Per Joseph Brodsky (poeta russo, premio Nobel nel 1987) a caratterizzare la poesia è l’uso simultaneo delle tre principali (se non uniche) forme cognitive : quella analitica, quella intuitiva e infine la forma della rivelazione.
Chi ha poche frequentazioni con la parola poetica sembra talvolta credere che queste forme siano antitetiche. La prima, analitica, coinciderebbe, in modo esclusivo, con l’agire razionale. La seconda (l’intuizione) sarebbe quella dell’arte (a cui verrebbe affidata una sorta di sospirosa missione di stampo estetico, decorativo). Infine, la terza, la rivelazione, sarebbe caratteristica della sfera religiosa, se non addirittura del pensiero più primitivo.
Questa ripartizione dei modi cognitivi, come forme mutualmente esclusive, e organizzate gerarchicamente, è piuttosto diffusa ma anche (con ogni evidenza) una sciocchezza.
C’è molto di intuitivo nella conoscenza scientifica. Ad esempio, la comprensione della matematica (disciplina astratta quant’altre mai) avviene soprattutto in forza di quello che in psicologia è detto insight: una percezione improvvisa e netta, che brucia le tappe dell’analisi per consegnare la legge matematica al terreno dell’evidenza, della necessità, persino dell’eternità (le leggi matematiche valgono non solo in ogni mondo possibile, ma anche in ogni tempo possibile). Quello che è considerato il campo analitico per eccellenza (la scienza, la tecnica) è invece, al contrario, spesso caratterizzato da accettazioni acritiche, fideistiche. Che possono benissimo apparentarsi al modo in cui un fedele troppo conformista accetta una rivelazione. Per riprendere un’espressione di Kant, l’esperto di tecnica guarda « con occhi di talpa » al suo campo. Non riesce a situarlo in un contesto più ampio, lo dà per scontato e lo considera « valore in sé ». Da qui, da questa forma mentis fideistica, discende l’ideologia del « progresso tecnico » come inevitabile e ineludibile, « bene in sé » (basta pensare a certe litanie sull’ »innovazione ») indipendentemente dalla sua effettiva utilità o necessità.
La poesia, come dice Brodsky, invece usa tutti e tre i modi della conoscenza (analisi, intuizione, rivelazione) e finisce, quasi miracolosamente, per coincidere con la sua lingua. Come la musica coincide con il suono. Questo non significa che sia intraducibile (anzi, il suo senso è al centro di tutte le sue traduzioni, dice Benjamin). Significa forse, io credo, che la poesia coincida con la precisione della sua lingua. Dante, Leopardi, Pascoli, Montale (per restare nell’ambito della letteratura che conosco meglio, quella italiana) portano all’estremo questa identificazione tra lingua e poesia, proprio in virtù della loro assoluta (starei per dire abissale) precisione di linguaggio. Si tratta di un bisturi vertiginoso che, paradossalmente, produce la moltitudine infinita di sensi che rende quella poesia perennemente evocatrice. Ogni volta originale, nuova, inedita. Analitica, intuitiva e rivelatrice, per riportarci alle categorie di Brodsky.
Il linguaggio imperante (tecnocratico, pragmatico, utilitaristico) è esattamente all’opposto: ristretto nel vocabolario, impreciso e spesso vuoto di ogni significato. Lo si vede nelle formule retoriche della comunicazione pubblicitaria, aziendale e politica: il nostro mestiere è fare banca, fare sinergia, fare sistema, ottimizzare i processi, valorizzare le nostre eccellenze, il futuro è adesso (tutte frasi vere). Formule che non hanno significato, non «dicono» nulla (o, al più, banalità che potrebbero essere espresse assai più sobriamente), in cui una parola è intercambiabile con un’altra. Litanie insensate, che galleggiano su un registro enfatico e simili-religioso: quello di una rivelazione grossolana, privata di ogni Dio e di ogni cielo.
Ecco, credo, perché il filosofo Giorgio Agamben dice che c’è una vicinanza, salvifica, tra la lingua della poesia e quella della filosofia: « tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome ». Così dice Agamben, completando idealmente la tesi di Brodsky da cui siamo partiti.
Se c’è una (tenue) speranza per il mondo di salvarsi dalla deriva tecnocratica (che svuotando il linguaggio svuota il pensiero e riduce il mondo a ben povera cosa; a spettatore passivo del “progresso tecnico”), io credo che stia in quel luogo in cui le lingue della poesia e della filosofia si incrociano. Usando, entrambe, i modi dell’analisi, dell’intuizione e della rivelazione, cioè l’arco intero degli strumenti che l’essere umano ha a disposizione, qualunque cosa accada, per interpretare sé stesso e il mondo. Forse, se c’è, Dio abita proprio in quel luogo.
Maurizio Puppo
(nel logo Joseph Brodsky)