Torno a scrivere il mio Appunto dopo una lunga sosta, che dura dal mese di febbraio. Potrei accampare diverse scuse per giustificare questo lungo silenzio, ma la vera ragione della mia rinuncia a scrivere l’Appunto in questo periodo è stata frutto del desiderio di non guardare l’inguardabile, ossia la guerra nella nostra Europa. Questa rubrica è per me un angolo in cui le considerazioni sulla realtà vorrebbero incrociarsi con una certa leggerezza. In questo caso vedo dolore, tristezza, vergogna e anche un po’ d’ipocrisia. Alla fine, le settimane si sono succedute le une alle altre senza che l’orizzonte si rasserenasse. Eccomi, dunque, di nuovo da voi, purtroppo senza la voglia né la possibilità di sorridere.
L’Europa di oggi è per certi aspetti meno sicura di quella della Guerra fredda. Allora le regole del gioco erano ingiuste e brutali, ma almeno erano chiare. Era l’Europa figlia di Yalta, che ha permesso a Mosca di invadere Budapest nel 1956 e Praga nel 1968. Un’Europa in cui a Est c’erano solo dittature (qualcuna c’era pure a Ovest: in Spagna, in Portogallo e in Grecia fino alla metà degli anni Settanta). Quell’Europa era carica di difetti e nessuno può averne nostalgia. Ma l’esperienza della coabitazione tra blocchi rivali aveva creato un’abitudine a mettersi ciascuno nei panni dell’altro, ben sapendo ciò che per l’altro era davvero fondamentale.
La caduta del Muro di Berlino è stata nel 1989 il trionfo della voglia di libertà degli europei, di tutti gli europei; ma ci ha lanciato una sfida storica: costruire un’Europa diversa, abitata da popoli che restavano spesso e volentieri uguali a se stessi. Sotto il coperchio della dittatura, le spinte dei popoli erano state rinchiuse come in una pentola a pressione. Quelle spinte di «libertà» non coincidono solo con l’esistenza degli Stati nazionali. All’interno di ogni Stato, altre persone pensano di appartenere a popoli che non si identificano col potere centrale. Dal nostro osservatorio ad Ovest, noi c’eravamo abituati (al tempo della Guerra fredda) a osservare l’Europa dell’Est come un insieme di Paesi «compatti», ignorando o sottovalutando le profonde divisioni etniche, religiose e culturali al loro interno. A scuola avevamo studiato la Questione balcanica, ma credevamo appartenesse ai libri di storia. La morte di Tito nel 1980 e i riflessi della caduta del Muro di Berlino, un decennio dopo, hanno rivelato che nel territorio jugoslavo il comunismo aveva nascosto il problema delle nazionalità senza assolutamente risolverlo. Le «incomprensioni» (termine fin troppo soft) tra croati, serbi, albanesi del Kosovo, macedoni, musulmani di Bosnia e così via hanno covato per decenni sotto la cenere, pronte a trasformarsi in nuove rivalità e in nuovo odio.
Questo tsunami di odio nell’Europa dell’Est ci ha sorpresi e continua a sorprenderci. Il nostro atteggiamento ha ondeggiato tra l’inerzia di fronte a certi massacri nell’ex Jugoslavia e le bombe che abbiamo sganciato su Belgrado alla fine degli anni Novanta, al momento del conflitto per trasformare il Kossovo da parte della Serbia in uno Stato indipendente. Anche nei nuovi Stati indipendenti c’erano minoranze, che a loro volta rivendicavano l’autonomia o l’indipendenza. Alla fine (come le minoranze serbe in Croazia e in Kossovo) certe popolazioni hanno pagato il prezzo dell’affermazione dei nuovi Stati nazionali sulle macerie delle vecchie istituzioni federali.
La Storia è più grande di noi e certe volte ci prende a schiaffi. Alla caduta del Muro di Berlino ci eravamo illusi di avere davanti a noi un viale alberato verso un’Europa più unita sulla base dei valori di un nuovo Umanesimo. Invece abbiamo visto il vecchio odio rispuntare un po’ dappertutto, nelle forme più diverse. In Russia il comunismo, che aveva preso il potere con la forza nel 1917, lo ha mantenuto con la forza fino al 1991 senza risolvere alcun problema e aggravandoli tutti. Compreso il problema delle nazionalità, che l’Unione Sovietica aveva creduto (in modo diverso secondo i diversi periodi) di poter utilizzare a vantaggio del potere centrale. Compreso il problema del nazionalismo russo, della fierezza russa, dell’ambizione russa, della potenza russa. Cose che possono non piacere oggi come non piacevano ieri e l’altro ieri, ma con cui bisogna comunque fare i conti.
Alla fine, guardando la realtà di questo 2022, appaiono due elementi di fondo: il bisogno di un nuovo quadro della sicurezza europea e il bisogno di prendere in conto l’intreccio (complesso e talvolta esplosivo) delle diversità umane ancora presenti in quello che fu (e per fortuna non è più) l’universo «comunista».
Dire queste cose può sembrare inutile nel momento in cui la crisi è ormai esplosa e molti hanno voglia di interpretare la realtà come ai tempi delle Crociate: il Bene contro il Male, punto e basta. Nella guerra in corso in Ucraina non c’è dubbio che il torto sia dalla parte della Russia e la ragione da quella dell’Ucraina. Sono state le forze russe ad aggredire l’Ucraina il 24 febbraio scorso. È stato Putin a spiegare quell’invasione con un’arroganza da dittatore d’altri tempi. Prima ancora di cominciare la sua guerra, il Cremlino aveva già perso la sfida della comunicazione, essendosi presentato al mondo col volto della pura e semplice prepotenza.
Il sostegno occidentale all’Ucraina è stato giusto e inevitabile. Bisognava dimostrare a Putin che l’Europa del 2022 non è quella del 1956. Questo era essenziale, questo viene fatto giorno dopo giorno dal 24 febbraio, ma questo non risolve i problemi. I nostri Paesi, già colpiti dalla pandemia di Covid, rischiano una duplice crisi in termini di recessione economica e di insicurezza strategica. Cercare un’intesa per il futuro dell’Ucraina è indispensabile, tanto più che alcuni problemi all’interno stesso dell’immenso territorio ucraino esistono davvero. Cercare quella soluzione è un imperativo per tutti.
Certo è difficile dialogare con una persona come Putin, che ha preso l’iniziativa di lanciare i missili e bombe sulle città. Ma non possiamo essere noi a decidere chi comanda al Cremlino né possiamo accettare l’idea di una guerra che terminerebbe solo a condizione di un’ipotetica e definitiva sconfitta militare russa (col rischio di un’escalation imprevedibile e terribilmente pericolosa). Il nostro avvenire rischia di dipendere dall’esito di questa crisi. Il popolo ucraino vuole prima di tutto sicurezza e noi dobbiamo contribuire a dargliela. Una condizione essenziale della pace è che la comunità internazionale – in primo luogo Washington e la Nato – offra a Kiev garanzie solide, indiscutibili e durature in termini di «ombrello» protettivo. Che sia o no ufficialmente membro dell’Alleanza atlantica, l’Ucraina deve beneficiare di precise garanzie da parte dei Paesi atlantici e in particolare degli USA. Queste garanzie devono includere forniture militari tali da scoraggiare qualsiasi nuova invasione. L’Ucraina deve inoltre avere lo status di Paese candidato all’ingresso nell’Unione europea (anche se sappiamo benissimo che ogni eventuale negoziato d’adesione durerebbe anni e sarebbe tutt’altro che semplice sul terreno economico). Al tempo stesso è ovvio che la Nato si allargherà nell’area scandinava con l’ingresso di Paesi tradizionalmente neutrali: Svezia e Finlandia.
Ma proprio questa vicenda dell’allargamento dell’alleanza atlantica a Stoccolma e Helsinki contribuisce a rivelare le nostre stesse contraddizioni perché la Turchia di Erdogan (il personaggi che Draghi definiva qualche mese fa « un dittatore ») spera di ottenere un consenso occidentale anti-curdo in cambio del proprio assenso all’estensione dell’area atlantica. Stiamo insomma rischiando di sacrificare i diritti del popolo curdo alla (sacrosanta) difesa di quelli del popolo ucraino. Questa non sarebbe una bella cosa. Del resto la Turchia occupa dal 1974 una grande parte di un Paese dell’Unione europea: Cipro, in cui l’intervento militare turco ha portato alla nascita di uno Stato secessionista, che Ankara è isolata al mondo nel riconoscere.
Non usciremo dalla tragedia Ucraina senza coerenza, coraggio e pragmatismo: tre elementi che rischiano in questo caso di essere in contrasto tra loro e che possono stare insieme solo grazie a un’enorme dose di buon senso e di buona volontà. Questo riguarda ovviamente anche il futuro assetto dei territori contesi del Donbass (in cui sono presenti popolazioni filorusse) e della Crimea (annessa con la forza da Mosca nel 2014). Qualsiasi ipotesi di soluzione militare rischia di innescare crisi ancora più gravi, ma se la soluzione non sarà militare, dovranno esserci compromessi. Oggi la prova di forza sembra preludere proprio alla ricerca di un compromesso, ma è spaventoso ammettere che, nell’Europa del 2022, ogni giorno tanta gente muoia perché siano stabiliti i dettagli di quel compromesso, che comunque si dovrà pur trovare.
A trovarlo, o almeno a cercarlo, dovrà pur essere l’Unione europea. Emmanuel Macron la sta guidando in questo primo semestre del 2022 nella sua veste di presidente di turno. Ha fatto quello che ha potuto per mantenere aperto il dialogo col Cremlino, ma l’Europa ha avuto ben poche possibilità di trovare una propria strada tra la fermezza americana e l’irresponsabile aggressività russa. In questo contesto, l’Europa non poteva che appiattirsi sulla Nato, a sua volta, come sempre, controllata da Washington. Il semestre della presidenza francese è stato talmente condizionato dalla guerra in Ucraina, che gli altri progetti di riforma e di rilancio delle istituzioni comunitarie sono passati per forza di cose in secondo piano.
In Francia questi mesi sono ovviamente stati dominati dalla politica interna, con la netta vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali del 10 e del 24 aprile.
Adesso la Francia si prepara alle legislative del 12 e del 19 giugno, quando Macron otterrà probabilmente un altro successo, avendo così la possibilità di restare altri cinque anni al potere senza coabitazioni. La sua maggioranza all’Assemblea nazionale si sta allargando senza cambiare natura. Lo dimostra la composizione del nuovo governo, annunciata venerdì 20 maggio. Elisabeth Borne diventa la terza affittuaria «marconista» dell’Hôtel Matignon dopo due primi ministri provenienti dai ranghi della destra: Edouard Philippe e Jean Castex. È anche la seconda volta (dopo l’infelice periodo di Edith Cresson tra il 1991 e il 1992) che una donna assume le redini del governo francese. Se una donna di matrice socialista diventa primo ministro, un’altra di matrice neogollista, Catherine Colonna, rimpiazza un ex socialista (Jean-Yves Le Drian) alla testa del ministero degli Esteri. Catherine Colonna è stata portavoce del presidente Jacques Chirac all’Eliseo e poi (tra l’altro) ambasciatrice di Francia a Roma e a Londra. Ha lavorato per il dialogo franco-italiano e continuerà certo in quella direzione.
Nel primo governo del secondo quinquennio di Emmanuel Macron c’è in realtà molta continuità rispetto al precedente. I dicasteri chiave dell’Economia-Finanze e degli Interni restano nelle mani dei loro titolari, ambedue provenienti dai ranghi neogollisti dei Républicains, rispettivamente Bruno Le Maire e Gérald Darmanin. Il messaggio macronista è trasparente: si cambia nella continuità. Un rimpasto di governo potrebbe esserci a fine giugno, all’indomani delle elezioni legislative, ma difficilmente ci sarà un «terremoto politico». Il secondo quinquennio macronista è cominciato e adesso si c’è solo da pensare alle elezioni di giugno, che saranno probabilmente caratterizzate dall’elevata astensione e del risultato finale favorevole a Macron e ai suoi alleati, a cominciare dal Modem di François Bayrou. La Francia si è scelta un presidente e vorrà con ogni probabilità permettergli di esercitare il potere che gli ha appena conferito.
Emmanuel Macron ha cominciato il suo secondo mandato quinquennale all’Eliseo all’età di 44 anni, che per le tradizioni politiche francesi coincide più con le prime che con le ultime esperienze al potere. Il presidente guarda al futuro senza avere il complesso che alla fine della loro permanenza all’Eliseo spinse François Mitterrand e Jacques Chirac a porsi il problema del loro ingresso nelle pagine dei libri di storia. Loro sapevano di essere vicini al capolinea. Macron è logicamente convinto di essere alla conclusione di una tappa, ma non certo della «gara» nel suo insieme. È ancora giovane e per lui la «competizione» durerà a lungo. Che cosa vuole in cuor suo? Ovviamente non potrà essere candidato per un terzo mandato, visto che la riforma costituzionale del 2008 è categorica nel proibire questa ipotesi. Ma la Costituzione esclude i tre mandati consecutivi e Macron ha il tempo d’attendere. Potrebbe perfettamente presentarsi alle presidenziali a partire dal 2032.
Per adesso il presidente francese ha davanti a sé un compito relativamente facile e quattro molto difficili. Quello relativamente facile è avere una maggioranza affidabile nell’Assemblea nazionale: le opposizioni di destra e di sinistra sono scivolate verso le estreme, il che riduce di molto le loro possibilità di successo. Dominata da Jean-Luc Mélenchon, la sinistra parla di nuovo «governo popolare», ma la sua vera speranza è quella di fare in Parlamento un’opposizione più consistente che nel corso dell’ultima legislatura. Proprio per bloccare questo progetto, Macron ha scelto una prima ministra – la sessantunenne Elisabeth Borne, di origini socialiste, ex braccio destro di Ségolène Royal.
I compiti davvero difficili sul cammino di Macron riguardano : 1) la possibilità di svolgere un ruolo di mediazione rispetto all’Ucraina, dimostrando che la Francia e l’Europa non sono appiattite sulla posizione statunitense; 2) l’assunzione di una vera leadership comunitaria anche dopo la fine dell’attuale semestre di presidenza francese dell’Unione europea (cosa tanto più necessaria perché, con la fine dell’era Merkel, la Germania sembra perdere un po’ del suo status di « ombelico d’Europa »); 3) il rilancio economico malgrado l’ammontare del debito pubblico, che viaggia ormai su livelli molto superiori al cento per cento del Prodotto interno lordo (siamo al 113 per cento e non è detto che sia finita); 4) il rilancio della riforma pensionistica, che il prossimo Parlamento riprenderà da zero, col rischio (anzi, con la quasi certezza) di una nuova ondata di scioperi e scontri sociali. L’autunno francese potrebbe riscaldarsi, anche indipendentemente dai cambiamenti climatici.
Alberto Toscano
LINK AI PRECEDENTI APPUNTI DI ALBERTO TOSCANO: https://altritaliani.net/category/editoriali/appunto-di-alberto-toscano/
È vero, l’Europa è meno sicura oggi, ha perso, dall’89, occasioni preziose per superare vecchi schematismi internazionali, nonostante la caduta di quelli ideologici. Ma non c’è alternativa alla riaffermazione di un ruolo dell’Europa affrancato da modelli che continuano a mostrare tutto il loro logoramento.