Ho letto su Altritaliani l’articolo di Giuseppe Samonà a proposito dell’eterno fascismo italiano. Convengo con l’autore e con l’opinione di molti politologi che a sinistra qualcosa è sfuggito e non da ora. Ecco qualche mia riflessione aggiungendo l’interrogativo al titolo.
La gente comune critica l’ultimo Segretario e trasforma il voto in protesta con relativa caccia agli errori e all’errante. Basta aprire FB e gli improperi a Renzi sono pari a quelli dei due tribuni.
Che serva da lezione, sembrano dire a chi obietta! Peccato che nel silenzio dell’urna la lezione divenga una scelta di campo, un passar per rabbia dall’altra parte, cosa che in Italia non è nuova tanto che si chiama cambiar casacca.
Su tanta rabbia e urgenza di cambiare casacca la storia ci sovviene. Basta pensare a quanto accadde nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943. Tanti, soprattutto i giovani, si trovarono, nel volgere di poche ore, a decidere se aderire alla Repubblica Sociale Italiana e continuare la guerra a fianco dei nazisti oppure aggregarsi al nascente movimento partigiano e andare sui monti a giocarsela tutta sulle orme di Matteotti e di intellettuali e politici che avevano già pagato con la vita o con la fuga all’estero l’opposizione al fascismo. Non è facile capire individualmente le ragioni di una scelta affrettata, compiuta dopo vent’anni di martellante propaganda fascista. Forse le scelte furono influenzate dalle singole esperienze di vita, nord e sud, città e campagna, grado di istruzione etc.
Tutti scelsero da che parte stare, molti partirono senza esitazione, altri l’avrebbero fatto poco dopo, per scelta ideale, anzi ideologica ma anche per evitare gravi pericoli. Un periodo terribile che qualcuno si ostina a chiamare guerra civile. So bene che la situazione attuale è ben diversa come più complesso era il quadro storico del sett.’43.
Il due giugno 1946 fu proclamata la Repubblica e, appena venti giorni dopo, il neo ministro degli interni V. Togliatti firmò l’amnistia. Non fu proprio il volemose bene e neanche il faccimme ammuine ma analizzare le conseguenze di quella scelta politica ci porterebbe a chiarire importanti aspetti della nostra analisi.
Gli apparati militari e gli alti livelli della burocrazia non vennero rimossi e con gli uomini anche le coscienze seguirono la stessa sorte. L’adesione alla Repubblica democratica fu un’opportunità per transitare ufficialmente nei ranghi di un antifascismo di facciata senza pagare il prezzo di qualsiasi ravvedimento non formale. Si procedette ad affrettare un clima pacificatorio i cui effetti furono, almeno nella prima fase, positivi. Come è scritto nelle favole, passarono gli anni, gli italiani comprarono l’automobile e la prima lavatrice ma fu soprattutto la televisione quella che, per usare una parola di Totò, funzionò da “ livella”. Nacque sugli schermi la nuova Italia del sabato sera, del Festival sanremese e del “non è mai troppo tardi”. Poi sul progresso senza fine ci si dovette ricredere con il ‘68 italiano ma soprattutto con le grandi tragedie nazionali in cui il Paese si ritrovò per la prima volta unito nel lutto tranne poi ricadere senza vergogna alcuna nel rifiuto dei meridionali terroni che sbarcavano a frotte a Torino richiesti da FIAT e dalle Aziende del Triangolo d’oro.
Il fascismo continuava l’immersione nascondendo documenti e organizzando stragi e delitti eccellenti ma fu considerato solo uno dei problemi come la mafia, pericolosa al sud come il fascismo lo era a Nord etc. L’MSI di Almirante fu legittimato come pure si sottovalutarono negli anni fenomeni pericolosi come Gladio, la P2 etc.
Scorrere la storia di quei decenni è un po’ come risalire alla sorgente di stragi dimenticate, verità nascoste, servizi segreti deviati e infedeli, una sequela che, in barba ai principi costituzionali e alle leggi vigenti, non ha impegnato più di tanto nella costruzione di argini robusti contro le recrudescenze fasciste.
L’A.N.P.I. era e restava la teca della memoria, opportuna per commemorare le stragi e le grandi festività civili ma impotente e marginale nel fronteggiare la perdita di memoria che si verificava nelle nuove generazioni. Sempre in prima fila nei cortei ma distaccata da un’opinione pubblica attratta dal progresso tecnologico e dalle vaghe promesse del Dio Denaro comunque guadagnato.
La crisi economica ha fatto saltare i ponti che, già prima del crollo del Morandi, univano un impianto istituzionale democratico dominato dal sogno europeistico e la crisi economica legata al disastroso ventennio berlusconiano dominato da evasione a 360 gradi e degrado morale in tutte le sfumature di grigio.
Fra le concause delle nebbie del presente di cui ho cercato di tracciare sommariamente alcune linee, non si può non citare il dramma delle lezioni americane dopo l’elezione di Trump, un Medio Oriente in una perenne condizione disperante, le migrazioni, sebbene non superiori a quanto accaduto in Francia con l’Algeria e in Italia con l’Albania ma usate in tutta Europa per rinfocolare l’odio razziale mai sopito e mai decisamente combattuto.
Ciò che in Italia si è verificato dopo il 4 Marzo è solo l’inasprirsi di una situazione interna legata, a mio avviso, più che alla vittoria dei populisti di destra, alla sconfitta del maggior partito della sinistra democratica europea.
Gli elettori, più che preoccupati dell’avanzare della destra, hanno organizzato un trionfale referendum contro Renzi indicato come il responsabile del tradimento dei valori della sinistra democratica e riformista. Il risultato, del resto atteso, non è stato un arretramento di percentuali ma una sconfitta devastante e senza uscita.
Dopo mesi da quell’infausta data, ancora si discute e ci si confronta sulle primarie e sulle candidature piuttosto che sull’urgenza di una congresso rifondante in grado di tenere insieme l’elettorato per tentare una risalita. Il quadro politico è scoraggiante ma non riesco ad essere pessimista. E’ nel buio dei fondali che bisogna trovare il varco. I giovani sono disorientati e anche confusi ma non sono fascisti e neanche convinti di orientarsi verso le destre. Frequento le scuole e penso che, nella devastante situazione, si avverta una voglia di riscatto e un sussulto di recuperare la dignità perduta che è tuttora presente e contraria alla rassegnazione e all’accettazione dell’esistente. Non è il caso di azzardare percentuali ma mi rifiuto di credere, oltre le apparenze più o meno artefatte, che l’Italia sia un paese di razzisti, di malavitosi evasori, di adoratori del personale interesse impersonato dai due triumviri e dalle macchiette che fanno da scandaloso contorno al quotidiano vivere.
Sono propenso a credere che il mio Paese sia, come altri nell’Unione, un Paese sfiancato dalle crisi e deluso da prospettive riformiste ed economiche che si allontanano. Ma tuttavia ciò non basta a descrivere un Paese rassegnato alla decadenza a suon di scarpe sbattute sul tavolo.
C’è bisogno di tempo per risanare profonde ferite. Fiducia cercasi che vada nutrita da una classe politica che torni unitariamente ai valori, a professare un antifascismo che non sia di facciata.
Smettiamo di misurare la pienezza delle piazze storiche né il rosso prevalente nelle bandiere, torniamo a guardare lontano ma partendo da chi ci è accanto. Insieme a persone credibili e disinteressate c’è un cammino che consente, camminando sulle proprie gambe, di riscrivere un nuovo patto generazionale cui i giovani non faranno mancare il contributo responsabile di idee in grado di riscrivere le parole nuove che, dopo la lotta di liberazione dal nazifascismo, non siamo riusciti a raccontare con sufficiente chiarezza.
Giovanni Perrino