La ballerina della Scala, un racconto breve

La scala. La scala stretta e umida si perdeva in un androne pieno di pezzi di motorini, lavatrici, televisori e stratigrafie di sacchetti della spazzatura colmi di materia ormai indecifrabile ed affrescati con scritte di diversa natura le quali, come sui muri scrostati di una chiesa medievale, costruivano una sinfonia di storia e storie, dalle scritte più antiche che rivendicavano tutto il potere a chi lavora, a quelle più recenti in cui Muhammad dichiarava amore eterno a Deborah (con la h, sì) o Tizio era chiamato infame da Caio.

Attraversato l’androne con piedi flessuosi e volanti come quelli di Mercurio, un cortile dal colore dell’autunno la accompagnava col rumore delle foglie cadute sino alla fermata dell’ autobus che, attraversando varie decine di migliaia di euro di reddito dichiarato ed altrettante di reddito non dichiarato, la portava sino in centro, oltre la circonvallazione che segnava il confine fra i sommersi e i salvati di quella globalizzazione nella quale la sua città si vantava di nuotare a grande falcata.

Stazione Bande nere, metro di Milano

Quella strada l’aveva percorsa migliaia di volte sin dai tempi dell’asilo, quando sua madre, facendola svegliare ad orari che dovrebbero essere illegali, la accompagnava insieme al fratellino sino a Bande Nere, per poi iniziare la sua giornata di lavoro quasi in regola da una signora di Corso Vercelli che non era razzista, ma che aveva assoluto bisogno di quella donna venuta da Asmara, senza la quale non riusciva neppure ad andare in uno dei due bagni di cui era dotato il suo appartamento.
L’avrebbe percorsa ancora alle medie, ormai da sola e, qualche anno dopo, per andare al liceo e poi all’università ed al conservatorio, perché anche se nasci non italiana alla periferia della seconda città italiana, non è detto che tu non possa andare al liceo, all’università ed al conservatorio. Erano stati proprio quelli, gli anni in cui lei, nata in Italia alla periferia della seconda città italiana (capitale morale eccetera eccetera), si era accorta di non essere italiana (come le aveva detto un compagno di classe che avrebbe poi fatto successo come consigliere di zona in un certo partito di destra) e, addirittura, di essere povera. Prima, ai tempi di Bande Nere (quel nome non lo associava ad un antico capitano di ventura ma ad avventure da giungla urbana, e la affascinava sempre, come se si trovasse nel Bronx), non era questione se uno fosse italiano, non italiano, bianco, marrone, nero o giallo: semplicemente si stava insieme e, addirittura, da piccoli si insegnava la lingua ai grandi. In certi casi, si insegnava persino il milanese: « Muccala » diceva Mohammed a Deborah, prima di mettercisi insieme.

Crescendo era stato tutto diverso, e quella voglia di giocare e stare insieme era diventata una rabbia che esplodeva in certi momenti, un senso di isolamento, un sentirsi sempre da un’altra parte, come quando andava a fare il permesso di soggiorno per vivere nella città in cui viveva. Ma la rabbia e l’isolamento, per fortuna, quando hai vent’anni e hai voglia di ridere e vivere, se ne vanno in un amen, tante essendo le cose da fare e respirare, soprattutto in quella città che, seguendo gli anni in cui lei cresceva, pur con mille contraddizioni si faceva più viva e più aperta.

E poi aveva la musica, aveva la danza, aveva una Bellezza tutta sua, persino difficile da spiegare agli amici di sempre e a quelli nuovi: loro ascoltavano il rap, guardavano i video e li sparavano a palla negli altoparlanti Bluetooth al capolinea di Bisceglie. Lei ascoltava Franz von Suppé (compositore austriaco di operette), volteggiando col pensiero lungo le volute della cavalleria leggera o si dimenava come una menade lungo le note del Macbeth, agitando braccia e gambe mentre la voce della signora della metropolitana diceva: “Inganni, fermata Inganni, apertura delle porte a destra, doors open on the right” (inganni era la prima fermata dopo il capolinea. Ma non era un pittore di discreta fama locale: erano le promesse tradite di una generazione che viveva con “lavoretti” e stages). E lei ballava, con la mente e con il corpo, mentre intorno scorrevano gli inganni, le facce piegate sui cellulari, i discorsi ad alta voce in mille lingue, le bambine e i bambini della scuola di Bande Nere, con passeggini in doppia fila e mamme con lo sguardo nel vuoto.

Scorreva la città, scorrevano i sogni, i pensieri e anche lei, che oggi stava andando alle prove del balletto, selezionata fra tantissime, e ci andava in metro, non in taxi come molte delle sue compagne di corso. Ma ci andava, lei, la prima del suo quartiere ad andarci.
Duomo, fermata Duomo
. Il riemergere sulla grande piazza, la luce abbagliante del gotico perenne, aristocratico ma col coeur in man. La Galleria, le gambe e i piedi che danzano senza coreografia, e poi la Scala. La Scala. Era pronta per le prove: avrebbe ballato alla Prima della Scala.

Ennio Cirnigliaro

LINK Altritaliani ad ALTRI RACCONTI “psicogeografici” di Ennio CIRNIGLIARO, archeologo e storico genovese. Storie vere, a volte di fantasia, ma sorgono tutte da un dove preciso, reale, dalla cartografia personale dell’autore.

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Ennio Cirnigliaro
Ennio Cirnigliaro è nato a Genova nel 1974. Archeologo per professione e vocazione, militante politico di lunga data, indaga il presente con quella particolare chiave di lettura “stratigrafica” propria di chi ha l’abitudine di inserire i fenomeni singoli in un più ampio contesto. Ha pubblicato su riviste varie articoli specialistici nel suo ambito, oltre che testi politici e sociali aventi come denominatore comune l’antifascismo, l’antisessismo, l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’ecologia sociale. Ha pubblicato per Prospero editore “Medioevo digitale. La storia contemporanea attraverso i social network”, 2021.

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