, perché il concetto di democrazia non è più un universale comunemente accettato, ma si è spezzato. Ne esistono diverse interpretazioni. Ad esempio Putin dice, la democrazia non deve necessariamente essere liberale. A quale concetto della democrazia aderisce chi guida il nostro paese? Ecco perché il giudizio sul fascismo è importante.  Non perché abbiamo il torcicollo e guardiamo indietro. Ma per capire quale è l’idea del futuro e della democrazia. Tu hai detto una cosa su cui io ho dei dubbi, e cioè che lei cerca la normalizzazione. Io credo che lei cerchi l’istituzionalizzazione. Mantenere l’anomalia le conviene, perché è un elemento identitario. È drammatico dirlo, ma persino non recidere i nodi con il post fascismo italiano contribuisce alla sua alterità. Giorgia Meloni non vuole essere messa nel mazzo del sistema politico. Sta con un piede dentro e uno fuori. Venire dal buio di quel mondo è come venire da un altro pianeta e lei non cerca quella che i francesi chiamano la bémolisation, l’ammorbidimento negoziale delle sue tesi; “accettatemi, diventerò come voi”. Lei dice invece: non sono fascista ma non divento antifascista.

Il governo Meloni accentua la polarizzazione. Vedi le polemiche sulle proposte per limitare l’uso di parole straniere e sulla natalità (l’incredibile uscita sulla “sostituzione etnica”). Ma qui in Francia, la custodia della lingua nazionale e il sostegno alla natalità non sono temi esclusivi della destra nazionalista.

Questo dimostra che in Italia la destra detta l’agenda. La sinistra si muove dentro  questa agenda a disagio, senza una posizione precisa, mentre la destra ne fa un uso identitario. Il problema demografico è un problema reale per tutti,  e il PD dovrebbe avere una sua posizione. Ma quando la destra lo coniuga con l’elemento della sostituzione etnica, è ovvio che si debba rispondere a questa stupidaggine. Gli intellettuali liberali non stanno usando nei confronti della destra estrema che ci governa neanche un millimetro della pedagogia che hanno usato nei confronti del PCI negli anni del legame con l’Unione Sovietica. Capisco che si possa dire che la Meloni deve durare per l’intera legislatura in nome della stabilità del sistema. Ma contemporaneamente, non si può tacere di fronte alla negazione di certi valori come l’antifascismo. Al rifiuto di dire una parola chiara e definitiva sulla natura del fascismo. La destra si limita a condannare soltanto degli episodi clamorosi come la deportazione razziale; e ci mancherebbe altro. Esimendosi dal dare un giudizio sulla natura del fascismo. Su questo perché l’intellettualità italiana non dice nulla? Anzi, molti intellettuali italiano sono gli enzimi che sciolgono i nodi delle contraddizioni della destra, prima che arrivino sul tavolo di palazzo Chigi. È un tradimento dei chierici.

Come giudichi le esternazioni del Presidente del Senato La Russa su Via Rasella, sulla Costituzione?

Prova a spostare i muri del sistema. Vedere quali sono i limiti.

Tu conosci bene il mondo russo. Come si è passati dal Comunismo sovietico al neo-nazionalismo autoritario e tradizionalista di Putin?

Nella rottura di Michail Gorbačëv era evidente la mancanza di una teoria politica. Lui lasciava le sponde del sistema sovietico ma non sapeva dove andare. Non aveva l’obiettivo di arrivare alla democrazia, ma quello di salvaguardare il sistema. Era il mandato che aveva ricevuto; dopo l’esperienza di Černenko si capiva che il sistema aveva i piedi d’argilla. Gorbačëv  ha messo in atto il processo di riforma senza una cultura e una classe dirigente adeguate. Ha pensato di poter dosare le aperture, ma quando socchiudi la porta della dittatura, poi non riesci più a regolarne l’apertura. Appena i paesi che erano stati soggiogati, come quelli baltici, hanno potuto spalancare quella porta con un calcio, lo hanno fatto. Mi ricordo che con i colleghi americani eravamo a Vilnius, in Lituania, dal professor Landsbergis Lansbersghis, capo del movimento nazionale, e dicevamo: se esagerate mettete in crisi la Perestrojka. E lui diceva: siamo a un passo dal compiere il nostro destino  e dovremmo fermarci per non turbare i vostri riferimenti? Aveva ragione lui. A un certo punto è andato alla finestra, nevicava. Mi ha fatto vedere la statua di Lenin coperta di neve che aveva il dito puntato verso il suo ufficio e mi ha detto: sono settant’anni che tiene il dito puntato verso di me; adesso che posso spostare quel braccio dovrei fermarmi? Nell’evoluzione di Putin, c’è un’occasione persa dall’Occiente. Nel 1991 con la fine dell’URSS abbiamo fatto l’errore di pensare che la Russia potesse essere trattata come una potenza domestica di seconda fascia. Perché abbiamo pensato che la dimensione imperiale fosse una sovrastruttura imposta dallo stalinismo e dal bolscevismo. Senza capire che invece la dimensione imperiale è connaturata all’anima russa. C’era prima dell’esperienza sovietica e dura dopo. Indipendentemente dall’estensione territoriale. Corrisponde a quella tensione eterna  che vuole vincere la condanna secondo cui i popoli slavi hanno nella terra più spazio di quello che hanno nella storia. Che Putin abbia parlato a quell’anima imperiale spiega in parte il suo consenso. Adesso la guerra sta rimettendo in discussione tutto. Putin si è giocato un ruolo automatico di leader di una grande potenza mondiale mettendo tutto in discussione, perché ha capito che alzare la bandiera nera dell’anti democrazia, dell’anti occidente è più redditizio. Perché se noi guardiamo il mondo di oggi alla luce di questa guerra, dobbiamo concludere drammaticamente che la democrazia è in minoranza. Siamo passati in pochi anni dall’illusione, dopo la fine del Novecento, che la democrazia fosse l’unica religione civile superstite, universale, a prendere atto che siamo minoranza nel mondo.
Ora faccio io una domanda a te: e se la democrazia fosse davvero una creatura del Novecento? Chi ci garantisce che non è cosi? Le nostre generazioni sono cresciute pensando che la democrazia sia una sorta di risorsa naturale. C’era quando siamo nati, e c’è ancora oggi. In realtà è solo una costruzione umana. Come tale, ha le sue fragilità. Ha bisogno di cure, manutenzione. Potremmo scoprire che la democrazia non ce la fa. Proprio il fatto che la democrazia accetti e denunci le sue debolezze è un elemento della sua forza. E invece viene visto come un elemento della sua condanna, della sua inefficacia. È evidente che per la democrazia si apre una fase complicata.

Grazie da Altritaliani !

Intervista di Maurizio Puppo
(Paris, Salon du livre, 22 aprile 2023)

IL LIBRO:
L’Homme blanc ou la régression identitaire
Auteur: Ezio Mauro
traduit de l’italien par Jean-Luc Defromont
Editions Liana Levi
Date de parution : 30 mars 2023
12 x 19 cm – 160 pages – 14,00 € – Version numérique 10,99 €
Site de Liana Levi et résumé en français

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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