La lingua italiana e l’invasione di anglicismi (inglesismi…)

In Italia è normale per chi fa un discorso o redige uno scritto introdurvi parole inglesi di suo gradimento. I giornalisti italiani iscritti all’albo, che non è sempre un albo d’onore, sono i primi a far largo uso di anglicismi. L’inglese non manca mai nei titoli dei giornali: Corriere della Sera, La Repubblica, la Stampa, il Sole24ore, il Giornale, ecc.

Nei dizionari d’italiano il numero delle parole inglesi non fa che crescere. Non tutti questi termini attecchiranno, ma anche se provvisori gli inglesismi, anglismi, anglicismi indeboliscono la nostra lingua. Diversi vi rimarranno permanentemente sloggiando termini italiani che quasi nessuno userà più, come è avvenuto con killer che ha eliminato d’un sol colpo assassino, omicida, uccisore, sicario. Un delitto perfetto. Altri si affiancano alla parola italiana di cui diventano un sinonimo, dalla patina però nobile: standing ovation, bodyguard, jackpot, brand, pressing, ecc.

Nel libro “L’anglo-latinorum degli italioti; la disgregazione di una lingua e di un’identità” (Edarc edizioni, 2024) di cui sono l’autore, denuncio gli effetti che ha sulla lingua italiana questa inondazione di termini inglesi e pseudo inglesi.

La colonizzazione linguistica ad opera dell’inglese è planetaria. Essa deriva da una globalizzazione culturale operata dal più forte: gli Usa. Questo fenomeno d’asservimento linguistico tocca l’apice in Italia (“l’Italia è al top” commenterebbero i giornalisti del C. della S. o di un qualunque altro giornale italiano), paese in cui lo sbracamento linguistico non conosce limiti, tanto che la nostra lingua, secondo alcuni, merita il nome di itangliano (itanglish, itanglese, italese, italiese, italianese).

L’inglese è una lingua molto ricca di termini. Il vocabolario della moderna tecnologia è in gran parte inglese. Gli USA sono esportatori di modelli culturali attraverso il globo. Ma una cosa è adottare un termine inglese che colma una lacuna del vocabolario italiano o che identifica un qualcosa che è nato in inglese, vedi ad esempio lo strumento medico stent che ha preso il nome dal suo inventore, e un’altra è introdurre pappagallescamente flop al posto di fiasco, jackpot invece di montepremi, pressing invece di pressione, sollecitazione, richiesta insistente. In spregio oltretutto al “suona bene”, cioè all’eufonia, vera camicia di forza cui gli italiani dicono di tenere moltissimo, e che li spinge, tra l’altro, a rifiutare certi femminili professionali perché sgraditi alle loro caste orecchie.

Nello Stivalone il linguaggio istituzionale non rifugge dagli anglicismi. Anzi, le autorità politico amministrative vi ricorrono in cerca di modernità ed autorevolezza: Question time, Social card, Cashback… Vi sono persino leggi recanti un nome inglese: Jobs act, Election day, Stepchild adoption, Stalking, ecc.
Il mondo della cultura non è da meno. Nelle comunicazioni emananti dalle università, e da un gran numero di enti ed istituzioni del mondo culturale, le parolette ed espressioni inglesi sono ineludibili. Il che mi induce a chiarire un punto fondamentale: la parola inglese, entrata nell’uso italiano, acquista una connotazione superiore a quella della prosaica parola italiana di cui ha preso il posto, e di cui “innalza” il significato (questo fenomeno è chiamato diglossia lessicale). L’anglicismo diviene allora insostituibile.

La subordinazione linguistica al padrone è oggi legittimata dal mondialismo e dalla globalizzazione culturale e politico finanziaria in atto da tempo attraverso il pianeta. E noi non possiamo negare che ci sia una certa coerenza in coloro che si battono per l’abbattimento di porte, muri, frontiere a favore del magnifico Diverso, e inneggiano alla varietà e alla diversità, e che quindi si dichiarano in favore anche della mescolanza di lingue, con l’inevitabile subordinazione, però, alla lingua del più forte.

Gli anglofili nostrani, da sempre campioni di esterofilia, d’ibridazione e di copia-incolla, vedono nella difesa della lingua italiana contro i forestierismi un antistorico, pericoloso nazionalismo. Durante il Ventennio, è vero, il governo combatté i “barbarismi”, e lo fece con uno zelo eccessivo. Ma che somiglia molto a quello di cui danno prova i francesi di oggi nel proteggere la loro lingua: vedi il fattivo operato dell’“Académie française”.

Questo “mix” anglo-americano viene giustificato attraverso l’argomento che la lingua è un’entità viva, mobile, in continua evoluzione che non accetta censure e imposizioni puristiche dall’alto. In realtà, la lingua italiana stessa, se proprio vogliamo, è un prodotto d’ingegneria linguistica. L’italiano deriva dalla lingua di Firenze, nobilitata dalle creazioni letterarie e fatta assurgere a lingua nazionale unitaria. Al di fuori della Toscana, gli italiani parlavano il loro specifico dialetto. E hanno continuato a farlo fino a che i governanti, attraverso la radio, la scuola, la televisione, la burocrazia, non hanno imposto a tutti gli italiani la nuova lingua. Che quindi viene dall’alto.

Secondo i difensori dell’itanglese, i termini inglesi vengono dal basso, dal popolo. Gli anglicismi sarebbero come i frutti di una rigogliosa pianta che cresce spontanea sul suolo patrio. Niente di più falso perché in Italia sono i politici, i conduttori televisivi, i giornalisti, i personaggi di spicco, l’élite insomma, a fungere da spacciatori (“pusher” per gli italiani) dei termini inglesi, e non il popolino; termini spesso inutili e quindi dannosi, e mal pronunciati; o persino erronei, vedi rider che sta per fattorino in bicicletta, e writer per graffitaro o imbrattamuri. Questo itanglese nasce in alto, in seno alla nostra “crème de la crème”, politica, economica, culturale, e quindi scende verso le masse della penisola. Le quali se ne pascono beate, perché, al pari delle loro élite, sono amanti anche in campo linguistico delle mode e dei trasformismi.

Claudio Antonelli

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Claudio Antonelli
Claudio Antonelli (cognome originario: Antonaz) è nato a Pisino (Istria), ha trascorso la giovinezza a Napoli, oggi vive a Montréal (Québec, Canada). Bibliotecario, docente, ricercatore, giornalista-scrittore, è in possesso di diverse lauree in Italia e in Canada. Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi, è autore di innumerevoli articoli e di diversi libri sulle comunità di espatriati, sul multiculturalismo, sul mosaico canadese, sul mito dell’America, su Elio Vittorini, sulla lingua italiana, sulla fedeltà alle origini e la realtà dei Giuliano-Dalmati in Canada, sull’identità e l’appartenenza...

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