Samuel Beckett, irlandese, cominciò a scrivere nella sua lingua madre, l’inglese, e poi scelse di continuare in francese. Lingua in cui gli era più facile, diceva, “d’écrire sans style” (cioè sottrarsi alla retorica letteraria). Vladimir Nabokov, russo, celebre per lo “scandaloso” Lolita, scrisse la propria autobiografia in inglese, per poi tradurla nella sua lingua madre. Tradurre è “dire quasi la stessa cosa” (per Eco), ma anche (per etimologia) una maniera di tradire; e la versione russa venne fuori completamente diversa. Diversi i ricordi. Diversa, forse, la vita stessa di chi l’aveva scritta prima in una lingua e poi in un’altra.
Muriel Peretti è un’autrice francese che scrive (anche) in lingua italiana: quella del paese in cui abita, ormai da un po’. E dove ha pubblicato, un anno fa, il libro “Passerelle” (edizioni Ensemble)[Vedi QUI]. È fuggita dalla lingua materna per tornarci, visto che adesso ha scritto un testo in francese, Les exils, destinato alla pubblicazione in Francia (Cercasi editore!). E nelle due lingue non scrive mai la stessa cosa. Perché una lingua non è una convenzione grammaticale e lessicale, ma un mondo. Questo racconto (Lettres d’Italie – Horace, pubblicato nel volume Congiunti da Ensemble) parte dal profondo di quel mondo. La frase di una canzone. In Italia, se dite a qualcuno “caro amico ti scrivo”, vedrete che tutti (almeno da una certa età in su) vi risponderanno “così mi distraggo un po’”. L’incipit di una canzone di Lucio Dalla. Divenuto “memorabile” in senso proprio: se lo ricordano tutti. La canzone è “L’anno che verrà” e segna, per l’Italia, l’alba degli anni Ottanta del secolo scorso. La fine degli “anni di piombo” e l’ingresso in una incompiuta modernità, quella di eterno “paese mancato” (titolo di un libro dello storico Guido Crainz) che ci accompagna fino all’oggi. Con le morti per Covid-19, solitarie e disperate (come tutte le morti, del resto). E alla fine del racconto, il gioco di specchi linguistici rivela il suo inganno, in un soprassalto dell’inconscio. La Corsica, dove l’autrice è nata, appare come un miraggio dalla costa della Toscana. Ho scritto che Muriel Peretti è un’autrice francese che scrive (anche) in italiano? Ho sbagliato. (Mi capita spesso). Oltre al francese, Muriel ha ascoltato e parlato il corso. Lingua che nasce (filologicamente parlando, nessuno si senta offeso) come dialetto del toscano, sporcato dagli influssi viaggiatori del Mediterraneo. E l’italiano altro non è che l’istituzionalizzazione in lingua nazionale del toscano. (Un tempo agli annunciatori della RAI si indicava come modello di “lingua perfetta” il toscano epurato da accento ed espressioni regionali). E allora, lo si vede da sé che, scrivendo in italiano, Muriel Peretti crede di fuggire, e invece torna. Torna per vie traverse a una misteriosa e inafferrabile lingua materna. La vita, diceva quel Beckett da cui siamo partiti, è un eterno smarrirsi sulla porta di casa. Qui ci si smarrisce tra Francia e Italia, Corsica e Toscana. Ma la porta di casa, come nella nebbia di Amarcord, è sempre lì. A due passi.
(Introduzione di Maurizio Puppo)
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«Lettres d’Italie» – Horace 4 aprile 2020
di Muriel Peretti
tratto da “Congiunti”
Caro Amico,
ti scrivo così mi distraggo un po’. La canzone la sai? Ovvero, questa canzone la ricordi? Era il 1979 quando la scrisse Lucio Dalla, il terrorismo in Italia faceva stragi. Si chiama L’anno che verrà, dà all’album il suo titolo. Così ho pensato bene di usare quel suo famoso incipit per iniziare questa lettera. Mi piace la sua profondità e il suo senso dell’umorismo. Me la canticchio sempre con piacere. «Canticchi sempre», così dicevi. Une distraction.
Distratto invece non lo sono affatto. Forse mai mi hai visto così concentrato come in questo momento. Non so se risponderai, sei tanto impegnato lo so, quel che chiamano “il successo “professionale” fa spesso perdere di vista tante cose, e intanto ci ha fatto perdere di vista l’un l’altro, non è così? Non si fanno domande se non si aspetta una risposta. Scrivere è diventato uno svago, lo esercito spesso, soprattutto, lo devo ammettere, da quando ho avuto la grande sfortuna di dover rompere il televisore, o vice versa il televisore ha avuto la grande sfortuna di essere rotto da me. Non è stata una scelta facile. E poi per la stagione il tempo è ancora fresco, e ho accorciato le passeggiate mattutine. Non credere, niente di grave.
È solo che ultimamente, pur coprendomi bene, c’è un freddo che mi entra dentro, giorno dopo giorno, come a gocciole spudorate e subdole in parti ben precise del corpo, un’invasione metodica che non si può evitare. Tu penserai che è la solitudine a generare il freddo, è un errore. Più che altro, comme distraction, sappi che scrivo poesie, è un genere che stenta da anni e anni a farsi valere, eppure è così potente.
Ma torniamo a te. Torniamo a te, caro Amico. Dimmi un po’. Quanto tempo senza novità. Novità, ho scritto. Ovviamente volevo dire notizie. Scemo, no. Oh pensieri, se hai tempo per pensare, un tempo pensavi tanto. Del terrorismo parlavamo.
«Si può fare strage di cuori sai, lì era strage di vite» così dicevi, la parlantina facile l’hai sempre avuta. In quelli anni. Io percepivo una lunga strage dell’umana lucidità, una lunghissima strage con ripercussioni lontane, lontanissime. Eppure ho sempre cercato di capirlo il terrorismo, ma si urtava in me a un valore immenso, che non credo mi abbia insegnato nessuno: civiltà. La chiamano civiltà, mi sembra il nome adatto. Per me era istinto. Te mi ritieni pignolo, o mi ritenevi, a cercare la spiegazione, la parola più adatta. E penserai: «Non è cambiato affatto il mio Horace». Invece è cambiato eccome. Sul tavolo te lo devo dire tengo sempre il cavallo etrusco, ovvero una riproduzione che mi regalai anni fa. Non è un cavallo di Troia. Anche se quando me l’hai regalato, era quel periodo in cui eravamo così tanto amici da avere un pizzico di odio nei confronti l’uno dell’altro per tutta questa assoluta vicinanza. Ma passò con Mariù. È un cavallo, tutto qua, non nasconde nessun segreto, ha il collo dritto e una gamba alzata come in un valzer perfetto. Di un’eleganza pura, non credo il modello sia stato di razza, ma di etruschi poco o niente so. È civiltà. Questo è sicuro. Qualcuno voleva in fondo “cambiare razza” con le stragi non è vero? O almeno annientarne una. Però colpirono tutti. Per colpire “chi si deve” dovreste colpire tutti? Scusami per il “dovreste”. Quante volte mi guardarono, c’eri anche tu? Mi guardarono, sì, con un’aria sufficiente, quelli del proletariato recente, mi guardavano sempre male, non perché rappresentavo qualcosa, ma perché io lo ero, il proletariato, quello vero. A loro davo tanto fastidio. L’ironia è più cosa tua. Ma la battuta sul “proletariato recente” non me la toglie nessuno. Quello erano. Praticamente si mettevano i vestiti che andavano bene per il loro nuovo ruolo: i borghesi passati alla lotta. Niente di peggio che la gente che cerca tramite sfumature palesi di sfuggire al proprio destino, per poi rimanere intrappolata lì. Ho un ricordo che a volta di notte non mi fa dormire. Senza cattiveria, spero non faccia dormire neppure te ogni tanto. Ricordi i suoi baffi? Chi ha baffi così allisciati non ha tempo di essere un proletario. È un borghese. Ma lui in effetti no. Aveva baffi allisciati, ma dentro era tutto un subbuglio di proletariato. Perché altri li vedevo. Facevano finta. Lui no. Dava tutto. Se glielo avessero chiesto, avrebbe accettato anche di avere i baffi meno allisciati. L’eleganza era la sua indole; ma era pronto a rinunciarci. Come si chiamava? Lo potresti dire meglio di me. Io sapevo solo il nome in codice. E quello mai si dice. Invece c’era quell’altro. Il finto intellettuale, con il mento sfuggente e gli occhi da furetto inferocito di non essere riconosciuto come animale nocivo. E te lui ammiravi. Ma lasciamo stare.
Ti devo dire del televisore. Com’è successo insomma. Quando ho sentito nei giorni scorsi che in città stanno accadendo cose brutte, difficili, una vera sciagura, prima il televisore che giaceva spesso per terra per conto suo e silenzioso molto, è stato al centro del mio mondo. Mangiavo pure davanti allo schermo acceso, per lo più non mangiavo per lo stupore.
Molti morti, ovunque. Ma forse i morti erano troppi, allora hanno cominciato a intrattenerci: come fare per sentirsi meno soli, come riuscire una torta che mai hai pensato di fare in vita tua, ecco i giochini che ti potrebbero piacere, una piega perfetta da casa. Mia madre avrebbe detto seria, «ma se neanche posso andare al cimitero». In effetti la piega prende meno peso. Comunque una fila di consigli per sapere cosa fare per non annoiarsi, come se il punto principale della vicenda era il non annoiarsi. Mi sono venuti i brividi capendo che la gente pur di non pensare, preferisce farsi organizzare la vita da altri. Comunque, come andare d’accordo in venti metri quadrati in cinque senza più stipendio non l’hanno detto.
Forse per non urtare la sensibilità. Poi tanti morti ancora. Per i quali non posso fare nulla, allora l’ho fatta finita. Con il televisore.
Un po’ mi è dispiaciuto, era piccolo, di per sé indifeso ma diffondeva una serie di notizie che a degli spari continui e agghiaccianti somigliavano. Senza tregua. Come se fosse un animale ferito, mi guardava implorante, cioè i tasti giù come occhi neri, l’ho portato dietro casa, ho alzato in alto le braccia. Non che io abbia tanta forza, te l’ho detto quando me l’avete regalato anni fa, non l’ho cambiato mai: «ma perché regalarmi un televisore?». Ero stupito assai. Invece voi eravate stupiti dal fatto che non ne volevo uno, e avete preferito credere che non potessi offrirmelo. Ridicolo. Troppo rumore arrivava dalla città. Non se l’aspettava, aveva le antenne drizzate quando l’ho preso da dietro e l’ho scaraventato con forza a terra. Tutto taceva. Non l’ho seppellito. Mi sono messo a piangere come un bambino, come un innamorato deluso, ho pianto uno a uno i morti, li ho contati, almeno quelli che sapevo, i giovani, i medici, gli infermieri, gli anziani e quelli di mezza età, morti come cani senza poter avere una carezza, un sorriso che non sia mascherato dalla paura. Volevo rendergli omaggio, non serve dici? Io penso di sì, omaggiare i morti e i combattenti serve. La televisione da me non entra più. Scemo no. Ma parlo solo di me. Te come stai? Sempre in città e non ti sei stufato? Pensavo arrivasse anche per te l’età in cui sentire cantare un uccello pare la meraviglia più grande. Invece non sei più venuto a trovarmi e quando sento tua madre dice che anche da lei in paese torni pochissimo. «D’estate viene» dice, «d’inverno si sta meglio nella capitale. Lui vorrebbe andassi ma io sto bene qua». Lei ti giustifica sempre. Sai, va molto fiera di te. Ricordi la storia che ci raccontavano quando eravamo piccoli: parlava dei «Topi di città e topi di campagna».
A te piacevano i primi, a me i secondi. A inizio mese sono arrivati i primi. Una famiglia il cui cognome ora mi sfugge, lui un industriale, una moglie e due figli, una femmina sui dodici, un ragazzino di otto. Quella notte ho sentito un rumore sordo. Mi sono alzato e sono sceso al cancello, ho visto passare una macchina, andava molto piano eppure il sentiero l’ho rifatto tutto, senza chiedere una lira a nessuno. A me piace quando tutto è pulito e così la natura intorno si può espandere, ordinatamente. Ordine, l’ordine mi piace; per cui il televisore lo dovrò per forza seppellire. L’industriale ha fatto portare moglie e figli lontano dalla città. Me l’ha detto Renato quando mi è venuto a portare la spesa, tutto preso dal suo ruolo, va anche da loro per cui usa i guanti, quelli da giardino, e si è messo un fazzoletto a quadretti intorno alla bocca che la figlia gli ha cucito. Ha ragione. Mica possiamo passare per scemi. Scemi, no. Il figlio piccolo è venuto qua più volte, all’inizio passava di sotto alla proprietà e fischiava, io rispondevo fischiando, poi dopo un po’ di tempo è salito fin qua. Questo ragazzino è una favola, zitto zitto, ma quando parla si vede che è capace, educato. Spero non ti dispiace se scrivo in italiano. Ecco, una volta a settimana è un ritmo che sembra combaciare con i miei impegni poetici e campagnoli. Una volta a settimana perché neanche sei l’unico a cui ho iniziato a scrivere. Forse ricordi Mariù? Certo che la ricordi. Ti sento già, col tono ironico di sempre e io ritroso a farmi avanti: Parlami d’amore, Mariù…L’Italiano lo capirai benissimo, ormai per me è più agevole. Dalla Toscana ogni tanto intravedo la Corsica. Una sagoma. Ma qui rimango. Ormai una campagna o un’altra. Stammi bene, caro Amico, e salutami la tua cara Mamma.
Con affetto.
Sempre tuo, Horace
RIPRODUZIONE RISERVATA ©Muriel Peretti
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Il volume Congiunti è una antologia di racconti scritti dagli autori di Edizioni Ensemble (2020). Tutti hanno vocazione in questo periodo di distanziamento sociale e dopo i silenzi del lockdown a “congiungere i disgiunti”. Grazie a Muriel Peretti per avere affidato il suo racconto ad Altritaliani.
Scheda del libro sul sito delle Edizione Ensemble