La banalità di Trump

Nel quartiere in cui sono cresciuto (ponente genovese) un tempo c’era una bella spiaggia, molto frequentata. Il quartiere era abitato in gran parte da famiglie di operai. Lavoravano nello stabilimento siderurgico dell’Italsider, nelle fonderie San Giorgio o nei cantieri navali di Sestri. Era gente che aveva avuto poche possibilità di andare a scuola; e (nonostante le fole che adesso descrivono quegli anni come un’età dell’oro) abbastanza povera, anche se assai meno rispetto alle generazioni precedenti.

Alla fine degli anni Settanta le cose cambiarono. La spiaggia venne cancellata per fare spazio a un porto industriale, in nome di sviluppo e lavoro. Ci fu la benedizione delle forze politiche, comprese quelle di sinistra, al tempo poco sensibili ai temi dell’ambiente e della preservazione del territorio. Antonio Pennacchi diceva che tutti vogliamo le biciclette per correre nel verde, ma non le acciaierie necessarie per costruirle. Vero. Ma perché tocca sempre ai poveri rinunciare alla loro parte di ricchezza? Nel quartiere arrivò l’eroina, e qualche anno dopo, come dappertutto, l’AIDS. Ragazzi che avevano corso e riso di soppiatto assieme (per misteriosi segreti che gli adulti poi dimenticano), tanto vasta sembrava la vita davanti, morirono come maschere macabre su letti d’ospedale. Nel giro di pochi anni, della spiaggia popolare di un tempo restò il ricordo. Poi una cartolina sbiadita (una foto in costume di Angelo Sotgiu e Angela Brambati, rispettivamente “Biondo” e “Brunetta” dei “Ricchi e poveri”). E infine, più nulla.

Pra balneare anni 70
Porto Pra’ a Genova

Se non si fosse costruito il porto, cosa sarebbe successo? Forse, un giorno, con la buona scusa del degrado portato dalla droga, sarebbe arrivato qualche politico con un progetto di “riqualificazione”. Avrebbe detto che bisogna “valorizzare le nostre eccellenze”, che è assurdo sprecare le potenzialità del territorio, che si deve diventare attrattivi per i turisti e gli investimenti. La spiaggia sarebbe forse divenuta un luogo turistico organizzato, di medio cabotaggio, con ristorantini e smercio dei prodotti (anzi: delle “eccellenze”) locali. Le case avrebbero aumentato il loro valore. Nel tempo, il quartiere avrebbe cambiato composizione sociale, e sarebbe stato abitato da famiglie benestanti desiderose di “realizzare il loro sogno”: vivere al mare (gli operai di un tempo non lo sapevano neanche, di avere dei sogni da realizzare. O magari sì: un sogno collettivo però. Vivere più decentemente, e magari non morire di silicosi o cancro della vescica come capitava a tanti operai dell’Italsider).

Tutto questo per dire che, in fondo, l’idea di Trump, trasformare Gaza in un ritrovo “chic” per turisti (possibilmente ricchi, probabilmente scemi), dopo averne deportato gli abitanti, non dovrebbe scandalizzare più di tanto. Non perché sia condivisibile (non lo è, almeno per me. E un’importante organizzazione progressista ebraica, Jstreet, ha espresso “disgusto” di fronte a tale proposta). Per quanto spaventosa, è un’idea totalmente in linea con lo spirito del tempo. È la logica conseguenza del mantra “valorizzare le eccellenze”, “sfruttare il nostro potenziale », dell’idea che ogni difficoltà sia “un’opportunità”. In questa visione delle cose, ogni luogo deve essere messo al servizio della produzione o del consumo, del dovere o del piacere: inteso, quest’ultimo, nel senso della vacanza, dello spassarsela, del centro turistico dove si può “non pensare a niente” e invocare il nostro nuovo Dio, unico come in ogni religione monoteista: il “profiter nostro che sei nei cieli”.

Se un territorio in riva al mare è devastato da guerra, terrorismo, fondamentalismo, odio, intolleranza, la nostra speranza non sarà portarvi pace, ragione, convivenza e amicizia tra i popoli, tolleranza, istruzione, buone condizioni materiali, giustizia per tutti. No; sarà “valorizzarne l’eccellenza”, trasformandolo in centro turistico. Questo, ci dice Trump. Deportare altrove i poveri che danno fastidio, generare conformistico benessere per i ricchi. L’alternativa alla guerra non è più la pace, ma un mondo trasformato in campi di deportazione per qualcuno e in Disneyland per altri.

Questa banalità del male (anzi, per parafrasare la frase di Hannah Arendt, questa banalità di Trump) è la figlia naturale del nostro tempo: un vaso di Pandora (di scemenze volitive, generate da intelligenza artificiale o stupidità naturale che siano) che sembra senza fine.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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