La peste nel capolavoro di Manzoni, una rilettura attuale e illuminante di Paolo Di Paolo.

Attraverso la sua acuta e puntuale rilettura dei “Promessi sposi” di Manzoni (1840-1842), in giorni complicati come questi per via del contagio del coronavirus, lo scrittore Paolo Di Paolo, autore del bel libro “Lontano dagli occhi” pubblicato recentemente da Feltrinelli, fa comprendere come l’essere umano e i suoi comportamenti non mutano con il passar del tempo. Certi grandi classici della letteratura come Manzoni, Boccaccio e altri, che possono sembrare antichi, non solo sono eterni ma di una contemporaneità inquietante perché hanno saputo scandagliare come pochi l’animo umano e le sue fragilità.

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Uno può dire, legittimamente – e tanto più adesso: chi se ne frega della letteratura. E chi anche la amasse, ha il diritto di sbuffare al nome di Manzoni: come un quattordicenne sul banco di scuola. Oddio, no, Manzoni! Ma vorrei partire proprio da quello sbadiglio che diventa distanza e pregiudizio verso il romanzo più importante e forse meno capito della nostra storia letteraria. Il riferimento Manzoni-peste è così prevedibile e scolastico che anche questo fa sbuffare; e tuttavia dubito che molti, negli anni dopo la scuola, siano tornati a leggere davvero quei capitoli. Normale, per carità. Ci ho rimesso il naso in queste ore, come fossi magnetizzato da un ricordo. E ho ritrovato, ancora una volta, tutto.

Lo stupore del narratore di fronte alla condotta della popolazione: «di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo». All’arrivo delle notizie dai paesi contagiati intorno alla città, «chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine?». Invece, constata il narratore, spesso niente. Spesso soltanto «beffe incredule» o «disprezzo iracondo». «Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente».

C’è perfino la «stupida e micidiale» fiducia di alcuni che non ci fosse peste. C’è perfino chi «derideva gli avvertimenti minacciosi» delle autorità. Ci sono gli scienziati «assaliti da parolacce, quando non eran sassi», affaticati dall’incontrare «ostacoli dove cercavano aiuti». «Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza».

C’è la difficoltà delle autorità nel tentativo di «assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte». Ma c’è anche l’incertezza delle autorità, e talvolta l’inadeguatezza: «il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapessero più farne altro che cederlo».

C’è anche quel tipo di esseri umani che si ostinano nel loro impegno generoso, «sempre affaticato e sempre sollecito»; gli umani dotati di «vigore e sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti». Meritano «che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta per i gran servizi resi da uomini a uomini».

C’è anche una conclusione provvisoria, guarda caso posta a epilogo di un capitolo sulla peste: «Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire».

Non aggiungo altro. Non c’è nessuna lezione da trarre. Siamo peraltro poco disposti a trarre lezioni da alcunché. Manzoni aveva colto una verità umana così profonda e radicata che è in sostanza rimasta immobile. C’è lo stupore per il gesto semplice e maestoso di chi si prova a compiere la sua parte di bene comune. C’è lo stupore di fronte a chi continuerà a non provarci nemmeno – le attenuanti sono infinite e forse tutte valide; siamo in fondo (Manzoni dice anche questo) «tante creature selvatiche», con le paure, gli egoismi, l’ottusità (l’alzata di spalle; il fregarsene di tutto e tutti, pur di bersi comunque la propria indiscutibile birretta; il cinismo del “muoiono solo i vecchi”; la coglioneria del complottismo). Non ci si può fare granché. Ma in giorni complicati e strani come questi, prevale talvolta, sullo stupore commosso, un’immensa e dolorosa delusione.

Paolo Di Paolo

Fonte: pagina Facebook, pubblicato con il gentile consenso dell’autore

LINK INTERNO:
La metafora della peste in Camus e Manzoni
https://altritaliani.net/la-metafora-della-peste-in-camus-e-manzoni/


 


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1 COMMENTAIRE

  1. Quanta verità c’è nello scritto di Paolo Di Paolo! Sono passati secoli ma la situazione, oggi, per il contagio del Coronavirus, è quanto mai attuale. Un invito a rileggere le pagine del nostro A. Manzoni e constatare che i comportamenti degli uomini è simile e ciò provoca inquietudine e sgomento. Lo sto vivendo qui nella mia città, chiusa, nel silenzio della mia casa. Non c’è giorno che qualcuno che conosci non ne sia contagiato. Provo dolore, penso e rifletto. Mi auguro di cuore che ciascuno, con senso civico e responsabilità, rispetti « le regole » e che se ne possa uscire presto. Niente sarà più come prima. Spero, tuttavia una maggior consapevolezza dei valori autentici.
    Un grazie a Paolo Di Paolo e ad Altritaliani per la pubblicazione dei buoni articoli culturali.

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