La scomparsa del silenzio

Zitto zitto (per così dire), dalle nostre vite è scomparso il silenzio. Mi trovo sulla metropolitana, circondato da persone che guardano chiassosi filmati sul telefono. Il volume è alto; per sentire meglio, o forse solo per inavvertenza. Inutile fare smorfie, sbuffare, sbattere i piedi (queste le mie strategie, del tutto inefficaci); sono tutti presi per incantamento, per dirla con Dante. Sullo schermo dello smart phone, il telefono intelligente (tutto è intelligente, nel regno della tecnologia), scorrono immagini che tanto intelligenti, a dire il vero, a me non sembrano. Bambini con pettinature orribili e canottiere piene di marchi ballano a ritmi forsennati sotto lo sguardo estasiato degli adulti; aspiranti “influencers” danno consigli su come truccarsi, preparare piatti, dimagrire, ringiovanire, sedurre, essere alla moda, fare soldi, andare su Marte, essere liberi di “inseguire il proprio sogno”.  Un mondo apparentemente addormentato in un ebete sonno senza sogni, e che proprio per questo parla sempre di sogni da inseguire. Le persone che guardano questi filmati sono vestite di tristezza. Ragazze in tuta da ginnastica, i capelli sporchi. Uomini goffi, le teste curve e le scarpe grosse. Estranei, talvolta spaventosi, apparentemente senza speranza. Verrebbe voglia (qualora, per disgrazia, si fosse Dio) di perdonarli. Di abbracciarli. Se non fosse per quel rumore che toglie il respiro. Scendo.

L’altoparlante della stazione diffonde annunci senza ragione, magari per dire che non ci sono perturbazioni sul traffico (cosa questa più difficile, per non dire impossibile, in Italia). Ora mi trovo in coda nella carrozza-bar di un treno. Dietro di me, due ragazze. Una ascolta, l’altra parla, senza interruzioni; accelera, non conosce pause, sembra non respirare (abile come gli attori teatrali, i cantanti lirici). Le sue frasi sono composte quasi esclusivamente da du coup et en fait. Quel che ha da dire (niente) potrebbe dirlo in due parole. Ma vuole occupare lo spazio, tenere ferma la sua preda come il ragno con la mosca. La velocità dell’eloquio diventa vertiginosa. Storie di ufficio, colleghi, capetti, piccole gelosie. Ai tavoli del bar un’altra combriccola di colleghi di lavoro urla ride fragorosamente. Un uomo al telefono parla e gesticola: la riunione, il débrief, la mail.

Ora invece i treni sono italiani. Su un regionale, dei giovani ascoltano rap a tutto volume. Una ragazza strilla con sua madre al telefono. Le chiedo di parlare più piano: mi guarda stranita. Poi sono su un treno più chic, che porta a Milano. In prima classe, una signora, tailleur e valigetta, computer: apparato simbolico di appartenenza al ceto medio-alto produttivo. Per tutto il viaggio non mollerà mai il telefono, neppure per un attimo. Prima, una lunga chiamata. Poi un messaggio vocale, in viva voce: ciao, niente, ho portato fuori Lupo, niente, volevo dirti che comunque non so, per quella cosa, e poi…. ah, sì ho sentito Alberto, ma lo sai com’è Alberto. Il messaggio è interminabile. Lei (deve avere perso qualche passaggio decisivo) lo ascolta due volte. Quando finisce, respiro di sollievo. Ma come per il personaggio del celebre racconto di Hemingway, breve è la mia vita felice: si abbatte la mannaia di una nuova chiamata. Le chiedo pietà. Lei non rinuncia. Sara? Ciao Sara, tutto bene? Scusa eh, parlo piano perché sono sul treno e sai com’è. Ora sono in casa d’altri: ”Alexa, accendi la luce”, “Alexa, metti la musica”. Alexa è recalcitrante (sfido io), non funziona, le invocazioni vengono ripetute: Alexa, Alexa Alexa, sembra Brel: Ay Marieke Marieke, je t’aimais tant.

Sull’aereo, si susseguono gli annunci, supplizio ripetuto in più lingue. Sulla strada, metto gli auricolari per fare una telefonata; automaticamente scatta la musica, una greve e invadente canzone dei Queen. Deve essere qualche diabolica configurazione che io stesso ho impostato senza saperlo, difficilissima (forse impossibile) da rimuovere. Al supermercato, musica dozzinale e lamentosa si alterna a interminabili annunci pubblicitari, che promettono piatti saporiti, saponi formidabili, sconti decisivi, offerte imperdibili. Sono a casa, preparo da mangiare: suona il frigorifero (l’ho lasciato aperto per troppo tempo, e mi ammonisce), suona il forno (il tempo di cottura è scaduto), suona tutto attorno a me.

Il silenzio è scomparso, su di lui è piombato un anatema, è stato sparso il sale come i Romani fecero su Cartagine. Sul silenzio ci sarà presto la damnatio memoriae. Non se ne potrà neppure più parlare con nostalgia, assordati come saremo dai mille annunci, dalle suonerie, dalle telefonate altrui, dalla musica che gira intorno.

Barricandomi, vado a letto, chiudo gli occhi, spengo ogni cosa, compreso me stesso, e per qualche ora non ci sono più. Quando il sonno (dopo ore) miracolosamente sembra arrivato, e con lui una profondissima quiete, in quel momento (improvviso lontano, implacabile), un cigolìo. Una cosa da niente. Il rumore di un apparato meccanico. Il camion della raccolta dei rifiuti. La baraonda sta per ricominciare, e forse stavolta non finirà mai.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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